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Tra il Ruanda e il Congo

la seconda parte del viaggio

Mauro Matteucci, responsabile del Giardino dei Giusti di Pistoia, ci ha inviato una toccante e intensa testimonianza del suo viaggio in Ruanda.
Insieme alla moglie, Matteucci ha attraversato il Paese delle mille colline, incontrando i testimoni del genocidio del 1994, in un viaggio attraverso ferite non ancora rimarginate e storie di speranza. La prima puntata del viaggio è stata pubblicata a ottobre in questa rubrica. Ecco di seguito la seconda parte del suo racconto.

Ho accennato spesso al genocidio del 1994, i che ha reso famoso questo minuscolo Paese più per un terribile evento che per le sue bellezze incontaminate e la sua traboccante umanità. Se ne trova traccia in ogni angolo del Ruanda, nei sopravvissuti (i cosidetti rescapés), nelle case distrutte e nei Memoriali. Ne abbiamo visitati quattro, quello della capitale, due nelle chiese di Ntarama e Nyamata – dove le vittime cercarono inutilmente salvezza - e infine quello forse più sconvolgente, anche per le gravissime ed evidenti responsabilità francesi, a Murambi. Avevamo già visitato Birkenau circa venti anni fa, abbiamo incontrato le madri di Srebrenica, che non abbiamo più dimenticato, ma anche questi luoghi ci sembrano penetrare nel nostro presente, rivolgendoci interrogativi angoscianti, che purtroppo non sempre hanno una risposta. 

Come è potuta scatenarsi una carneficina così terribile, che ha distrutto sì i corpi delle vittime, ma anche l’anima dei carnefici? Perché teatro di queste atrocità sono state proprio le chiese, luoghi dove si predicava l’amore e dove gli stessi sacerdoti hanno consegnato i fedeli ai massacratori? Perché chi poteva fermare e denunciare l’eccidio, dall’ONU agli Stati Uniti, allo stesso Vaticano, sono stati inerti, invece di intervenire prontamente, dato che esistevano prove concrete sia della pianificazione del genocidio sia dell’inizio della strage? Perché la Francia, patria dei diritti umani, e il suo presidente socialista François Mitterrand, si sono macchiati di crimini efferati con i soldati del loro esercito che armavano i genocidari, li sostenevano militarmente, massacravano loro stessi i Tutsi, violentavano le donne? Io e mia moglie visitavamo questi luoghi perlopiù in silenzio; un odore di morte sembrava aggredirci violentemente lo stomaco e l’anima insieme a un senso di pietas, anche se era come se una linea divisoria invisibile ci separasse dalle vittime, talvolta dalla stessa Yolande che ci accompagnava sempre. Ci sentivamo impotenti a capire, letteralmente a contenere tanta sofferenza che potevamo solo immaginare. Forse il momento di maggiore unione con le vittime e di ritrovata speranza nell’umanità l’abbiamo realizzato davanti alla tomba di Antonia Locatelli, la coraggiosa donna bergamasca che, già due anni prima del genocidio, aveva denunciato ai media il montare dell’odio e della violenza e per questo era stata uccisa barbaramente; è stata una vera grande Giusta tra le nazioni e come tale merita di essere ricordata nel giardino dei Giusti di Pistoia e in altri. Visitare i memoriali è stato per noi come percorrere insieme i cento giorni del genocidio, in compagnia di migliaia di vittime. Spesso ci hanno come assalito lo scoramento, la nausea e la collera: era talvolta come tuffarci in apnea. Abbiamo lottato contro il rifiuto di vedere la natura umana in quello che ha di più abietto e di più feroce, perché anche di questi aspetti è composta. E una volta che eravamo giunti a vincere il disgusto ispirato dai massacri, abbiamo dovuto lottare contro la stanchezza che la ripetizione di uno spettacolo disgustoso finisce per provocare nella parte più sensibile di ciascuno. Abbiamo scelto, in una sorta di investigazione angosciata e sofferente, di fissare la Medusa della verità, cioè tutta la verità, questa verità, una e indivisibile.

Nella ricerca di questa verità al presente, abbiamo chiesto a Yolande di andare verso nord-ovest ai confini con l’immenso Congo, non per vedere il parco dei leggendari gorilla, ma per visitare i luoghi che negli ultimi venti anni hanno segnato, purtroppo spesso tragicamente, la storia dell’Africa dei Grandi Laghi. Nel percorrere la strada che portava a Gisenyi, sul lago Kivu, era come se ripercorressimo la via dove oltre un milione di persone spinte dai genocidari (terrorizzati dall’incalzare del Fronte patriottico Ruandese) si muoveva in massa verso Goma. Eppure l’orrore sembrava lontano, anzi tutto aveva un aspetto sereno, estremamente somigliante alla nostra Toscana: ai lati della strada si estendevano campi fertilissimi, anche per il terreno di origine vulcanica, intensamente coltivati a tè, a verdure di ogni genere, mentre si elevavano colline terrazzate curatissime con i sempre presenti bananeti e con piantagioni del famoso caffè ruandese. L’operosità infaticabile del contadino di questa regione ricordava quella a noi tanto familiare del contadino toscano di un tempo. Ma si aprivano anche le ferite della Storia: i genocidari detenuti – riconoscibili per le loro casacche arancione o rosa - impegnati nei lavori pubblici o agricoli, i Memoriali e i campi dei rifugiati dal Congo. Due incontri mi avrebbero rivelato la realtà di questi ultimi, abitati dai ruandesi del Congo fuggiti dopo la sconfitta del movimento M23, che aveva difeso i diritti di questa minoranza dimenticata che da tempo abita la regione vicino al Kivu. Gaspard, uno degli uomini più dignitosi e colti incontrati nel nostro viaggio, esponente dell’M23, mi ha raccontato la lotta eroica di questo movimento, demistificando tutte le menzogne dei media, che l’avevano dipinto come un movimento terrorista, quando invece si era battuto strenuamente per la difesa dell’uguaglianza dei diritti della minoranza ruandese oppressa dal regime centrale del presidente-burattino Cabila manovrato dalle potenze e dalle multinazionali occidentali. Mi ha confermato questa analisi un giovanissimo, dignitoso cameriere del ristorante sul lago, raccontando, con voce commossa, come aveva dovuto abbandonare la sua terra natale in Congo per vivere prima in un campo di rifugiati e poi lavorare, interrompendo forse definitivamente gli studi. 

Ho ripensato a lungo – in questi giorni in cui tanto si parla in Italia e in Europa dell’emergenza rifugiati - alle responsabilità di noi europei, che abbiamo spogliato di tutto gli africani, che consideriamo dei fantasmi coloro che sono stati costretti a lasciare le loro terre, forse per sempre. Siamo chiamati a fare i conti con la Storia, ma cerchiamo capri espiatori, miseri pretesti, spiegazioni mistificanti per non confrontarci alla pari con gli umani, che abbiamo umiliato, depredato, ridotto alla disperazione! Uno degli aspetti che ci ha più offeso è la continua mistificazione e disinformazione dei media occidentali sulle questioni africane. Tutto è subalterno e funzionale agli interessi più inconfessabili. Nel corso del nostro viaggio abbiamo potuto attingere a fonti dirette di informazione: testimoni, documenti originali, testi di veri ricercatori sul campo. Ogni volta abbiamo constatato sia la verità umana della realtà sia la miseria dell’informazione menzognera, che quotidianamente ci viene propinata.

Prima di ripartire, abbiamo voluto osservare in attento silenzio la strada che sale verso il quartiere di Nyamirambo: abbiamo visto ancora una volta le donne con i bambini sulla schiena o con i cesti di povere merci sulla testa, i ragazzi che andavano o tornavano da scuola con le loro divise multicolori, gli uomini che spingevano faticosamente le biciclette con sacchi strapieni, gli altissimi camion carichi di canna da zucchero. Un’Africa umana in movimento, forse la sola Africa più vera.

3 dicembre 2015

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