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Il Colonnello Tsvetan Mumdzhiev

il militare bulgaro che salvò i forzati ebrei

Un eroe militare


di Steven F. Sage




Primavera 1943.   Il governo filonazista di Sofia si sta di nuovo preparando a deportare gli ebrei bulgari nel Terzo Reich, destinazione le camere a gas nella Polonia occupata dai tedeschi.    


Era già il secondo tentativo del regime. In precedenza, a marzo di quell’anno, la Resistenza aveva obbligato il governo a postporre la deportazione. Il vicepresidente del Parlamento, Dimitar Peshev, aveva fatto circolare una petizione che esortava il governo a desistere. Con 43 firmatari contribuì a ottenere un rinvio per alcune vittime, per cui solo gli ebrei delle parti recentemente ammesse della Jugoslavia e della Grecia andarono a morte, mentre il resto, circa 49.000 persone della “vecchia Bulgaria”, rimasero vive benché sotto la spada di Damocle del nazismo. Nel frattempo Peshev veniva censurato per il suo gesto coraggioso e la sua carriera veniva rovinata come monito per coloro che avessero osato protestare.


La Germania continuava a esigere ebrei.   Il “Commissariato bulgaro per gli affari ebraici” prometteva solennemente di fornirli.  Affinché i dominatori nazisti non perdessero la pazienza, il Commissariato rivide il suo piano per obbedire alla Soluzione Finale: questa volta sarebbe dovuto andare tutto liscio senza intromissioni della società civile o politici giusti. A maggio sarebbe iniziato un processo strutturato in diverse fasi. Il 30 settembre era il nuovo termine per ottenere un Paese “libero dagli ebrei”. Gli ebrei più dotati fisicamente erano stati già arruolati nel lavoro forzato lontano dale città. Mentre si spaccavano la schiena sotto la vigilanza dei nazisti, le loro famiglie avrebbero potuto essere sfollate, mandate in ghetti temrporanei in altre città e da qui deportati. Agenti del commissariato avrebbero confiscato loro tutti i beni e le proprietà dei loro appartamenti vuoti, quindi gli uomini delle unità di lavoro avrebbero seguito la stessa sorte separatamente per essere mandati a morire in Polonia. Prima bisognava colpire il ghetto di Sofia, in cui risiedevano circa 25.000 ebrei, la metà degli ebrei ancora vivi nel Paese.


Per riuscire in tutto questo, il governo aveva garantito autorità di plenipotenziario al Commissariato. I deputati come Peshev non avevano alcun ruolo riconosciuto. A seconda della bisogna, il Commissariato poteva chiamare le ferrovie, la polizia e l’esercito a collaborare. I militari avevano già compiuto una retata degli ebrei macedoni e greci, trascinando le donne, i bambini e gli anziani fuori dalle loro case e caricandoli su treni merci. Gli ordini erano ordini e dai militari ci si aspetta che obbediscano.


Qualche volta, tuttavia, gli ordini possono entrare in conflitto con altri ordini, o con regolamenti, o con l’umana decenza.


Il Colonnello Tsvetan Mumdzhiev, un ufficiale di carriera bulgaro, comandava i battaglioni di lavoratori forzati, che comprendevano turchi, serbi ed ebrei, ovvero le minoranze etniche cui non ci si fidava a far portare le armi.  Gli ebrei della Bulgaria avevano servito come soldati regolari fino al 1941, ma sotto pressione tedesca il loro rango militare era stato revocato. Ora questi ex soldati, ex insegnanti, ex commercianti ed ex artigiani e professionisti non retribuiti erano schiavi adibiti a costruire strade.  Alcune unità dovevano imbracciare le pale per “correggere” il corso dei fiumi. Per quanto sporco, avevano un lavoro, e anche il Colonnello aveva il suo.   


Mumdzhiev era un uomo sulla cinquantina che aveva imparato dall’esperienza: qualunque fosse il lavoro, la gente lo fa meglio se viene apprezzata. Quindi cercava di migliorare le condizioni.  I giovani ufficiali che avevano insultato, picchiato ed estorto denaro ai coscritti venivano puniti. Per Mumdzhiev, tutti gli uomini della truppa erano commilitoni e avevano il diritto alla dignità garantita loro dai regolamenti militari. La dignità significava razioni adeguate, turni di lavoro ragionevoli e trattamenti medici nelle cliniche militari. Questo poteva fare la differenza tra la vita e la morte quando gli uomini erano feriti o contraevano la malaria, come spesso capitava. La dignità poteva anche consistere in congedi d’emergenza per essere presenti in situazioni familiari urgenti. Dopo tutto, l’approvazione dei congedi rimaneva una prerogativa di un comandante.  


Il “Commissariato per gli affari ebraici” provvedeva diligentemente a rifornire gli uomini di situazioni familiari urgenti. Che cosa c’era di più urgente di perdere tutte le proprietà e avere la famiglia sfrattata e quindi deportata verso un destino ignoto? Peccato solo che il loro destino non fosse più un segreto: entro il maggio del 1943 tutti quanti in Bulgaria sospettavano la terribile verità: la deportazione significava la morte. E secondo la routine burocratica e la normale decenza umana, la morte imminente di un parente costituisce un’emergenza, una ragione adeguata di concedere un permesso.


Il colonnello Mumdzhiev agì. Si comportò come se i lavoratori forzati ebrei fossero ancora soldati anche se, formalmente, non lo erano. Approvò i congedi per motivi di famiglia agli uomini che ne facevano richiesta  e autorizzò i subordinati a fare lo stesso. Centinaia di uomini lasciarono I campi di lavoro con pass validi, molti altri semplicemente se ne andarono. Ciò che seguì appartiene alla storia fatta con i “se”. Che cosa sarebbe successo se le loro famiglie fossero state deportate? Sarebbero ritornati docilmente alle unità di lavoro? O è più probabile e sicuramente più ragionevole pensare che avrebbero disertato per riunirsi alle bande partigiane che lottavano contro il governo nelle campagne?


La partenza di così tanti schiavi sconvolse il ritmo di lavoro per costruire le strade. Ancora peggio per il governo, presentava un dilemma. Deportare gli ebrei secondo il piano del Commissariato infatti avrebbe potuto destabilizzare gravemente la sicurezza e, con i treni e le chiatte pronti per trasportare il loro carico umano verso il macello, le deportazioni venivano sospese e quindi lentamente cancellate. Ai diplomatici tedeschi fu detto che gli ebrei “erano richiesti per costruire le strade”. Gradualmente la maggior parte dei forzati tornò alle loro unità. Ognuno di loro, con la propria famiglia, era ostaggio della buona condotta degli altri. Ostaggio miserabile, ma ancora vivo, anche nel settembre 1944 quando la Bulgaria passò dalla parte degli Alleati. La Shoah era finita in Bulgaria.


Allora si celebrò un processo per i carnefici. Insieme ai funzionari del Commissariato fu processato anche il comandante delle truppe adibite al lavoro forzato. Gli uomini che Mumdzhiev aveva congedato non se l’erano dimenticato. Presentarono petizioni per chiedere alla corte di liberarlo. In una di queste petizioni c’era scritto: “Ci ha trattato in modo paterno”. La corte assolse il colonnello, che entrò nell’oscurità di polverose pagine d’archivio.


Che cosa fa sì che una persona sia un eroe? Che cosa aveva motivato Mumdzhiev? Provenendo dall’antica città di Plovdiv, egli era un uomo raffinato e dai modi urbani, che senza dubbio conosceva ebrei avendoli come vicini di casa e più tardi come commilitoni. In quanto comandante ignorò il loro status diminuito e li trattò ancora da camerati. Agì come un essere umano e un professionista che aveva un lavoro da compiere. Interpretò i regolamenti come reputava che fosse giusto, spingendosi fino ai limiti del possibile. Ciò non gli fece conquistare medaglie, onori né lodi né un innalzamento di status nei decenni seguenti. Nessuna strada o scuola gli è stata dedicata, e nemmeno feste o un’effigie su un francobollo.
 
Solo oblio. Se questo è un eroe, lasciamo che sia la storia a giudicare.

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