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Medio Oriente: una forza comune, interessi diversi

I nuovi fronti che convolgono i Paesi arabi

Lo scorso marzo, in un summit a Sharm el Sheik, i leader di 22 Paesi dell’area musulmana sunnita hanno annunciato l’intenzione di creare una forza militare comune, con base in Egitto o Arabia Saudita, per rispondere alla minaccia del terrorismo estremista. In un successivo meeting al Cairo, i partecipanti hanno iniziato a formalizzare i dettagli di tale forza, le regole di ingaggio e i finanziamenti. Le proposte dovranno ora essere ratificate entro tre mesi dagli Stati aderenti.

Un sogno non nuovo, quello di un esercito comune, ostacolato da divisioni, interessi e diffidenze che ancora oggi non mancano, in un contesto segnato da vecchi e nuovi scontri, sullo sfondo della secolare rivalità tra Arabia Saudita e Iran - esacerbata anche dalle trattative sul nucleare di Teheran. Ma quali sono i nuovi teatri in cui è centrale il ruolo dei Paesi arabi?

La crisi in Yemen

Lo scontro a San’a’ è iniziato nel settembre 2014, e ha visto i ribelli houti - sciiti zayditi, accusati dall’Arabia Saudita di essere sostenuti dall’Iran - prendere il potere e destituire il governo del presidente Abd Rabbu Mansur Hadi.
Riyad ha reagito dando il via a una serie di attacchi aerei, a cui hanno partecipato velivoli di Qatar, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Giordania, Marocco e Sudan. Anche l’Egitto si è detto disponibile a far parte della coalizione. In seguito a 72 ore di bombardamenti intensivi, l'11 maggio il portavoce degli houti ha dichiarato che i ribelli accettano la proposta saudita di una "tregua umanitaria di cinque giorni".
La coalizione saudita deve per il momento fare a meno del Pakistan, che sulla scia dell’entusiasmo per le trattative sul nucleare iraniano, il 10 aprile ha approvato in Parlamento la propria neutralità nello Yemen. Temendo che schierarsi contro gli houti avrebbe inasprito lo scontro settario interno, e intravedendo la possibilità di far ripartire la collaborazione con Teheran - vicina agli houti e con cui il Pakistan è legata da un accordo di amicizia del 1950, nonostante i rapporti spesso altalenanti tra i due Paesi - Islamabad ha risposto a Riyad con la sola promessa di soccorso in caso di minaccia ai confini sauditi.
Non è tuttavia chiaro quanto possa durare questa situazione, anche alla luce dello stretto rapporto che il Pakistan mantiene con l’Arabia Saudita, che nel 2000 ha accolto in esilio il premier pakistano Nawaz Sharif - lo stesso che pochi giorni fa è riuscito a scampare a un attentato, rivendicato dai talebani, nel quale hanno perso la vita gli ambasciatori di Norvegia e Filippine.

L’Isis in Siria e Iraq

La coalizione guidata dagli Stati Uniti per colpire l’Isis vede la partecipazione attiva di alcuni Paesi occidentali - Francia, Gran Bretagna, Olanda, Australia, Canada e Danimarca -, ma anche di Stati arabi, come Bahrein, Giordania e Arabia Saudita, con un appoggio esterno del Qatar. Se la Giordania è impegnata in prima linea nella lotta contro i jihadisti dopo l’uccisione del pilota Muad Kasasbeah, arso vivo all’interno di una gabbia, i Paesi arabi accusano il Qatar di avere un atteggiamento a dir poco ambiguo nei confronti dell’Isis. L’emirato si è dichiarato favorevole alla coalizione guidata da Washington, offrendo le sue basi per il lancio degli aerei impegnati nei bombardamenti, ma di fatto viene spesso indicato, insieme al Kuwait, come il maggior Paese finanziatore dei jihadisti.
Una posizione “scomoda” è anche quella della Turchia, favorevole all’idea di una forza congiunta ma ambigua nei rapporti con l’Isis. Emblematico il caso del rilascio dei 49 ostaggi turchi rapiti dall’Isis a Mosul, nel nord dell’Iraq: Ankara ha iniziato una serie di trattative con lo Stato Islamico e ha ottenuto il rilascio degli ostaggi, in cambio dei 180 prigionieri feriti in combattimento e accolti negli ospedali turchi per essere curati.
Una “nuova” e particolare alleanza si è poi verificata in Iraq, dove - sotto lo sguardo attento degli Stati Uniti - le forze militari iraniane sono corse in aiuto dei militari iracheni, arrivando anche alla liberazione della città di Tikrit dai miliziani dell’Isis. 
In questo quadro, oggi sembra vacillare la posizione del regime di Bashar al Assad, che inizialmente sembrava poter trarre vantaggio dalla coalizione anti Isis e ora si trova in difficoltà nel conflitto iniziato quattro anni fa. La “questione Siria”, che già aveva visto la divisione degli Stati dell’area - con l’Iran fedele all’alleato di Damasco e l’Arabia Saudita a capo della linea anti Assad - rischia di creare difficili equilibri anche in caso di una fine del regime del rais. Cosa succederà dopo? Quali saranno le influenze degli attori regionali, alla luce anche di un’opposizione che sembra ispirare ben poca fiducia?
Inoltre, è ancora grave il problema dei profughi siriani, fuggiti in Turchia, Libano e Giordania, che oggi faticano a far fronte a nuovi flussi migratori.

La situazione in Libia

L’Egitto, che sostiene l’Arabia Saudita in Yemen, è in prima linea anche in Libia, teatro dell’uccisione di 21 egiziani copti da parte dell’Isis. Secondo fonti militari e di intelligence, il Cairo starebbe inviando mezzi e soldati al confine ovest, in vista di un’offensiva militare in Cirenaica per combattere le milizie libiche affiliate allo Stato Islamico e riconquistare i territori sottratti al governo libico di Tobruk - guidato da Abdullah Al Thinni e riconosciuto dalla comunità internazionale dopo le elezioni del 2014.
Questo, se da un lato tale iniziativa risponde all’esigenza di combattere i jihadisti, dall’altro preoccupa il governo di Tripoli, non riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto da Turchia e Qatar, che teme l’allargarsi dell’intervento anche ai suoi territori. Il governo di Tripoli è appoggiato anche dai miliziani islamici della coalizione Alba libica, vicini ai Fratelli Musulmani.

Anche oggi, quindi, il percorso verso la formazione di un esercito comune dei Paesi arabi incontra diversi ostacoli e diffidenze. Al di là degli schieramenti nei conflitti oggi in corso, la distanza tra i vari attori è presente su altri fronti: Arabia Saudita ed Egitto non hanno la stessa visione del conflitto siriano, Oman e Qatar hanno diverse concezioni su Iran e Fratelli Musulmani, e i Paesi non hanno un’idea comune di cosa definire “terrorismo” (basti pensare ai diversi atteggiamenti nei confronti degli stessi Fratelli Musulmani). Ciononostante, rimane l’impegno comune per ridefinire la situazione strategica regionale. Dopo un lungo periodo in cui i Paesi hanno fatto grande affidamento sugli Stati Uniti, oggi temono di entrare in un periodo “post americano”, e cercano di muoversi velocemente per difendere i propri interessi e la propria sicurezza, in una regione dagli equilibri instabili e delicati.

Martina Landi

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

28 maggio 2015

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