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"Per questo ho vissuto"

storia di Sami Modiano, da Rodi ad Auschwitz

Ho incontrato Sami Modiano durante il mio viaggio a Malta, nella Residenza dell'Ambasciatore italiano a La Valletta, in occasione delle celebrazioni della Giornata della Memoria. Insieme alla moglie Selma, saluta i presenti con una stretta di mano, un abbraccio, una carezza. 
Si siede al centro della stanza e inizia a raccontare la sua toccante esperienza. Si porta le mani agli occhi, poi alla testa. “Sami Modiano ha visto con questi occhi - dice - Sami Modiano non dimentica”.

Sami è nato a Rodi nel 1930 da papà Giacobbe e mamma Diana. Ha una sorella più grande di tre anni, Lucia, e una grande famiglia, la comunità ebraica dell’isola. Ricorda la sua infanzia nell’isola delle rose, “terra di una bellezza struggente”, e parla con orgoglio dei suoi buoni risultati a scuola. Per questo motivo, racconta, quando a otto anni viene chiamato alla cattedra dal suo insegnante pensa subito a un’interrogazione. Il suo maestro invece gli comunica che è stato espulso dalla scuola, perché ebreo. Da quel giorno, la vita di Sami cambia completamente. Il padre perde il lavoro, la madre muore nel 1941 (“Grazie a Dio - ricorda Sami - così non ha potuto vedere gli orrori che abbiamo visto noi, e oggi ha una tomba dove posso andare a mettere un fiore”). Dopo l’8 settembre 1943 i tedeschi occupano l’isola e iniziano a preparare la deportazione della comunità ebraica ad Auschwitz- Birkenau. “Il 18 luglio 1944 - racconta Sami - hanno ordinato ai capofamiglia ebrei di presentarsi con i documenti per un controllo in una ex caserma dell’aeronautica militare italiana. È solo una scusa per radunarli in un luogo abbastanza grande da contenere tutti, sequestrare i loro documenti e non farli più uscire. A questo segue un secondo comunicato: tutte le famiglie si devono preparare per un viaggio, per andare a lavorare fuori da Rodi. Devono portare con loro tutto quello che può servire, soprattutto beni di valore”. Sami e Lucia si preparano e raggiungono Giacobbe nella caserma.

È l’inizio del “viaggio più lungo”, il 23 luglio. I tedeschi fanno suonare le sirene per allontanare gli abitanti di Rodi dalle strade e poter caricare indisturbati oltre 2mila ebrei su dei battelli cargo da bestiame. In ogni stiva, ancora sporca per gli escrementi degli animali trasportati, vengono fatte entrare 500 persone, con 5 taniche d’acqua e un bidone vuoto. In quelle condizioni, la torrida estate greca non risparmia i più deboli, gli anziani, i malati: chi non sopravvive, viene buttato in mare. I battelli arrivano a Pireo solo il 1 agosto, con un caldo soffocante, e i passeggeri vengono caricati sui treni per Auschwitz. “Noi non conoscevamo la nostra destinazione, e mai e poi mai immaginavamo che questo treno ci stava portando alla morte”. La vita di Sami e dei suoi compagni di quel terribile viaggio non conta, il treno è addirittura tenuto fermo per un giorno intero, sotto il sole cocente, per dare la precedenza a un vagone tedesco. Sami descrive l’arrivo ad Auschwitz attraverso scene che abbiamo imparato a conoscere grazie ai racconti di tanti sopravvissuti: i prigionieri tirati giù dai treni, gli uomini separati dalle donne, il pestaggio di chi - come Giacobbe - tenta di non separarsi dai suoi cari, il passaggio davanti a un ufficiale tedesco, un medico, che con un gesto decideva chi doveva morire e chi poteva continuare a vivere. “Ha un nome questo medico - dice Sami - ma io non lo pronuncio. Dopo aver saputo cosa significava il suo gesto, mi rifiuto di farlo, perché non concepisco come un essere umano possa decidere vita provvisoria o morte immediata di un altro essere umano”. L’ufficiale era Josef Mengele. A un suo cenno, circa 1900 ebrei di Rodi sono stati mandati nelle camere a gas.

Sami e il padre vengono invece selezionati per lavorare. “Ci tagliano i capelli, ci disinfettano, ci danno un pigiama e un cappello a righe e degli zoccoli di legno. Poi diventiamo un numero, mio papà B 7455 e io B 7456”. Lucia invece viene portata nel lager B. Sami deve riprendere fiato prima di iniziare a parlare della sorella: il suo dolore è ancora forte. “Una sera ho deciso di andare a cercarla - ricorda - davanti al reticolato che divideva il lager degli uomini da quello delle donne. Ho visto una figura che nel buio mi faceva dei segni. Aveva i capelli rasati, era sporca e ridotta a uno scheletro. Mi sono avvicinato e ho sentito il sangue gelarsi. Quella figura era mia sorella. Dov’erano finiti i suoi lunghi capelli? E la sua bellezza, il suo viso dolce?”. Sami e Lucia si danno appuntamento alla sera successiva e Sami corre alla baracca 15 ad avvisare papà Giacobbe. Il padre lo guarda, scuote la testa e dice che non andrà a quell’appuntamento. “Io in quel momento non ho capito questo rifiuto, l’ho giudicato male. Ora gli chiedo perdono.”

È un dolore molto forte il ricordo di quei giorni. “Una sera avevo messo da parte la mia fetta di pane per mia sorella, l’ho avvolta in un panno, mi sono avvicinato ai reticolati e le ho fatto capire che le avrei buttato qualcosa dall’altra parte. Lucia ha visto il pacchetto, l’ha aperto, mi ha guardato, ha aperto le braccia e mi ha abbracciato da lontano”. Lucia poi butta a sua volta il fazzoletto indietro a Sami. Al suo interno il ragazzo trova la sua fetta di pane, e in più la fetta di pane della sorella, che lei aveva conservato per lui.

Nelle sere successive, Lucia non torna più al reticolato. “Mia sorella non c’era più”, ricorda Sami asciugandosi le lacrime. Con la morte della figlia, Giacobbe si lascia andare. Una sera, quando Sami va a trovarlo, invece della solita frase “vai a riposarti, perché domani sarà una giornata dura”, gli chiede di rimanere con lui e gli confessa: “domani, quando verrai, non ci sarò più”. Giacobbe vuole infatti andare in ambulatorio, ben consapevole del significato di questo gesto. “Mi ha messo una mano sulla testa - ricorda Sami - ha recitato una preghiera in ebraico e poi mi ha puntato il dito e mi ha detto ‘tieni duro Sami, tu ce la devi fare. Adesso vai, vai a riposarti e non voltarti indietro’”. Dopo poco più di un mese dal suo arrivo ad Auschwitz, Sami è rimasto solo.

All’inizio del 1945, Sami è ormai allo strenuo delle sue forze. Gli prelevano del sangue la mattina e la sera, ogni giorno (“cosa se ne facessero del mio sangue ebreo, ancora non l’ho scoperto”). Con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa, i nazisti diventano ancora più crudeli, e cercano di cancellare le prove più evidenti dello sterminio. Inizia così la marcia della morte, per spostare i prigionieri ancora in vita. Chi cadeva, scivolava o zoppicava veniva eliminato con una raffica di mitra. “Ero sfinito, sono crollato a terra. Ho subito pensato di essere morto, avevo capito che era arrivato il mio momento. Invece, due miei sconosciuti compagni di sventura mi hanno alzato e mi hanno trascinato per un po’, poi mi hanno lasciato svenuto accanto a una montagna di cadaveri. Mi sono svegliato e ho trovato solo morte intorno a me. Mi sono trascinato fino a un fabbricato di mattoni. Il 27 gennaio mi sono svegliato mentre una dottoressa russa mi stava medicando. Ero vivo. Ma non ero felice di essere vivo. Perché io? Perché non ero morto insieme agli altri?”.

“L’ho capito solo anni dopo - ci dice Sami - All’inizio mi rifiutavo di parlare, di raccontare la mia storia. Poi ho capito che era mio dovere raccontarlo ai giovani. Sono tornato ad Auschwitz con 300 ragazzi, affrontando il dolore del ricordo, nel 2005. Ho capito che non parlavo solo per la mia piccola famiglia, né per i 2500 ebrei di Rodi, né per i 6 milioni di ebrei uccisi nei campi. Parlavo anche per i 5 milioni di persone, rom, omosessuali, handicappati, detenuti politici, uccisi perché erano diversi. E continuo a farlo per non dimenticare quello che è successo, per trasmettere la memoria alle nuove generazioni, perché io presto non ci sarò più e sarete voi che dovrete ricordare, sarete voi a far sì che tutto questo non succeda più, a fare in modo che i vostri figli non vedano quello che hanno visto i miei occhi”.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

10 febbraio 2017

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