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Cambogia, 40 anni dopo

gli ostacoli alla giustizia internazionale

Il 17 aprile di quarant’anni fa i Khmer Rossi di Pol Pot entrarono a Phnom Penh, dando inizio al genocidio cambogiano che dal 1975 al 1979 portò alla morte di quasi un abitante su sei del Paese del sud-est asiatico. Una volta deposto il governo in carica, i cosiddetti “Grandi Fratelli” misero in atto un regime di terrore, attraverso l’eliminazione delle minoranze religiose e degli elementi legati al vecchio sistema di potere e la deportazione di centinaia di migliaia di persone dalle città alle campagne.
In Cambogia i Khmer Rossi diedero vita a un vero e proprio sistema concentrazionario, basato su centri di “rieducazione” come il famoso carcere S-21, diretto dal “Grande Fratello” Duch.

A distanza di quarant’anni, il governo cambogiano è ancora accusato di torture, omicidi, arresti arbitrari, processi sommari, censura e limiti alla libertà di associazione. Il primo ministro Hun Sen, ex quadro del regime dei Khmer Rossi, al potere in Cambogia da 30 anni, nonostante sia riuscito a portare una modesta crescita economica nel Paese, lo sta trasformando in uno Stato autoritario a partito unico. Associazioni per i diritti umani come Human Rights Watch accusano Hun Sen anche di ostacolare attraverso ostruzionismo, ritardi e corruzione i processi delle Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia, chiamate a giudicare i crimini commessi dai Khmer Rossi.

La strada per la giustizia in Cambogia è apparsa complicata fin dal crollo del regime nel 1979, a cui per dieci anni seguì l’occupazione vietnamita del Paese. I nuovi uomini al potere invocarono immediatamente un processo per i Khmer Rossi per autolegittimarsi legalmente e moralmente nei confronti di una comunità internazionale contraria all’invasione, e condannarono a morte con l’accusa di genocidio i due maggiori responsabili del regime cambogiano, Pol Pot e Ieng Sary. I riflettori tuttavia erano puntati sulle violazioni dei diritti umani del nuovo regime occupante, e la comunità internazionale si concentrò più sul tentativo di destabilizzare i vietnamiti che sull’avvio di processi contro i Khmer Rossi.

Il ritiro delle truppe vietnamite portò all’Accordo di Parigi del 1991, che pose le basi per le prime elezioni democratiche, tenutesi nel 1993. Nel testo dell’accordo, tuttavia, mancava ancora un riferimento alle responsabilità per i crimini commessi dai “Grandi Fratelli”. Solo nel 1997, il governo di Hun Sen chiese l’aiuto delle Nazioni Unite per dare il via ai processi, rifiutandosi tuttavia di istituire un Tribunale completamente indipendente. Dopo un difficile negoziato tra le autorità cambogiane e l’allora Segretario ONU Kofi Annan, nel 2001 l’Assemblea Nazionale diede vita a una corte chiamata a giudicare tali crimini, le Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia. L’accordo finale con le Nazioni Unite fu siglato nel 2003, e le Camere si insediarono nel 2006 con una formula mista - ovvero con la partecipazione di giudici nazionali e internazionali.

Le ultime accuse rivolte dalla Corte sono state a carico di Ao An, Im Chem e Meas Muth, per crimini contro l’umanità e crimini di guerra.
Dopo nove anni e più di 205 milioni di dollari di spese, la Corte ha tuttavia portato a processo solo 5 leader dei Khmer Rossi: Kang Gech Iev (ovvero il “Grande Fratello” Duch), condannato all’ergastolo; Nuon Chea, il numero due dopo Pol Pot, e Khieu Samphan, ex Capo di Stato, attualmente a processo per genocidio (l'esito è previsto per la metà del 2019) e in attesa dell’appello dopo la condanna all’ergastolo per crimini contro l’umanità; Ieng Sary, deceduto mentre era in custodia; Ieng Thirith, cognata di Pol Pot e moglie del Ministro degli esteri dei Khmer Rossi, che dopo cinque anni di detenzione è stata dichiarata mentalmente inabile e rilasciata.

8 aprile 2015

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