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Addio a Wojciech Jaruzelski

di Annalia Guglielmi

Wojciech Jaruzelski

Wojciech Jaruzelski

Il 17 ottobre del 2009 il settimanale Tempi pubblicava una lunga intervista di Annalia Guglielmi, collaboratrice di Gariwo per l'Europa dell'Est, a Wojciech Jaruzelski. In occasione della scomparsa del generale polacco, ospitiamo il commento di Annalia Guglielmi e, a seguire, la sua intervista a Jaruzelski.

Dopo una lunga malattia, ieri, 25 maggio, si è spento all’età di 90 anni il generale Wojciech Jaruzelski. Un uomo su cui forse solo tra molti anni la storia riuscirà a dare un giudizio completo. 

Figura drammatica e contraddittoria, “l’uomo con gli occhiali scuri”, come era definito, ha profondamente segnato la storia polacca recente e, nel bene e nel male, è stato uno dei grandi protagonisti dei cambiamenti epocali avvenuti in Europa negli ultimi decenni del XX secolo. Però a volte la memoria storica tende ad eliminare le figure “scomode”, che presentano una complessità impossibile da rinchiudere dentro gli schemi delle ideologie. 

Nato nel 1923 da una famiglia nobile, da bambino aveva frequentato la scuola dei padri Marianiti da cui aveva assorbito un profondo spirito cattolico e patriottico. Nel 1941 insieme alla famiglia fu deportato sui monti Altai in Unione Sovietica, dove contrasse la cosiddetta “cecità siberiana”, che compromise per sempre la sua capacità di vedere e lo costrinse a portare sempre degli occhiali scuri protettivi. Non riuscendo a raggiungere l’esercito del generale Anders, nel maggio del 1943, celando le proprie origini nobili, entrò nell’esercito sovietico dove frequentò la scuola ufficiali. A capo di un battaglione a cavallo, durante la guerra si distinse in numerose azioni e per questo fu più volte insignito di medaglie al valor militare. Dopo la fine della guerra rientrò in Polonia, dove in breve fece una brillante carriera militare, fino a raggiungere il grado di generale di brigata nel 1956.

Insieme alla carriera militare, crebbe anche la sua carriera politica. Entrato nel partito comunista nel 1947, dal 15 giugno 1964 al 19 luglio 1989 fece parte del Comitato Centrale del Partito Operaio Unificato Polacco. 
Sarà però ricordato dalla storia soprattutto perché è stato l’uomo che il 13 dicembre 1981 sembrò soffocare nella repressione l’istanza di libertà del popolo polacco che aveva trovato in Solidarność e in Lech Wałȩsa una speranza nuova. 

Oggi, però, dopo oltre trent’anni e alla luce di nuovi documenti, quell’”auto invasione” del paese, quella guerra “polacco jaruzelska”, appare, forse, in una luce nuova: lo stato di guerra potrebbe aver salvato la Polonia da un’invasione delle truppe del Patto di Varsavia, evitando di trasformare Varsavia in una nuova Budapest e di trascinare il paese in un bagno di sangue. Questo potrebbe aver consentito poi ai leader del sindacato e del potere di sedersi ad un tavolo di trattative, la Tavola Rotonda, che portarono il 4 giugno 1989 alle prime elezioni semi libere in un paese del blocco comunista

Quando tutt’intorno alla Polonia erano ancora saldamente al potere i vari Honecker, Ceaușescu, Husak, e mentre Václav Havel era in carcere in attesa di giudizio per aver portato dei fiori sulla tomba di Jan Palach, in Polonia, suscitando le ire dei suoi vicini e di molti suoi collaboratori, il generale Jaruzelski accettava di rinunciare a una parte dei seggi parlamentari e di tutti i seggi del senato all’opposizione, così cedendo “una parte del potere”, che in un regime totalitario equivale a cedere “tutto il potere”. 

In seguito, come in un gigantesco domino, si arrivò al crollo del regime anche negli altri paesi, fino al 9 novembre 1989, quando le immagini della caduta del Muro di Berlino e della folla festante che correva lungo il viale degli Under Linden fecero il giro del mondo e sono rimaste nella memoria europea come l’immagine-simbolo della caduta del comunismo nei paesi dell’Europa Centro Orientale. 

In questa lunga intervista esclusiva che abbiamo raccolto nel 2009, il generale Jaruzelski ripercorre le tappe fondamentali della propria vita, svela il proprio dramma interiore, ricorda il rapporto particolare e specialissimo con Giovanni Paolo II e racconta la propria verità sui drammatici momenti che precedettero la decisione di introdurre lo stato di guerra. 

A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino mi può dire come visse allora quei momenti e come li giudica oggi?
Fu indubbiamente il momento della più grande svolta storica del secolo scorso, e quei momenti acquistano una valenza ancora maggiore se guardiamo al cammino che ci portò fin lì, un cammino difficile, tortuoso, spesso doloroso, ma il finale fu ideale e personalmente mi onoro di essere stato coautore, co-architetto, della Tavola Rotonda. Dopo le elezioni di giugno fui nominato presidente e in seguito, nel periodo della transizione per un anno e mezzo, fino a dicembre 1990, sono state fatte le riforme fondamentali e sotto di esse c’è la mia firma. Sono state queste riforme a permettere a quel processo di svolgersi pacificamente [...]
Come giudica oggi l’esperienza storica del socialismo e dell’ideologia comunista?
Spesso i giornalisti mi chiedono se sono ancora comunista e io rispondo che il vero comunismo non c’è mai stato, a parte i kibbutz in Israele. La forma storica che ha assunto in Unione Sovietica è stata una forma brutale, criminale, omicida, realizzata dai capi che si sono susseguiti: Lenin, Stalin e poi si è estesa ai paesi del blocco, forse non in modo così drammatico, ma si tratta della deformazione di un’idea in fondo buona nata non sulle rive del Volga, ma sulle rive del Reno. Questa è per così dire la mia convinzione teorica. Passiamo al giudizio sul periodo storico del comunismo in Polonia. Non voglio parlare degli eventi del 1939, che ancora oggi aprono delle ferite mai chiuse e che conosco bene anche per la mia storia personale: io stesso fui deportato nel 1940 in Siberia insieme alla mia famiglia, mio padre fu rinchiuso in un lager sovietico e ne uscì talmente malato da morire poco dopo. Per me adesso è fondamentale ricordare che quando la Polonia si trovò sotto l’occupazione nazista, di una forza genocidiaria, l’unica speranza di liberare il paese era riposta nell’Unione Sovietica [...]


Nel box approfondimenti il testo integrale dell'intervista

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