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Guida agli Stati Uniti di Trump e Biden. Una chiacchierata con Francesco Costa

intervista a cura di Joshua Evangelista

È notizia di poche ore fa che Donald e Melania Trump sono positivi al coronavirus. Questo succede a un mese esatto dalle 59esime elezioni statunitensi, in un 2020 in cui più di 7 milioni di cittadini sono stati contagiati dal virus e poco meno di 210 mila ne sono morti. Non solo è l'anno delle proteste contro la brutalità delle forze armate e il razzismo diffuso; due settimane fa è morta Ruth Bader Ginsburg, giudice della Corte suprema e tra le persone più importanti nel dibattito politico contemporaneo nel paese e nell'immaginario dei cittadini; due giorni fa abbiamo assistito a quello che, per alcuni analisti, è stato "il peggior dibattito elettorale nella storia degli Stati Uniti". Per avere qualche coordinata su questo momento storico e sulle ricadute che le elezioni americane potrebbero avere sul panorama internazionale dei prossimi anni abbiamo fatto qualche domanda a Francesco Costa, vicedirettore del Post, autore della fortunata serie di podcast Da costa a costa e del libro Questa è l'America. Storie per capire il presente degli Stati Uniti e il nostro futuro (Mondadori, 2020). 

Partendo dal presupposto che sminuire gli effetti del Covid sia stata una componente molto importante della campagna elettorale di Trump, quanto la sua malattia può avere un impatto sulla campagna elettorale? Più in generale, la pandemia può spostare voti?

È ancora presto per dire se influirà, abbiamo davvero pochi elementi per capire cosa stia succedendo, quali siano i sintomi. Sicuramente può influire e può anche dagli una mano, così come Boris Johnson e Bolsonaro, altri due leader molto criticati anche perché minimizzatori del virus, hanno avuto un aumento di consensi dopo essere stati contagiati. Se allarghiamo il discorso alla pandemia in generale, possiamo dire che è “il” tema. Queste elezioni sono anche, ma non solo, un referendum su Trump e la sua gestone della pandemia.

Il Washington Post ha definito lo scontro tra Biden e Trump andato in onda sulla Fox “il peggior dibattito presidenziale nella storia degli Stati Uniti”. Al di là di questa frase perentoria, sono più o meno tutti d'accordo nel dire che non è stata una gran serata per la democrazia. Che idea ti sei fatto su questa campagna elettorale? Cosa ha di diverso rispetto alle altre?

Il dibattito è stato un non-dibattito, la discussione non c’è stata. I due candidati si sono affrontati con molti colpi bassi. Trump prima di tutto, interrompendo e violando le stesse regole che i due candidati si erano dati. Ma lo stesso Biden ha insultato come nessuno aveva fatto prima un presidente americano in carica. È stato un dibattito sgradevole che in qualche modo è esemplare: sia a proposito di questa campagna elettorale, piena di colpi bassi e di argomenti che mirano a danneggiare l’avversario piuttosto che a promuovere se stessi. È anche esemplare rispetto alla situazione più generale del paese. Negli ultimi vent’anni gli Stati Uniti si sono radicalizzati e questa campagna elettorale non è altro che l’ultima tappa di un percorso che ha visto la prima vittoria di Trump, lo spostamento a sinistra del Partito democratico, i tea party, il complotto su Obama, la stessa vittoria di Obama e quella precedente di Bush. Da venti-venticinque anni i due schieramenti si sono divaricati e allontanati. Oggi siamo a uno stadio piuttosto evidente di questa radicalizzazione.

Mi ha molto colpito, ascoltando il tuo ultimo podcast, il ragionamento sulla strategia dell'interruzione che Trump adotta quando riceve domande che potrebbero essere scomode. C'è un pattern più o meno evidente: resetta la conversazione (attraverso battute e offese) e banalizza il dibattito. Al di là delle fake news, che sono tante e sempre meno vengono verificate, questa tipologia di dibattito sembra aver contagiato tutto il mondo politico occidentale e alcuni casi evidenti sono molto vicini a noi. Secondo te, stiamo assistendo al superamento di un punto di non ritorno nella comunicazione politica?

Io penso che il punto di non ritorno l’abbiamo superato nel 2016 con la Brexit e l’elezione di Trump. Quelle votazioni non hanno dimostrato che ci sono politici che mentono – ci sono sempre stati – ma che la verità in sé non ha più valore. È la cosiddetta post-truth society, la differenza tra il vero e il falso non è più così rivelante. Questo punto l’abbiamo superato. Peraltro queste tattiche hanno dimostrato di funzionare: anche qualora Trump venisse sconfitto, chi verrà dopo di lui avrà la consapevolezza che dire delle grosse bugie non metterà fine alla sua vita pubblica, come invece succedeva in passato. Questo non vuol dire che da qui in poi si possa solo peggiorare, tuttavia non vedo la possibilità che la situazione migliori.

Cosa servirebbe per cambiare una situazione che sembra ormai compromessa?

Perché le cose cambino servirebbero due cose molto difficili: la prima è qualche forma di cambiamento nel modo in cui funzionano i social media, che in questo hanno un ruolo centrale. Creano questa sorta di rumore di fondo che portano a una totale confusione quando si deve capire cosa è vero e cosa è falso. La seconda cosa è che serve una formazione culturale dei cittadini all’uso e all’interpretazione dei social, un qualcosa che noi non abbiamo e meno che meno hanno gli Stati Uniti. Forse con il passaggio di un paio di generazioni e soprattutto un lavoro più determinante della scuola, rivolto a fornire degli strumenti per interpretare le notizie con spirito critico e sapere verificare.

Ad un certo punto, durante l'ultimo dibattito, il conduttore ha chiesto a Trump di prendere le distanze dal suprematismo bianco e, in particolare, dalla milizia armata anti-migranti Proud Boys. Nel rispondere, Trump si è rivolto direttamente al movimento dicendo "Stand back and stand by". Una frase che ha sicuramente fatto molto discutere. Come la dobbiamo interpretare?

Dal punto di vista linguistico, per quanto la formula “stand-by” possa avere qualche ambiguità a seconda del contesto, in quello specifico frangente voleva dire: “State pronti”. Gli stessi Proud Boys hanno usato questa frase sui social, l’hanno messa nel loro logo. D’altra parte questo è coerente con quanto fatto finora fatto da Trump, che non ha mai condannato i suprematisti bianchi. Molto spesso li corteggia, li incontra e di fatto li legittima. Ovviamente è un passaggio importante di questa campagna elettorale ma allo stesso tempo non sorprendente. Nessuno può dirsi sorpreso dal fatto che Trump si sia rifiutato di dissociarsi dai suprematisti. Del resto lui ha avuto, dentro la Casa Bianca, consiglieri molto vicini a quegli ambienti.

Su questo sito ci stiamo occupando in maniera approfondita di Ruth Bader Ginsburg, giudice della Corte Suprema scomparsa lo scorso 18 settembre e, tra le altre cose, pioniera dell'affermazione dei diritti delle donne negli Stati Uniti. Tu hai seguito questa figura da molto tempo, qual è il tuo pensiero su di lei?

È una figura fondamentale e centrale nella storia americana. Si tratta di un personaggio molto conosciuto anche dalle persone che non seguono la politica. Nel 2018 ho curato per Storytel una serie di sette podcast per i quali avevo scelto altrettanti personaggi esemplari per raccontare gli Stati Uniti e una delle sette era proprio lei (gli altri sono: Alexandria Ocasio-Cortez, Sean Hannity, Warren Buffett, Beyoncè, Mark Zuckerberg, LeBron James, ndr). È un personaggio che entra nella storia ben prima di morire. Prima di diventare giudice della Corte Suprema ha avuto un ruolo fondamentale nella promozione dell’uguaglianza di genere negli Stati Uniti. Da avvocata vinse cinque dei sei casi che presentò alla Corte Suprema e quando venne nominata giudice dal Senato con 97 voti favorevoli su 100 e nessun voto contrario fu una cosa straordinaria, totalmente lontana dagli standard attuali e dell’epoca. Oggi viene considerata una giudice progressista, di sinistra (e sicuramente lo era), ma il suo patrimonio culturale e da giudice è un’eredità ampiamente condivisa tra gli americani, anche dai repubblicani.

I media progressisti l'hanno unanimemente elogiata. L'unica critica che ho letto riguarda il suo non aver rinunciato all'incarico quando governava Obama e il Senato era a maggioranza democratica. In quel modo verosimilmente a sostituirla sarebbe stata una figura più coerente al suo operato rispetto a Amy Coney Barrett, nominata da Trump. 

Capisco le critiche rispetto al non essersi dimessa quando avrebbe potuto essere rimpiazzata da un’altra giudice democratica ma capisco anche che lei è riuscita a lavorare al pieno della sua capacità, e lo si vede leggendo le sue sentenze, fino a pochissimo prima di morire. Va detto che si tratta di un incarico a vita, così da far sì che i giudici non siano in nessun modo ricattabili e condizionabili con la possibilità di un secondo mandato, da alcuna forma di potere. Compreso quello del popolo, dell’opinione pubblica. Capisco la posizione di chi dice: questo è il mio mandato che mi è stato assegnato e continuerò a portarlo avanti fino a quando potrò. Se vogliamo discutere delle regole della nomina della corte suprema è un altro discorso, ma questo non dipende da Ginsburg.

Il ruolo degli evangelici nelle elezioni viene sempre visto in maniera superficiale. Quasi fosse un monolite non pensante che a prescindere voterà per Trump. Come si voterà, secondo te, all'interno delle comunità di credenti evangelici?  

Premesso che ogni persona vota con la sua testa, i dati elettorali e i sondaggi fanno pensare che le persone che in qualche modo appartengono a uno dei tanti movimenti evangelici votano in gran maggioranza per i conservatori. Quello che possiamo vedere da qui è che in questi quattro anni c’è stato un consolidamento di Trump in quell’area. Seppure lui sia un improbabile rappresentante di queste persone, anche per il suo stile di vita così distante da quello di queste persone, banalmente è riuscito a mantenere le promesse che aveva fatto loro. Ha nominato tre giudici della Corte Suprema graditissimi ai conservatori e quindi anche agli evangelici, ha rivisto i regolamenti sulle interruzioni di gravidanza, ha portato avanti l’agenda dei conservatori americani, che è quello che storicamente ha fatto sì che gli evangelici si identificassero con i repubblicani sui cosiddetti temi etici. È questo che negli anni Settanta ha portato alla nascita della cosiddetta destra evangelica. Credo che Trump abbia perso dei consensi in questi quattro anni ma non quelli di chi vota pensando prima di tutto ai propri valori religiosi.

Parliamo dell’arcipelago Black lives matter. Al di là della forza dirompente del movimento, quali sono le figure singole più interessanti e di cui parleremo nei prossimi mesi o addirittura anni?

Non so fare nessun nome e questa è una caratteristica di questo movimento. Oggi non c’è un leader nazionale di BLM, né più persone che vadano in tv in qualità di rappresentanti di tutto il movimento. Ci sono attivisti più o meno noti, politici più o meno noti che hanno sposato la causa, ma non leader conosciuti nel mainstream. È una caratteristica fondamentale.

Cosa ne pensi della strategia del disaccoppiamento economico con la Cina? E di quello culturale? Chi beneficerà nel lungo termine?

Io credo che sia in moto un grosso cambiamento dal punto di vista dell’influenza politica sul mondo di questi paesi, un cambiamento che va avanti da molto tempo e ha conosciuto una accelerazione a cui ha contribuito la decisione degli Stati Uniti di abdicare a un loro certo ruolo di egemonia mondiale. Naturalmente la crescita economica della Cina ha fatto sì che questa abbia conosciuto un’enorme influenza in molti paesi, anche in Europa. Anche a prescindere dalla futura elezione di Trump, lo scenario è quello di Stati Uniti che vedono più ristretta la loro posizione nel mondo e i punti vuoti lasciati dalla Cina ma non solo, anche dalla Russia e dalla Turchia in Libia, ad esempio. O l’Arabia Saudita in Medio Oriente. In questo frangente il rapporto con la Cina è in una posizione complicata, non solo per la contesa commerciale che dovrà portare per forza, ad un certo punto, a un riequilibrio dei rapporti. Ma riguarda anche molto altro: la Cina si sta prendendo molti incarichi cruciali alle Nazioni Unite. L’Onu oggi ha molta influenza cinese, quasi più che statunitense. Il ritiro degli Stati Uniti dall’Oms ha lasciato di fatto alla Cina di un’organizzazione oggi fondamentale. Allo stesso tempo vedo la Cina molto indietro sul piano del cosiddetto soft power, ovvero l’influenza che esercita sugli altri paesi culturalmente e in maniera non coercitiva. Quando parlo di questa tematica chiedo sempre alle persone qual è il loro cinese preferito e quasi nessuno risponde perché quasi nessuno li ha visti. Questa egemonia culturale costituita dagli Stati Uniti nel Novecento, anche attraverso il mondo accademico, è ancora lontana dall’essere sorpassata.

Joshua Evangelista, Responsabile comunicazione Gariwo

2 ottobre 2020

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