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Un Giusto, non un falsario

storia di Angelo Rotta, narrata da Dalbert Hallenstein

Mons. Angelo Rotta

Mons. Angelo Rotta

Il giornalista americano Dalbert Hallstein ha dedicato la sua ultima fatica alla figura di Angelo Rotta, nunzio apostolico della Santa Sede a Budapest durante la seconda guerra mondiale, che salvò migliaia di ebrei dallo sterminio.

In sintesi, furono questi i metodi adottati da Angelo Rotta per salvare gli ebrei: emissione di certificati di battesimo “falsi” (concettualmente; ma non erano duplicati); emissione di lettere di protezione e passaporti diplomatici per gli ebrei, un’invenzione che si deve originariamente al diplomatico svizzero Carl Lutz, applicata da Rotta e dal suo staff rigidamente, ovvero anche in questo caso cercando di evitare la produzione di falsi; e istituzione degli edifici extraterritoriali.

Inoltre, Rotta si recò personalmente sui luoghi dove venivano radunati gli ebrei, nel 1945 anche per le marce della morte fino al confine austriaco, per reclamare quelli che aveva munito di lettere di protezione. Hallenstein ricorda che si trattava però per l’appunto di misure che offrivano una speranza di salvezza, ma non la certezza di sfuggire ai nazisti e ai loro zelanti collaboratori. Una lettera di protezione salvava il suo portatore una o due volte, ma al terzo o quarto controllo si poteva essere deportati; era necessario che i diplomatici e il nunzio presenziassero personalmente all’interno delle case extraterritoriali, per garantire che i tedeschi non cercassero di annientare i loro ospiti. Questo porta a concludere che non vi sia corrispondenza tra la quantità di certificati emessi e il numero di ebrei salvati, per cui, come sempre, il valore del gesto di soccorso è infinito perché “chi salva una vita salva il mondo intero”, come dice la Bibbia, ma deve essere inteso un po’ al di sopra delle discussioni sul numero dei salvati, che non può essere ancora stimato in maniera certa.

Rotta poteva contare su un gruppo di persone coraggiosissime, tra cui il suo segretario Gennaro Verolino, il seminarista ungherese Tibor Baranski, alcune donne come Rosi Szalaj, Marghit Schlachta, senza dimenticare il fantomatico console “spagnolo” Giorgio Perlasca e il diplomatico svedese Raoul Wallenberg.

Di ognuno di questi personaggi viene raccontato l’operato e il destino. Ad esempio, il napoletano Verolino era un trentottenne che incuteva timore allo stesso Rotta, perché non scendeva a compromessi. Una delle ragioni del successo dello sforzo di questa singolare équipe di salvatori fu infatti che alle dipendenze di Rotta non veniva ammessa la produzione dei falsi. Ciò avrebbe pregiudicato l’opera di salvezza, perché sarebbe stato presto noto alle autorità tedesche e ungheresi, insospettendole.

Ciò che era “falso” era in alcuni casi la volontà di conversione degli ebrei che ricevevano i loro certificati di battesimo. In altre parole Rotta e Verolino non chiedevano agli israeliti di diventare cattolici per offrire loro l’ancora di salvezza costituita dalle lettere di protezione vaticane. In questo senso, oltre che con molte lettere ai superiori e azioni dirette, Rotta e i suoi collaboratori non solo si opposero strenuamente ai nazisti e ai loro collaboratori ungheresi, ma andarono anche ben oltre le istruzioni vaticane.

Questo è un punto centrale, che Hallenstein ha ricostruito grazie alla consultazione degli undici volumi di storia del Vaticano durante la Shoah editi da una commissione della Santa Sede composta di quattro gesuiti, con la documentazione più aggiornata su quei difficili anni e la vexata quaestio del silenzio di Papa Pio XII, al secolo Eugenio Pacelli.

Il libro propugna la tesi del silenzio colpevole, manifestato, scrive Hallenstein, non solo nei confronti degli ebrei, ma anche degli altri milioni di vittime del nazifascismo: russi e serbi ortodossi, rom e sinti, testimoni di Geova etc. Le prove di questa complicità del Papa con il nazismo sarebbero gli incontri con il leader degli ustascia croati Ante Pavelic, il fatto che la Slovacchia era guidata dal sacerdote nazista Josef Tiso, mai scomunicato; la predisposizione dopo la guerra di una rete vaticana per l’aiuto agli ex carnefici nazisti a ottenere clemenza davanti alle corti e a fuggire in America Latina; la fiducia riposta in figure quale il cardinal Séredi, che non aveva mai protestato contro le leggi razziali in Ungheria, anche quando avevano minacciato l’istituto del matrimonio dichiarando che il potere statale poteva annullare i vincoli nuziali delle coppie miste; il rifiuto, nonostante fossero noti a Pacelli i cosiddetti “protocolli di Auschwitz” e Margit Schlachta fosse irrotta personalmente nel suo studio a Roma parlandogli delle gassazioni degli ebrei, di nominare esplicitamente nelle sue lettere pastorali gli ebrei, i nazisti o la “soluzione finale”; l’attesa, fino a ben dopo tre settimane dalla liberazione di Roma, prima di inviare un telegramma al reggente ungherese Horthy per chiedere che cessassero le deportazioni, iniziativa che arrivava dopo lamorte nelle camere a gas di centinaia di migliaia di ebrei, dato che tra maggio e luglio 1944 i tedeschi eliminavano tra le 5000 e le 12000 persone al giorno.

Per contro, Hallenstein riconosce un effetto positivo sia pur “perverso” al silenzio di Pio XII: infatti esso avrebbe paradossalmente permesso a Rotta e ai suoi di operare senza attirare troppa attenzione. Anzi, come ricorda Tibor Baranski, contestato in tarda età per avere poi espresso pareri vivamente antisemiti, allora l’abito talare era sufficientemente rispettato da fare sì che questo giovane novizio potesse servirsene per intimorire e minacciare i tedeschi e le Croci Frecciate che cercavano di rastrellare gli ultimi ebrei rimasti a Budapest dentro il “ghetto internazionale”, ovvero le case munite di extraterritorialità che il Vaticano e gli altri Paesi neutrali avevano predisposto nella capitale ungherese.


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