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Cop27: maquillage, bavaglio e un fondo per i paesi più vulnerabili

Attivisti arrestati prima del vertice. I giganti del petrolio frenano sullo stop ai combustibili fossili

Un fondo per rimediare ai danni e alle perdite nei paesi emergenti che hanno subito catastrofi climatiche. Nessuno stop ai combustibili fossili. Posti di blocco e abbondanza di sorveglianza digitale. Aspre polemiche per il mancato rispetto dei diritti umani. Potrebbe essere questo – in sintesi – il racconto della 27° Conferenza delle Parti (Cop27), tenutasi dal 6 al 18 novembre a Sharm el-Sheikh, in Egitto. Con 196 paesi partecipanti; e l’assenza di India, Russia e Cina, che insieme generano il 43% delle emissioni globali di anidride carbonica (CO2) nel pianeta, e sono tra le cinque nazioni più impattanti sul clima insieme a Stati Uniti e Brasile. La Conferenza - massimo organo decisionale del UNFCCC, la Convenzione delle NU sui cambiamenti climatici entrata in vigore nel 1994 - si è inserita in uno scenario geopolitico globale segnato da profonde tensioni. In un pianeta colpito negli ultimi anni da siccità, alluvioni e incendi di proporzioni mai viste prima. Che contribuiscono a far crescere fame, miseria, epidemie e migrazioni forzate. Non hanno destato stupore le parole del Segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, il quale alla vigilia della Conferenza ha dichiarato: “Siamo sulla buona strada per un caos climatico irreversibile”. Pochi giorni prima del varo di Cop27, l’UNEP (United Nations Environment Programme), ha pubblicato il report 2022 sul gap delle emissioni clima alteranti dal titolo: “The Closing Window – Climate crisis calls for rapid transformation of societies”. “La scienza ha stabilito che la finestra d’azione per il clima si sta chiudendo rapidamente”, ha affermato la direttrice esecutiva dell’UNEP, Inger Andersen. “La comunità internazionale è molto al di sotto degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, senza un percorso credibile per fermare il riscaldamento globale a 1,5°”. 


La discussione intorno al limite di 1,5 gradi

Al termine della Cop21 del 2015 a Parigi, infatti, fu definito un quadro globale di gestione dei cambiamenti climatici: oltre 190 paesi si impegnarono a mantenere entro 1,5 gradi Celsius il limite del riscaldamento globale per scongiurare danni irreversibili per la Terra. Un obiettivo raggiungibile se si riducono sensibilmente le emissioni di anidride carbonica di almeno il 45% entro il 2030. Cioè, se si imbocca la difficile strada della mitigazione climatica, oggetto di infinite discussioni tra i tavoli di Sharm el-Sheikh. Le emissioni, invece, continuano a crescere: se proseguiamo di questo passo entro il 2030 anziché scendere del 45% potrebbero aumentare del 10%. Con conseguente aumento delle temperature di ben 2,8 gradi entro fine secolo. Uno scenario catastrofico. Nel corso del vertice egiziano (il primo in Africa dalla Cop22 in Marocco nel 2016), la necessità di adottare provvedimenti robusti per rimanere entro il limite di 1,5° è stata ribadita da diversi attori. E gli annunci per diminuire le emissioni non sono mancati. L’Unione Europea ha fatto sapere che intende ridurre la produzione di CO2 del 57% al 2030 invece che del 55%. Il presidente americano Joe Biden, invece, ha parlato di un piano di riduzione delle emissioni di metano per tagliare dell'87% i livelli di questo potente gas serra negli USA, con un investimento di 20 miliardi di dollari. Però la Cop27 non ha fatto passi avanti per ridurre gradualmente le fonti fossili, in particolare fissando il picco delle emissioni al 2025; step osteggiati dai “vicini di casa” del Cairo, grandi produttori di oro nero, a cominciare dall’Arabia Saudita. “Abbiamo trattato alcuni sintomi ma non curato il paziente dalla febbre”, ha detto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen dopo l'approvazione del documento finale di Sharm el-Sheikh. "Sfortunatamente non è arrivato un impegno sulle emissioni o sul clima”.

Il limite 1,5° è stato molto citato durante il summit. Ma ha ancora senso l’obiettivo di mantenere l’aumento di temperatura sotto questo livello? Una quota crescente di studiosi ritiene che sia ormai poco realistico, e che sia arrivato il momento di accettare il fallimento. Senza rassegnarsi. Pensando a cosa fare per evitare ulteriori peggioramenti. Secondo alcune previsioni, l’aumento di 1,5° sarà superato nei prossimi anni Trenta, forse solo temporaneamente, con conseguenze che potrebbero essere gravi. In un recente articolo ‘The Economist’ ha scritto: “Sarebbe meglio ammettere che il limite di 1,5° è morto. La maggior parte degli addetti ai lavori sa che è vero. In pochi lo dicono in pubblico o alla stampa”. Intanto, mentre era in corso la Cop27 in Egitto, il 15 e 16 novembre a Bali in Indonesia si è tenuto il G20 (un gruppo di paesi che rappresenta il 75% delle emissioni globali). Nel documento finale è stato citato esplicitamente l’obiettivo 1,5 gradi. Elemento non scontato secondo alcuni osservatori, anche se in quella sede non sono stati presi impegni precisi al riguardo. I dati sul livello di “febbre” del Pianeta Blu vengono elaborati da Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), un gruppo internazionale (circa 200 scienziati) creato nel 1988 da NU e Organizzazione Meteorologica Mondiale per riferire sui cambiamenti climatici. Sotto la lente di ingrandimento dei ricercatori ci sono i gas serra. Oltre alla CO2, sono gas serra anche metano, ozono, protossido di azoto e gas fluorurati. L'anidride carbonica è uno dei più importanti: oltre a essere presente in maniera naturale nell’atmosfera, la CO2 viene rilasciata attraverso l’uso di combustibili fossili, la produzione di cemento e la deforestazione. La concentrazione atmosferica di CO2 dalla rivoluzione industriale è aumentata di circa il 40%.

Ambientalismo di facciata e attori non statali

I paesi che firmano gli accordi mantengono nel tempo gli impegni presi? E in quali casi si danno una semplice pennellata di verde? Nei giorni della Cop27 si è parlato molto di greenwashing, l’ambientalismo di facciata; sia all’interno del vertice, sia all’esterno, nelle analisi di esperti e decisori politici. Il punto è che tutti gli attori all’interno di ciascun paese che firma accordi per salvaguardare l’ambiente devono svolgere un ruolo attivo. Il primo importante documento presentato dall’ONU nel summit è una guida contro l’ambientalismo di facciata e i falsi impegni per la salute del Pianeta Blu dichiarati da multinazionali, mondo della finanza, città ed enti territoriali. Dieci raccomandazioni che tracciano una linea netta fra azioni concrete e pratiche di greenwashing (sempre più diffuse). Catherine McKenna, a capo del gruppo di esperti delle Nazioni Unite che hanno redatto il report ha affermato: “Il pianeta non può più permettersi ritardi, scuse o altro greenwashing. Dobbiamo definire con precisione che cosa sono gli impegni climatici e cosa devono fare gli attori non statali per mettersi sulla buona strada verso l’obiettivo delle zero emissioni”. Per McKenna, inoltre, non valgono scorciatoie come l’acquisto di carbon credits (i certificati negoziabili, equivalenti a una tonnellata di CO2 non emessa o assorbita) “a buon mercato” che spesso non sono opportunamente verificati. Bisogna invece impegnarsi a tagliare direttamente le proprie emissioni lungo tutta la catena del valore. Sul tema del mantenimento degli impegni, sono significativi i dati sulla deforestazione. Lo scorso anno, alla Cop26 di Glasgow, in Scozia, 140 paesi avevano promesso di eliminare la deforestazione dentro i propri confini entro il 2030; a Sharm el-Sheikh ne sono rimasti appena 25. Sono stati che ospitano poco più di un terzo delle foreste globali. Si sono sfilati anche Brasile e Congo, che sui loro territori hanno quasi metà delle foreste tropicali della Terra. Riguardo a chi inquina (e quanto), va tenuto presente un rilevante aspetto del confronto tra i ricercatori che si occupano di climate change. Alcuni evidenziano che non è facile determinare la quantità di CO2 di origine antropica, né tantomeno capire quali paesi non stanno rispettando gli impegni presi. L'anidride carbonica – sostengono - è presente in tutta l'atmosfera, un dato che rende complicato rintracciarne l'origine; anche i processi naturali, come la decomposizione della vegetazione e lo scioglimento del permafrost producono CO2, complicando così il quadro. Grazie al contributo dei satelliti, il metano (tra i vari gas serra) è più facile da monitorare poiché viene liberato in grandi quantità dalle perdite dei pozzi di petrolio.

Repressione delle libertà e voci della società civile

Critiche e polemiche hanno largamente accompagnato la Cop27. A cominciare dalle reazioni per la durissima repressione interna attuata dal governo del Cairo contro ogni forma di dissidenza e attivismo politico. “Assumere una responsabilità globale significa anche assumersi la responsabilità della tutela dei diritti umani. Ma la situazione su questo tema in Egitto non rende giustizia a tutto questo”, ha dichiarato Luise Amtsberg, commissaria per i diritti umani del governo tedesco, commentando l'apertura del summit. “Il fatto che le persone che vogliono esprimere liberamente le proprie opinioni e difendere questo diritto siano punite con lunghe pene detentive è inaccettabile”. Nei giorni precedenti all’apertura della Conferenza la polizia ha arrestato 67 attivisti, dopo aver intensificato i controlli per evitare ogni tipo di manifestazione in concomitanza con la Cop. Molte delegazioni e organizzazioni di attivisti – rappresentanti della società civile dei paesi coinvolti – sono stati tenuti lontano dal summit, costretti a file interminabili per ottenere un visto d’ingresso al loro arrivo in aeroporto. Talvolta, rimandati indietro senza alcuna spiegazione.

Circa 1.500 organizzazioni della società civile hanno firmato una petizione per chiedere di garantire la libertà d’espressione durante la Cop27 e liberare i prigionieri politici in Egitto. Mentre Greta Thunberg ha dichiarato: “Non andrò alla Conferenza su clima per molte ragioni. Lo spazio per la società civile quest’anno è molto limitato”. Più dura è stata l’attivista e scrittrice canadese Naomi Klein. In un articolo pubblicato il 18 ottobre su ‘The Guardian’, Klein scrive: “Questo vertice va ben oltre il greenwashing di un paese inquinante: è il greenwashing di uno Stato di polizia. Non è possibile separare l’azione climatica dalla tutela delle libertà politiche e civili”. C’è stato anche un “giallo” sull’applicazione proposta alle migliaia di delegati. Secondo il quotidiano americano ‘Politico’, diverse delegazioni sono state avvisate dai rispettivi governi di non scaricare nei propri smartphone l'app ufficiale del governo del Cairo nel timore che possa essere utilizzata per hackerare le loro e-mail private e i messaggi.

Loss and damage: un fondo per risarcire i paesi più vulnerabili

Uno dei temi centrali del vertice – fortemente voluto dalla presidenza egiziana, guidata dal ministro degli Esteri del Cairo Sameh Shoukry - riguardava i meccanismi di risarcimento dei paesi più colpiti dalle calamità climatiche. Il 10% della popolazione, che detiene più della metà della ricchezza globale, è responsabile del 50% delle emissioni; mentre il 50% della popolazione che detiene l’8% della ricchezza causa il 10% di emissioni di gas serra. L’Africa, per esempio, ha generato solo il 4% di tutte le emissioni prodotte dalle economie mondiali negli ultimi due secoli e mezzo; però quelli africani sono tra i paesi più vulnerabili al climate change, e meno attrezzati per affrontarlo. I paesi del Sud del mondo affermano da anni che i paesi ricchi e industrializzati hanno la responsabilità morale e finanziaria di pagare i danni fisici e le perdite economiche che stanno affrontando a causa del riscaldamento della Terra. La siccità che ha colpito il Corno d’Africa e il Madagascar, gli incendi nelle terre del Sudamerica, le grandi alluvioni di quest’anno in Uganda e in Pakistan sono solo alcuni esempi dello scenario che sta mutando. Secondo i dati Oxfam, dal 1991 a oggi, ogni anno in media 189 milioni di abitanti dei paesi poveri è colpita da eventi climatici estremi.

“Chiediamo l’istituzione di una struttura finanziaria per rimborsare perdite e danni”, ha ripetuto nei giorni del vertice Vanessa Nakate, l’attivista ugandese, una delle voci più influenti dei movimenti per il clima. Argomento sollevato, tra gli altri, anche dal nuovo capo delle Nazioni Unite per il clima, Simon Stiell, che ha dichiarato: “Le perdite e i danni devono essere affrontati in modo credibile, ed è giunto il momento di farlo”. Il capitolo loss and damage, è arrivato così – per la prima volta in un vertice Cop – sui tavoli egiziani. Dopo lunghe trattative, l’accordo per la creazione di un fondo che risarcisca i paesi vulnerabili per i danni e le perdite della crisi climatica è stato firmato. Rimangono ora numerosi nodi da sciogliere: chi sono i paesi che ne hanno diritto, chi sono i paesi che dovranno donare, come si trovano i soldi. Ci vorranno due anni di lavoro per tutti i dettagli, ma è una svolta importante rispetto a quanto realizzato fino ad ora su questo capitolo. Sono solo cinque i paesi (Giappone, Italia, Olanda, Norvegia e Svezia) che finora hanno aumentato i loro contributi per “loss and damage” tra il 2021 e il 2022. L’Italia ha creato un fondo per il clima da 840 milioni di euro all’anno per il periodo 2022-2026. Un passo nella direzione di sostenere le nazioni più vulnerabili al climate change si fece nel corso della Cop15 di Copenhagen nel 2009. I paesi più ricchi si erano impegnati a far arrivare a quelli più poveri 100 miliardi di dollari Usa l’anno per costruire infrastrutture resistenti agli eventi meteorologici estremi, difendere le coste dall’innalzamento del livello dei mari, ecc. Il livello di 100 miliardi di dollari non è mai stato raggiunto. E, secondo le stime fatte da Carbon Brief (sito web con sede nel Regno Unito, specializzato sui temi del cambiamento climatico - https://www.carbonbrief.org), i fondi per perdite e danni dovrebbero essere oggi intorno a 380 miliardi di dollari all’anno, mentre per la mitigazione e l’adattamento (costruzione di infrastrutture) entro il 2030 dovrebbero arrivare circa 2.000 miliardi di dollari.

Decarbonizzazione, energia e guerra in Ucraina

In una Sharm el-Sheikh dove era presente un numero record di lobbisti dei settori ‘oil & gas’ (secondo ‘The Guardian’ almeno 600, con una crescita del 25% rispetto alla Cop del 2021), due giornate sono state dedicate alla decarbonizzazione. Sullo sfondo di questo argomento pesavano le conseguenze della guerra in Ucraina: molti paesi hanno riorganizzato le proprie forniture di gas naturale, in seguito al calo di quello venduto dalla Russia. L’Italia, per esempio, ha aumentato i flussi di gas in arrivo dall’Algeria. Le emissioni derivanti dalla combustione del carbone sono aumentate poiché alcuni paesi si sono rivolti al combustibile fossile più inquinante, dopo il taglio operato da Mosca. In base al rapporto annuale sulla transizione energetica pubblicato in maggio dalla IEA (International Energy Agency, organizzazione internazionale intergovernativa fondata nel 1974), dal titolo “Net Zero by 2050: a Roadmap for the Global Energy Sector”, per raggiungere gli obiettivi di neutralità climatica si sarebbe dovuto mettere uno stop già nel 2021 all’apertura di nuovi giacimenti di gas, petrolio e carbone, ma solo portare a esaurimento quelli già avviati.

Come abbiamo visto, non c’è stato uno stop ai combustibili fossili, ma un annuncio rilevante è giunto da una coalizione di governi che rappresentano oltre la metà del PIL mondiale, che ha lanciato la “Breakthrough Agenda” (l'Agenda della svolta), un piano d'azione di 12 mesi per contribuire a rendere le tecnologie pulite più economiche e più accessibili ovunque. Sono state definite “azioni prioritarie” specifiche per ogni settore, per decarbonizzare l’energia, i trasporti e l’acciaio, aumentare la produzione di idrogeno a basse emissioni e accelerare il passaggio all’agricoltura sostenibile. Il tutto dovrebbe essere avviato entro la Cop28, che sarà ospitata il prossimo anno presso gli Emirati Arabi. Le Cop sono utili per mantenere sotto i riflettori internazionali l’emergenza climatica, ma i governi devono fare la loro parte soprattutto dopo. Intanto il neoeletto presidente del Brasile, Lula, ha candidato il suo paese a ospitare la Cop30 nel 2025 in Amazzonia, “nello Stato di Amazonas o nello Stato di Parà”, ha detto. Il 15 novembre, nella seconda settimana del summit, le NU hanno comunicato che la popolazione mondiale è arrivata a 8 miliardi di abitanti. Nel 1950 eravamo 2,5 miliardi. “Abbiamo la responsabilità di prenderci cura del nostro pianeta”, è scritto nel promemoria ONU.

Antonio Barbangelo, giornalista

28 novembre 2022

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