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La non etica di Facebook e le domande sul nostro futuro digitale

Walt Mossberg: "Nei miei incontri con Zuckerberg non sono mai riuscito a scorgere nessun principio”

Ha dichiarato al New York Times Walt Mossberg, già principale editorialista di tecnologia del Wall Street Journal ampiamente considerato come uno dei giornalisti più influenti al mondo sulla tecnologia dell’informazione: "Tra i cinque giganti delle tech companies penso che Facebook sia quella gestita nel modo peggiore. Tanto tempo fa sono stato molto vicino a Steve Jobs e Bill Gates (ndr. Nel 2007, Mossberg condusse un’intervista storica a Steve Jobs e Bill Gates, il cui contenuto fu improvvisato sul palco): entrambi megalomani e talvolta sgradevoli, ma con dei principi, un limite da non oltrepassare, una red line. Nei miei incontri con Zuckerberg non sono mai riuscito a scorgere nessun principio.”

Ricordo che una volta Zuckerberg entrò nel mio ufficio di DC, erano i primi anni di Facebook e lui era lì per parlarmi del newsfeed, di come sarebbero apparse le notizie sul social. Non ricordo se usò esattamente la parola algoritmo ma di fatto mi raccontò di come voleva iniziare a guidare (profilare) ciò che gli utenti avrebbero visto per aumentare le loro interazioni. Litigammo per circa un’ora, gli spiegai che era qualcosa di molto pericoloso per la privacy delle persone, ma non ci capivamo in alcun modo. Io continuavo a parlare di privacy e lui non capiva quello che stessi dicendo. Anche in altri confronti che avemmo in seguito, non riuscì a pronunciare una frase di senso compiuto su questo tema.”

“Penso che fondamentalmente Facebook sia una compagnia non etica.”

Le parole di Mossberg ci riportano alla radice delle problematiche di cui il mondo si sta oggi accorgendo, con un po’ di ritardo, anche a seguito delle polemiche che hanno investito Facebook (Cambridge Analytica, Capital Hill…), ultima in ordine di tempo quella delle rivelazioni dell’ex dipendente di Zuckerberg addetta al contrasto alla disinformazione Frances Haugen. La dipendenza delle persone dai social media non è una conseguenza indesiderata che le grandi piattaforme social hanno riscontrato nella propria attività, è un loro obiettivo. Attuato con la profilazione degli utenti, notifiche push, induzione allo scrolling compulsivo. Sembra una constatazione banale ma l’impero Zuckerberg è una grande azienda privata, e come tale il suo obiettivo è il profitto, che aumenta quando riesce a tenere gli utenti il più possibile incollati allo schermo. Nel caso di Facebook, questo profitto viene ricercato sopra ogni altra cosa, senza alcun rispetto per gli utenti né preoccupazione per le ripercussioni globali; la compagnia si è infatti dimostrata più volte non all’altezza scegliendo sempre il guadagno piuttosto che la cosa giusta per le persone.

Tutto ciò alimenta quindi la disinformazione, la diffusione di notizie false e pericolose, gli algoritmi sono volti a mostrare ciò che provoca nelle persone una reazione emozionale, principalmente di rabbia, che genera interazione. La punta dell’iceberg di tutto questo, sono i rischi legati a gravi violazioni dei diritti umani e, nel caso più estremo, genocidi avvenuti o potenziali, che sono stati alimentati anche grazie ai social. Facebook è stata utilizzato nella pulizia etnica della popolazione Rohingya, per la diffusione di odio etnico in Etiopia, dai talebani per risollevare le proprie forze contro il governo afghano. Tutte situazioni che sono state segnalate ma per cui poco o nulla si è fatto. Ha dichiarato recentemente lo storico israeliano Yuval Noah Harari: "Purtroppo gli algoritmi si basano essenzialmente su un modello di business: tenerti il più possibile su quella piattaforma per fare più soldi, stimolando le emozioni negli utenti e quindi sempre più “engagement”. Per questo, online, i complottismi e le teorie anti vax funzionano meglio dei fatti. E pensare che l’unico complotto vero è quello dei social media, per come sfruttano gli utenti”.

Per questi motivi, ora che l’impatto dei social media è globalmente enorme a livello sociale, politico, sanitario, sulle vite delle persone, c’è da chiedersi che strada prendere per far sì che non sia solo la logica del guadagno a guidare le scelte di chi li gestisce. Come possiamo vigilare sui discorsi d'odio e sull’uso che viene fatto dei nostri dati? E come si può fare tutto questo senza limitare la libertà di espressione e la privacy di ognuno? Quando vigilare diventa sorvegliare?

Emerge sicuramente la necessità che gli Stati facciano la propria parte, a livello legislativo; ma lasciare che ogni Stato decida per sé potrebbe essere comunque un rischio soprattutto in quei Paesi autoritari, pensiamo alla Russia dove la situazione dell’informazione è tornata sotto i riflettori dopo il Nobel a Muratov, in cui i governi userebbe probabilmente la vigilanza sui social media come scusa per controllare ancora di più i propri cittadini e raccogliere informazioni preziose su di loro. C’è bisogno, viene da pensare, che a livello globale vengano presi degli accordi, vengano fatte delle norme o applicate quelle già presenti sulla privacy e la sicurezza online, che garantiscano il rispetto dei diritti umani in questa nuova società della disinformazione, ponendo delle sanzioni, per esempio. Non è certo semplice però scegliere chi debbano essere i membri di questi organi garanti e riunire i Paesi in questa difficile sfida. La domanda di questo momento storico, e soprattutto del futuro, è come far sì che la nostra vita online sia tutelata e non sfruttata, come salvare l'informazione ed educare a una società digitale consapevole. 

Helena Savoldelli, Responsabile del coordinamento Redazione

25 ottobre 2021

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