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Carta dell'ambiente

La responsabilità di un pianeta fragile. Riflessioni e pratiche virtuose per comprendere e rispondere all’emergenza climatica

Con l’avanzare del ventunesimo secolo sta diventando sempre più evidente che i problemi cruciali della nostra epoca non possono essere studiati e capiti separatamente, in quanto sono problemi sistemici, interconnessi e spesso interdipendenti. Le soluzioni a tali questioni, quindi, richiedono un mutamento radicale di percezione: oggi più che mai occorre imparare ad assumersi una responsabilità globale.
Ogni giorno assistiamo agli effetti del riscaldamento globale, e rischiamo di essere la generazione che passerà alla storia per non aver impedito catastrofi epocali.

L’emergenza climatica che incombe, tuttavia, potrebbe paradossalmente spingerci tutti a ritrovare il senso di appartenenza ad un’unica natura. Che senso ha la divisione di fronte a un pericolo che sovrasta tutti?
In un mondo globalizzato e interconnesso, chi pensa che ognuno possa salvarsi da solo, che ogni Paese possa perseguire i propri interessi separandosi dagli altri, non solo sceglie la strada dell’irrilevanza, ma rischia di farsi trascinare dalla paura e di innestare una lotta fratricida per la sopravvivenza che può provocare tensioni pericolose fino alla guerra di tutti contro tutti.

Superare l’indifferenza

Ancora una volta, il primo passo è superare l’indifferenza.
Il riscaldamento globale, ovvero l'aumento della temperatura del pianeta causato da quantità crescenti di anidride carbonica, metano e altri gas serra intrappolati nell’atmosfera, è noto da decenni, così come lo sono le cause di questo fenomeno: le attività umane come l'uso di combustibili fossili, la deforestazione o l'allevamento intensivo di bestiame, principali fonti di emissione di gas a effetto serra.

Testimone inascoltato di questo fenomeno, così come durante la Shoah lo era stato Jan Karski, è lo scienziato statunitense Wallace Broecker, il “pioniere” dei cambiamenti climatici. Già nel 1975, nonostante il pianeta vivesse una fase di lieve diminuzione della temperatura globale, Broecker intuì che tale temperatura sarebbe aumentata nei futuri 40 anni “ben oltre i limiti degli ultimi mille anni”, a causa dell’aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Aveva compreso, nel dettaglio e con largo anticipo, quello che conosciamo come riscaldamento globale, e le conseguenze che avrebbe avuto sul pianeta. Ma, in quel periodo, pochi erano pronti ad ascoltare.
Oggi il tema dei cambiamenti climatici si è diffuso nel dibattito pubblico, ma è ancora fondamentale superare la disconnessione tra scienziati, intellettuali, politici e cittadini, perché solo costruendo insieme i passi del cambiamento sistemico potremo accelerarne gli effetti.

Comunicazione, linguaggio, legame tra uomo e natura

In questo senso, è fondamentale capire “come” parlare di ambiente e cambiamenti climatici.
È prima di tutto un problema di comunicazione. La tematica è stata infatti spesso relegata all’angolo delle scienze naturali, con la ripetizione di dati allarmanti che prefiguravano un futuro catastrofico. Un modo di comunicare che, da un lato, allontana il pubblico, che rischia di incappare in un “effetto saturazione” fatto di stanchezza e indifferenza. Dall’altro, invece, rischia di originare una sorta di “religione del pessimismo”, una divinizzazione della natura che non lascia spazio al perdono, alla speranza e alla possibilità dell’uomo di agire per cambiare la situazione. Tale concezione di “Madre Gea” potrebbe infatti quasi suggerire l’idea di un pianeta che è in grado di prendersi cura di se stesso, deresponsabilizzando gli uomini per le loro azioni - passate e presenti. Occorre evitare di dipingere la natura come un mito, ma riscoprire invece il rapporto con la natura stessa e gli altri esseri umani, ritrovando la nostra fragilità e comune umanità. Se il termine “natura” non trasmette l’idea di comunanza con gli esseri viventi, infatti, finiremmo per non sentirci parte del processo naturale, ma al di fuori (e spesso sopra) di esso.
Oggi si tratta invece di accogliere e affermare, prima di tutto, il legame tra esseri umani e pianeta, comprendere il posto dell’uomo all’interno della natura ed essere consapevoli della realtà presente e del ruolo che in essa hanno avuto, hanno e avranno i comportamenti umani. Ecco perché si deve evitare, nella comunicazione, di trasmettere l’idea che sia troppo tardi, che non ci sia più tempo per agire e trovare una soluzione.
Non basta più dichiarare lo stato d'allarme. Occorre portare all'attenzione un'informazione sostenuta da contenuti scientifici verificati e resi subito comprensibili. L’emergenza c’è, è reale, ed è fondamentale che gli individui ne acquistino consapevolezza: per questo è importante incentrare la comunicazione su dati e proiezioni affidabili, puntare sulla collettività e sulla natura sociale dell’essere umano, preoccuparsi dei problemi globali, ma con un occhio di riguardo al nostro “giardino” e al nostro tempo.

Rischi ambientali, ma non solo

Solo così si può diffondere conoscenza, sui cambiamenti climatici e sull’impatto globale del fenomeno. In questo modo si “sottrae” la tematica alla mera scienza, e la si reinserisce in un contesto sociale, globale, di cui ognuno possa assumersi la responsabilità. Se da un lato, infatti, è impossibile non parlare di fenomeni come lo scioglimento dei ghiacciai continentali, l’innalzamento del livello del mare con conseguente erosione delle coste, aumento di alluvioni costiere e intrusione di acqua salina nel suolo, e l’intensificazione di fenomeni meteorologici estremi, dall’altro dobbiamo considerare un fattore molto importante, ovvero l’impatto su diseguaglianze e diritti umani. I cambiamenti climatici non colpiranno tutti nello stesso modo. È facile immaginare come, in aree già vulnerabili del mondo, una diminuzione delle risorse idriche e alimentari costringa la popolazione a dividersi una fetta più piccola delle stesse, causando nuovi conflitti o acuendone di preesistenti. Se tutto ciò si combina con l’instabilità politica del Paese, e con economie già ai limiti della sostenibilità non è difficile pensare a conseguenze importanti, come aumento della povertà e nuove ondate migratorie.
In una nuova ottica della tutela dei diritti umani, quindi, difendere i diritti non potrà più prescindere dal fenomeno dei cambiamenti climatici. Il nuovo umanesimo passa necessariamente dalla cura dell’ambiente: è arrivato forse il momento, per le istituzioni internazionali, di riconoscere formalmente il diritto a un ambiente sano.

Gestire l’inevitabile, evitare l’ingestibile

Di fronte a tutto questo, è possibile cercare di mitigare gli effetti del cambiamento climatico, ma senza dimenticare le strategie di adattamento.
Per descrivere questa condizione, il climatologo Filippo Giorgi utilizza la frase “gestire l’inevitabile ed evitare l’ingestibile”. Occorre sempre tenere presente che è impensabile che il riscaldamento globale si arresti improvvisamente, almeno nelle prossime decadi. Questo fenomeno continuerà: se il clima cambia, la natura si adatta, e così deve fare la società. Il punto è, e sarà, di contenere tali cambiamenti entro limiti che non mettano in pericolo lo sviluppo sostenibile – entro cioè la cosiddetta soglia di pericolo.
Molti Paesi nel mondo stanno sviluppando strategie di adattamento ai cambiamenti climatici, come la costruzione di dighe costiere più alte nei Paesi Bassi in risposta all’innalzamento del livello del mare. Oggi è impensabile che politiche di pianificazione socio-economica e territoriale non tengano in considerazione il problema dei cambiamenti climatici. Ma per non raggiungere la soglia di pericolo, individuata nell’accordo di Parigi come due gradi al di sopra delle temperature pre-industriali, occorrono delle politiche di mitigazione, ovvero di riduzione delle emissioni di gas serra. La mitigazione è dunque legata prevalentemente a tecnologie e politiche energetiche volte a de-carbonizzare il sistema energetico. Adattamento, per gestire gli effetti climatici inevitabili, e mitigazione, per evitare che tali cambiamenti siano così gravi da non poter essere gestiti in maniera sostenibile, devono però essere attuati allo stesso tempo, e con urgenza, per produrre una risposta efficace al riscaldamento globale.
Come specie, abbiamo una grande resilienza. Con una maggiore consapevolezza del problema, si andrà verso una soluzione, che è possibile e non richiede cambiamenti epocali, poiché è questione di un uso più razionale ed equo delle risorse che abbiamo.
Per questa risposta, il ruolo dell’innovazione diventa cruciale.

Il ruolo dell’innovazione e delle aziende

Oggi ci sono tutte le condizioni affinché l’umanità possa ritrovare un percorso di condivisione e mettere a frutto i progressi della scienza per migliorare il benessere collettivo. Il terreno è ormai fertile per sviluppare tecnologie rinnovabili, muoversi a emissioni zero, vivere in edifici a basso impatto ambientale, attuare nuovi modelli di produzione industriale. Se ci sono misure che possono essere prese dai singoli, per la diffusione di conoscenza e di buone pratiche di consumo, anche il mondo del business è centrale nella criticità del momento e dovrà spingersi verso un modello più attento all’ambiente.
La produzione infatti deve necessariamente adattarsi ai nuovi scenari ambientali e mitigare l’impatto sul territorio: servono un’agricoltura che riduca il consumo di suolo mantenendone elevato il rendimento e investimenti in colture che siano adatte al territorio in cui vengono coltivate. Gli scarti devono essere poi riutilizzati in maniera intelligente, reimpiegati, garantendo un processo circolare.
In campo energetico, occorre guardare alla riduzione degli sprechi, che oggi arrivano al 60% dell’energia prodotta. È quindi indispensabile puntare sull’efficienza energetica e sulle energie rinnovabili, che già oggi potrebbero fornire tutto il fabbisogno mondiale, se superassimo l’ostacolo della distribuzione dell’energia.
Prendiamo come esempio l’acqua, risorsa tanto indispensabile da diventare spesso causa di divisioni e conflitti. Le soluzioni per una gestione integrata e circolare dell’acqua già esistono: non sprecarla e limitarne la dispersione, adottare tecnologie che massimizzino l’efficienza idrica e trarre valore dagli scarti. Occorre poi sottolineare che la maggior parte dell’acqua è impiegata nell’agricoltura e nell’allevamento, e che viene sprecato circa il 30% del cibo prodotto al mondo (e quindi, presumibilmente, il 20% dell’acqua utilizzata). In sostanza, assetiamo popolazioni per produrre risorse alimentari che poi buttiamo.
Per rispondere a tutto questo, occorrerebbe tuttavia regolamentare le logiche di produzione e di profitto in nome di una tutela ambientale che porti, nelle parole e nei fatti, a uno sviluppo sostenibile e diffuso, volto alla riduzione delle diseguaglianze e quindi a un aumento della resilienza delle popolazioni. In questo senso rientra anche il superamento di fenomeni come il land grabbing e il consumo di suolo senza limiti.
La spinta verso la green economy è una scelta di razionalità, ormai forse inarrestabile e certamente più conveniente dal punto di vista economico della carbon economy.
In ogni caso, è importante valorizzare la cultura ambientale, anche in ambito tecnologico e industriale: la difesa dell’ambiente è spesso vista come un ostacolo allo sviluppo, quando invece occorrerebbe capire che avere un ambiente migliore significa migliorare la condizione.

Verso un’assicurazione per il clima

Cosa ostacola quindi i governi nella creazione di accordi, piani e strategie condivise, come era accaduto invece per l’emergenza del buco nell’ozono?
Un problema è stata la mancata percezione del rischio. Cambiamenti come quello climatico sono relativamente lenti rispetto all’evoluzione della società e della vita umana: dire che le temperature potrebbero alzarsi di 5 gradi entro il 2100 non è immediatamente avvertito come rischio per un uomo del 2019. Non siamo abituati a pensare su tempi lunghi, ma la velocità di quello che sta succedendo ora, e potrebbe succedere nelle prossime decadi, è qualcosa che il pianeta non ha probabilmente mai visto nell’ultimo milione di anni, e potrebbe portare a un mondo molto diverso da quello attuale.
A livello politico, nonostante i vari tentativi di raggiungere un accordo sul clima, non si è ancora arrivati a una strategia comune. Se guardiamo ai responsabili delle emissioni, possiamo già comprendere il perché. Ai vertici di questa classifica troviamo Cina, Stati Uniti, Europa, Russia e India: da un lato i Paesi industrializzati, che sono stati fino ad ora i maggiori produttori di gas serra (e quindi causa principale del riscaldamento globale), dall’altro le economie emergenti, che reclamano il loro diritto allo sviluppo.
Viviamo una situazione simile a un “dilemma del prigioniero”, in cui ogni Stato ha un incentivo a tradire i suoi impegni, nonostante la collaborazione darebbe un risultato migliore a tutti. Finché la cooperazione climatica sarà improntata (e comunicata) a partire dal sacrificio, essa sarà non solo più vulnerabile di fronte ai negazionismi, ma potrà alimentare nuove chiusure nell’interesse nazionale. Bisogna capire che la green economy favorisce, non ostacola, lo sviluppo. Ciò che occorre è una strategia in cui il vantaggio di cooperare superi e amplifichi in maniera sinergica, l’impegno e l’azione dei singoli.
Qualcosa di simile non è nuovo nella storia recente: basti pensare al protocollo di Montreal, sottoscritto nel 1987 per affrontare l’assottigliamento dello strato di ozono. Esso è il primo accordo nella storia delle Nazioni Unite firmato da tutte le 197 nazioni e ha permesso, tramite la collaborazione, di eliminare i gas responsabili del problema - e di conseguenza di porre le basi per la progressiva soluzione del fenomeno.
Certo, il problema dello strato di ozono era relativamente semplice rispetto al cambiamento climatico, che è una sfida più complessa e multidimensionale. Sicuramente, tuttavia, anche negli anni ’80 gli interessi nazionali avrebbero potuto prevalere sulla responsabilità globale, ma così non è stato. Montreal ci ricorda che nulla in politica è inevitabile, che i profitti non devono venire prima delle persone, che problemi globali possono avere soluzioni globali e che noi possiamo creare il nostro futuro.
La spinta verso un accordo globale sul clima deve venire da tutti noi, dalla società civile, dall’economia, e soprattutto dalle giovani generazioni, che saranno quelle più esposte ai cambiamenti climatici. Tale accordo deve essere letto come una sorta di “assicurazione” per il pianeta: investire oggi per salvaguardarci da una crisi di domani.

Il ruolo dei Giusti

Ancora una volta, le storie dei Giusti ci trasmettono un messaggio di ottimismo e speranza. I Giusti per l’ambiente, infatti, dimostrano che chi si batte in difesa del pianeta non è solamente un “difensore” dell’ecosistema, ma un difensore dei diritti di tutta l’umanità.
Le loro biografie, anche nelle situazioni più difficili, mostrano che ogni essere umano può usare il suo personale spazio di libertà per spingere la storia in una nuova direzione. I Giardini dei Giusti non solo possono fare conoscere le storie di questi uomini, ma anche proporre buone pratiche e nuovi comportamenti per il rispetto e la salvaguardia dell’ambiente, creando un meccanismo di emulazione nella società.
Oggi più che mai abbiamo la responsabilità di un pianeta fragile, che può sopravvivere soltanto con una cooperazione attiva tra gli esseri umani.
È una responsabilità globale che ha come posta in gioco la definizione stessa del rapporto tra uomo e natura ma che, allo stesso tempo, ci può dare un messaggio di grande fiducia, esortandoci a essere protagonisti del cambiamento e a fare della crisi ambientale un’opportunità per migliorare la qualità di vita delle comunità umane di oggi e di domani, nel rispetto dei limiti del pianeta.

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Paolo Bernasconi

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Emanuele Bompan

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Ilaria N. Brambilla

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Anne de Carbuccia

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Filippo Giorgi

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Marirosa Iannelli

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Piergaetano Marchetti

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Enea Roveda

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Simona Roveda

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Direttrice editoriale e comunicazione del Gruppo LifeGate

Giulia Wegner

Giulia Wegner

Ricercatrice di politiche per la sostenibilità ambientale all’Università di Oxford

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Qayssar Ahmed, direttore NWE Organization; Yair Auron, storico e docente alla Open University d'Israele; Jean Blanchaert, artista; Marco Cavallarin, regista, operatore culturale; Marilena Citelli Francese, presidente dell'Associazione MusaDoc; Giovanna Grenga, insegnante; Marco Gualtieri, imprenditore; Gerard Malkassian, filosofo; Cristina Miedico, direttrice del Museo Archeologico di Angera; Giorgio Mortara, vicepresidente UCEI; Luciano Scalettari, giornalista; Nadav Tamir, già diplomatico israeliano, membro del Consiglio del Mitvim; Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale all'Università degli Studi di Milano.

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