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Václav Havel e il "potere dei senza potere"

di Annalia Guglielmi

Vaclav Havel

Vaclav Havel

In un momento in cui nessuno poteva prevedere che la storia subisse un’accelerazione tale da portare alla luce la loro statura morale, ho sempre considerato un grande privilegio aver potuto incontrare nella mia vita dei “grandi”, nel senso di uomini che hanno fatto grandi cose in modo non solo totalmente gratuito, senza chiedere e ricevere nulla in cambio, ma spesso pagando un prezzo altissimo per la loro fedeltà alla verità e alla loro coscienza di uomini interiormente liberi, e vivendo questa loro “grandezza” nella più assoluta “normalità”. 

Fra questi incontri un posto particolare meritano certamente Václav Havel e padre Josef Zverina che incontrai a Praga nel 1984. Erano profondamente diversi per impostazione culturale e scelte di fede, ma erano accomunati, oltre che da una grande amicizia e dal comune impegno in Charta ’77, dalla stessa passione per l’uomo e per il suo destino ultimo, dallo stesso sguardo sulla realtà e dallo stesso amore per tutto ciò che costituisce la vita dell’uomo e la sua azione.

Quando ebbi l’opportunità di andare a casa sua, Havel era uscito dal carcere solo da pochi mesi.

Ancora una volta dovetti vestire “alla cecoslovacca”, e per arrivare al suo appartamento dovemmo passare attraverso le cantine dei palazzi adiacenti al suo, che “qualcuno” aveva lasciato aperte per noi. Gli portai l’edizione italiana de Il potere dei senza potere, che nel 1979 aveva inaugurato la collana Outprints di CSEO e che il suo grande amico polacco Adam Michnik in un lungo articolo che aveva scritto in occasione del settantacinquesimo compleanno di Václav Havel - l’8 ottobre 2011 - definisce con queste parole: “Il potere dei senza potere è la sintesi più matura della genesi, della filosofia politica e dell’ethos dei movimenti dissidenti dell’Europa Centro Orientale”. E ancora: “Il saggio di Havel parla della nascita di Charta ’77, di quella solidarietà di «coloro che hanno subito il crollo» del «potere dei senza potere» (i dissidenti) e dell’«impotenza dei potenti» (gli uomini dell’apparato). «L’impotenza dei potenti» dipende dalla natura del potere, che può reprimere, ma non genera nulla, è irrigidito, ha perso ogni moralità. Infatti, coloro che sono costretti a vivere nella menzogna e nell’umiliazione sono assetati di verità e dignità. Ha scritto acutamente Havel: «E’ come un’arma batteriologica, con la quale, in condizioni adeguate, un unico civile può sconfiggere un’intera divisione armata!».

Havel non sapeva nulla di questa edizione italiana della sua opera e ne fu stupito e molto grato. Credo che questo sia rimasto profondamente impresso nella sua memoria, se nel 1989, dopo la “rivoluzione di velluto” e la sua elezione a presidente della Repubblica, ne parlò con un amico giornalista italiano, che era riuscito ad avvicinarlo sventolando proprio il libriccino di CSEO, e gli chiese di portarci i suoi saluti.

Per la sua sicurezza non ritenemmo opportuno trasformare quell’incontro in intervista. A noi premeva soprattutto fargli sapere che in Occidente c’era qualcuno che aveva a cuore lui, i suoi amici e il loro lavoro. Forse per questo carattere assolutamente “privato”, fu un incontro molto intenso e a tratti commovente, davanti ad una tazza di tè nel suo appartamento nel centro di Praga, in un palazzo al cui ingresso c’era una lapide in memoria di suo padre, noto imprenditore edile prima della guerra, i cui beni erano stati nazionalizzati dal regime.
Parlammo degli anni di carcere appena finiti e delle sue prospettive future, e soprattutto di come avremmo potuto sostenere l’opera di Charta ’77; ci rivolse un appello molto accorato perché non ci stancassimo di tenere alta l’attenzione su quanto avveniva in Cecoslovacchia, perché solo il timore dell’opinione pubblica internazionale poteva in qualche modo frenare o mitigare un po’ lo strapotere del regime.

Il suo pensiero, la sua opera e la sua storia ci erano divenuti familiari attraverso le frequenti pubblicazioni dei suoi testi sia nelle collane della casa editrice, che sul mensile di CSEO.
Il potere dei senza potere si era imposto all’attenzione di coloro che volevano contribuire alla costruzione di una società civile nei difficilissimi anni di piombo dell’Italia di allora, ed era divenuto oggetto di studio e discussione soprattutto fra alcuni gruppi di studenti universitari (anche questo stupì molto Havel, che non immaginava che le sue parole potessero essere tema di discussioni pubbliche nelle università italiane), perché era un’analisi dei sistemi post totalitari, che stravolgeva tutte le interpretazioni dell’epoca e indicava una via d’uscita dall’oppressione che non faceva appello a nessuna ideologia, perché nasceva dalla vita, e quindi era molto interessante anche per l’Italia di quegli anni, in cui la fuga verso l’ideologia per molti era l’unica soluzione possibile alla drammatica situazione del Paese.
“Non è opposizione nel senso della politologia corrente, e nemmeno dissenso secondo l’etichettatura convenzionale. [Il potere dei senza potere] nasce dalla vita nella verità” , come si legge nella prefazione, o, come scriveva Havel stesso: “Fra le intenzioni del sistema post-totalitario e le intenzioni della vita c’è un abisso profondo. Mentre per sua natura la vita tende al pluralismo, alla varietà dei colori, ad organizzarsi e costituirsi in modo indipendente, tende, insomma, a realizzare la propria libertà, il sistema post-totalitario esige monolitismo, uniformità, disciplina”.

Parlando dell’essere “dissidente” Havel scriveva: “In genere l’uomo prende coscienza di essere un dissidente quando lo è già da un pezzo, e questa posizione è l’esito di sue concrete prese di posizione nella vita suggerite da motivi ben diversi che non la ricerca di questo o quel titolo e le sue prese di posizione e il suo lavoro concreto non sono l’esito di un precedente proposito di essere un «dissidente». Insomma, la «dissidenza» non è una professione, anche se uno le dedicasse 24 ore su 24; è invece inizialmente e soprattutto una posizione esistenziale” , e ancora: “Un uomo non diventa dissidente perché un bel giorno decide di intraprendere questa stravagante carriera, ma perché la responsabilità interiore combinata con tutto il complesso delle circostanze esterne finisce per inchiodarlo a questa posizione: viene sbattuto fuori dalle strutture esistenti e messo a confronto con esse. All’inizio non era né più né meno che l’intenzione di fare bene il proprio lavoro – e alla fine c’è il marchio di nemico” .

Come scrive Michnik: “[Havel] una volta ha scritto che il “dissidente” è simile a Sisifo, che spinge in alto la sua pietra «pur sapendo che le possibilità di raggiungere la cima della montagna sono quasi nulle, la spinge semplicemente perché non ha altra possibilità per essere in sintonia con se stesso e per dare, almeno in questo modo, un senso alla propria vita e scoprire così l’orizzonte della speranza».

Ritengo che per i miei amici dissidenti, e anche per me, questa filosofia di vita del dissidente fosse sufficiente. Ad Havel non bastava. Egli lottava non solo contro la dittatura comunista, ma anche contro il male della civiltà contemporanea. Ha scritto: «Ogni tentativo di rinchiudere nelle mani dell’uomo tutta la natura e di deriderne il mistero, in poche parole, di far fuori Dio e di fingere di essere Dio, dovrà prendersi la sua vendetta sull’uomo. (…) Semplicemente: l’uomo non è Dio».
Questo non lo ha scritto il dissidente politico, ma l’homo religiosus che si occupa di filosofia, cosa che Havel in fondo è sempre stato.

Havel rifiutava la concezione atea del mondo. Il protagonista della sua opera La tentazione (alter ego dell’autore) dice: «Quando l’uomo scaccia Dio dal proprio cuore, apre la porta al diavolo. Quell’immensa opera che è stata l’Olocausto, insieme all’ottusa arroganza del potere e all’ottusa obbedienza dei senza potere, quell’opera che è stata l’Olocausto realizzata sotto le bandiere della scienza – e anche noi siamo i grotteschi alfieri di quelle bandiere – non è forse un’opera diabolica? Sappiamo bene che il diavolo è il maestro del travestimento. E possiamo forse immaginare un travestimento migliore di quello che propone il laicismo contemporaneo? Per il diavolo, il miglior spazio di manovra deve essere proprio là dove si è smesso di credere nel diavolo!».

Anche le sue riflessioni sulla responsabilità furono per noi un grande stimolo ad essere seri con la realtà in ci trovavamo a vivere: “Patočka diceva che quello che è più stimolante nella responsabilità è che la portiamo con noi ovunque. Questo vuol dire che dobbiamo assumerla qui e ora in questo spazio e in questo tempo in cui il Signore Dio ci ha posto e non possiamo infischiarcene dirigendo la rotta altrove, magari verso un monastero indiano o la «polis parallela» (…) La «polis parallela» è indicativa e ha senso solo come atto di approfondimento della responsabilità verso il tutto e per il tutto” .

Oltre alle sue riflessioni sulla situazione del suo Paese e a numerosissimi articoli, CSEO pubblicò anche alcuni testi teatrali di Havel, e, nel 1983 le Lettere a Olga, che egli aveva scritto all’amatissima moglie, durante la carcerazione e anch’esse divennero per molti di noi oggetto di studio e riflessione.
Scrive ancora Michnik: “Per Václav Havel vivere nella verità voleva dire dare testimonianza con la propria vita. Questo era il suo «potere dei senza potere» e il suo atteggiamento durante la prigionia ne è una chiara testimonianza”, e niente più delle lettere che dal carcere scrisse alla moglie descrive meglio questa sua testimonianza.

L’amplissima e dottissima prefazione delle Lettere fu scritta da“Sidonius”, pseudonimo dietro cui si celava l’identità di Zdenek Neubaurer, (biologo, filosofo ed epistemologo che conoscevamo molto bene, anzi era veramente un caro amico di molti di noi, uomo attivissimo e vivacissimo, nonostante avesse una gravissima disabilità fisica), in cui, tra l’altro leggiamo: “Le lettere sono una pressante testimonianza per il nostro tempo. Diciamo espressamente «per il nostro tempo» e non «del nostro tempo», poiché questa testimonianza non può essere considerata un sintomo del tempo attuale; non è una meditazione che rifletta la situazione in cui si trova l’autore o il suo popolo, o magari l’uomo moderno o l’attuale umanità (…) La caratteristica essenziale di questo messaggio è di essere espresso – a differenza delle verità scientifiche – attraverso una esperienza personale e per bocca di un uomo concreto, che assume la piena responsabilità per questa verità, che risponde di essa con la sua coscienza e il suo onore, che le rende testimonianza con la vita e la afferma con la sofferenza” .

Era veramente questa testimonianza di “responsabilità per la verità” resa “con la vita” e affermata “con la sofferenza” il tratto più evidente di tutto il movimento di Charta ’77, dei circoli intellettuali, e dei sacerdoti della Chiesa clandestina, che rendeva ognuno di questi incontri un impegno e un legame. Dopo aver incontrato persone come quelle non si poteva tornare alla propria vita di tutti i giorni. In qualche modo ci era chiesto, non da loro, ma dalla loro stessa vita, di fare un passo in più per immedesimarci con la loro pasta umana e con la loro esperienza.

1 ottobre 2015

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