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L'incontro con padre Josef Zverina

e la "Chiesa della compassione"

Josef Zverina

Josef Zverina

Con la stessa percezione di essere al centro di un grande privilegio con cui avevo incontrato Havel o il cardinal Tomášek, durante uno dei miei viaggi a Praga incontrai padre Josef Zverina nel suo modesto appartamento alla periferia di Praga. Fu lui a mettermi immediatamente a mio agio. Il tratto che più colpiva di padre Zverina era lo sguardo: uno sguardo lieto, allegro, ironico e autoironico, ma soprattutto accogliente e familiare. Per lui ognuno di noi che arrivava dall’Italia a trovarlo era “a priori” un amico, una persona cara, un familiare, e questo spazzava via ogni formalismo - che lui detestava - e ogni impaccio.

Mi consegnò la sua imponente Teologia dell’agape. Non fu uno scherzo farle attraversare il confine, perché erano due tomi molto voluminosi. Benché fossero scritti su carta velina, erano in formato A4 ed erano accuratamente rilegati con una copertina rigida di cartoncino. Fortunatamente era inverno e portavo una grossa giacca di piuma d’oca. Mi infilai i due tomi sotto la maglietta, uno davanti e uno sulla schiena e cercai di mascherarli con la giacca. Ero molto impettita e a ben guardare si vedeva qualche spigolosità, ma fortunatamente i funzionari della dogana mi chiesero solo di vuotare le tasche e di aprire le valigie e non mi fecero slacciare la giacca.

Di padre Zverina CSEO ha pubblicato numerosissimi articoli e due testi teologici fondamentali: Il coraggio di essere Chiesa nel 1978 e La gioia di essere Chiesa nel 1990, mentre nel 1971 era uscito per i tipi della Jaca Book L'esperienza della Chiesa - Scritti per una “Chiesa della compassione”.

Padre Josef Zverina era nato nel 1913 in un paesino sperduto a cavallo tra Boemia e Moravia. Aveva studiato teologia a Roma e storia dell’arte a Parigi, alla Sorbona. Durante la guerra era stato internato dalla Gestapo nel campo di Zasmuka, mentre nel 1950 era stato condannato a 25 anni di carcere - con una riduzione di 3 anni perché di origine operaia. Il capo d’accusa era “alto tradimento e spionaggio a favore di una potenza straniera”, perché, come ha scritto egli stesso “io riconoscevo il Papa. Per questo venni proclamato «agente di una potenza straniera» e, per questa ragione, escluso da tutte le possibili amnistie future, poiché esse non potevano essere concesse agli «agenti del nemico»”[1]. Il corpo del reato era costituito da tre lettere personali inviate ad un suo amico sacerdote che viveva all’estero.

Aveva trascorso 14 anni, dal 1952 al 1965, nelle carceri comuniste e nelle miniere di uranio, e poi altri 10 anni di privazione dei diritti civili. “ (…) venni trasferito al «campo 4», nella regione di Jáchymov, dove il lavoro forzato consisteva nell’estrarre minerali di uranio che venivano trasportati in Unione Sovietica: partivano due o tre convogli ferroviari al giorno. Durante le operazioni di carico, passavano pr le mie mani da 40 a 60 tonnellate al giorno. Poi venni trasferito a un campo di lavori forzati meno duro fisicamente, ma assai più pericoloso: vi si producevano dei preparati per esperimenti di laboratorio per conto dell’Unione Sovietica. Non c’era nessun sistema di protezione contro le radiazioni, la polvere e il gas di radon”[2].

Proprio durante la prigionia aveva scritto la prima versione della Teologia dell’agape su foglietti di carta igienica nel carcere duro di lavori forzati di Valdice, in Boemia, e li aveva nascosti in un buco nella parete della cella.

Dopo l’invasione sovietica del 1968, era stato “messo in pensione” da sacerdote. Di fatto era agli arresti domiciliari, e per vivere faceva il magazziniere. In realtà si dedicava clandestinamente alla preparazione spirituale e culturale del popolo cristiano.

Nel 1970 aveva consegnato a due nostri amici una Lettera ai cristiani d’Occidente[3], che ben presto era divenuta per noi un testo fondamentale di riflessione per il forte richiamo in essa contenuto a non cedere alle lusinghe dell’ideologia, di qualsiasi colore essa fosse.

All’espressione, in voga da noi di Chiesa del silenzio aveva sostituito l’espressione Chiesa della compassione per indicare un metodo pastorale fondato sulla condivisione e non sulle parole, anche perché non sopportava il formalismo e la meschinità ed era convinto che la Chiesa dovesse avere "un cuore nuovo, ampio, spalancato”.

Per la sua apertura umana e spirituale e la sua visione della teologia come agape era guardato con stima e simpatia anche dai non credenti; inoltre, proprio per il suo amore per la libertà era stato uno dei primi firmatari di Charta ’77.

Dalla metà degli anni ’70 si occupava clandestinamente della formazione culturale e religiosa di gruppi giovanili sparsi in tutta la Cecoslovacchia, e, come scrisse dopo il 1989: “La teologia dell’agape è nata dalla gioia, ci hanno lavorato i miei uditori, la nostra comunità, i miei amici qui e altrove e molti collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita (Fil 4,3)”.

Ricorda una dei partecipanti: “Essendo dei corsi veri e propri, c’erano anche gli esami. Lui era formidabile, ma durante gli esami era severo. E guai a recitare tutto a memoria! Josef chiedeva come lo avresti spiegato a Tizio e Caio, ecc. Una volta qualcuno ha suggerito sbagliato e lui gli ha tolto anche l’esame che aveva già dato! Un altro poveretto, oggi sacerdote, ha ripetuto un esame nove volte… Io non ero una studentessa assidua, spesso dovevo aiutare in cucina, e non rimaneva tempo per lo studio. Ma sono grata di aver potuto ascoltare qualcosa anche mentre preparavo da mangiare. Quello che sentivo lo divoravo, era come una sete spirituale, assorbivi tutto come una spugna”.

Un’altra testimone di quegli incontri ricorda: “Ci davamo del tu, eravamo un’unica grande famiglia, parlavamo delle nostre difficoltà, con sincerità e fiducia. Era bellissimo, e Josef condivideva tutto questo con noi”. Le giornate erano scandite da un ritmo preciso: di mattina presto le lodi, poi la colazione, le lezioni, il pranzo, la siesta e nel pomeriggio la ripresa delle lezioni fino a sera, la messa e infine la cena comune”.

Parlando di questo suo lavoro pastorale, ha scritto il suo amico fraterno padre Tomás Hálík: “Non lavorava in un oscuro nascondiglio: su di lui erano sempre puntati i riflettori della polizia segreta. Mentre la maggior parte di noi veniva costantemente vessata, ora in modo diretto, ora in modo indiretto, dalla lunga ombra della polizia, sembrava che padre Zverina considerasse i suoi interrogatori, che si facevano sempre più frequenti, come un allenamento: «Oggi ho conosciuto un nuovo giovane inquirente; si è presentato a me come il mio angelo custode»”, mi diceva ad alta voce con un bonario sorriso nel bel mezzo del tram, e aggiungeva: «non sa niente, e io ho giocato con lui come il gatto col topo!»

Mi ricordo della fiaba di Drda Le veglie con il diavolo, dove l’autore da quel che si dice, ha trascritto in codice le sue esperienze con la polizia segreta: il potere dell’inferno si basa sulla nostra paura, e solo chi si dimenticherà della paura riuscirà a vincere. Questo è un metodo che costa caro, ma è infallibile. Presuppone solo una condizione: l’uomo deve cessare di pensare a se stesso. L’affascinante libertà interiore di Zverina costrinse alla rabbia non solo gli inquirenti della polizia segreta e gli infelici membri della Pacem in Terris (…) ma anche molti fra anime meschine e santi malinconici. Il suo humor proverbiale aveva proprio qui in questa libertà da se stesso, la sua profonda origine spirituale”[4].

Per padre Zverina il cattolicesimo deve essere “magnanimo”; non sopportava il bigottismo e la meschinità, era convinto che la Chiesa dovesse avere “un cuore nuovo, ampio, spalancato come il cuore di Cristo sul Calvario trafitto dalla lancia del soldato. Credere nella Chiesa significa credere che la Chiesa accade nell’amore e nell’amicizia, nell’unione del corpo e dell’anima.”[5]

Nel novembre 1989 padre Zvěřina a Praga fu al fianco di Václav Havel, che gli chiese di parlare ad una folla di oltre mezzo milione di persone che stava festeggiando la “Rivoluzione di velluto”. E quella folla rispose alle sue parole scandendo un’unica grande parola “grazie!”.

Da storico dell’arte, si era laureato alla Sorbona, aveva un particolare amore per la bellezza accompagnato da un grande amore per l’Italia, dove aveva studiato teologia.

Era tornato in Italia nell’agosto del 1990 per partecipare al Meeting di Rimini, dove tanti “amici” lo stavano aspettando con impazienza e gioia. Ma, purtroppo, è morto il 18 agosto facendo il bagno nelle acque di Nettuno.

È ancora l’amico Halík a ricordare: “Josef Zvěřina è morto simbolicamente in mare, l’elemento impetuoso che lui amava, il cui dinamismo e la cui profondità preferiva come immagine della misericordia e dell’amore di Dio. anche noi, suoi discepoli e amici, vorremmo rivolgerci a lui facendo nostre le parole di Eliseo ad Elia: chiediamo un po’ della tua sapienza, del tuo humor gentile, del tuo enorme coraggio, della tua fedeltà alla Chiesa, della tua comprensione degli uomini, della tua libertà e della tua gioia interiore, della tua devozione al popolo e del tuo zelo per il Regno di Dio”.

[1] J. Zverina, La gioia di essere Chiesa, CSEO, Bologna, 1990, p.14
[2] Ibidem, p. 15
[3] J. Zverina, L'esperienza della Chiesa - Scritti per una "Chiesa della compassione", Jaca Book 1971.
[4] T. Halík, In memoria di Josef Zverina, in: “L’altra Europa”, n. 5 (233), p. 12
[5] J. Zverina, La gioia di essere Chiesa, CSEO, Bologna, 1990, p. 34

Annalia Guglielmi

Annalia Guglielmi, esperta di Polonia ed Europa dell'Est

29 ottobre 2015

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