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L’impegno di 175 paesi Onu sulla plastica

Verso un trattato globale per ridurre la presenza di un materiale dannoso per il mare (e la nostra salute)

Un accordo internazionale legalmente vincolante, entro il 2024, per ridurre gli effetti nocivi dei polimeri plastici sul Pianeta e sulla salute umana. È ciò che prevede la risoluzione firmata a inizio marzo a Nairobi (Kenya) dai capi di stato e dai ministri dell'ambiente in rappresentanza di 175 paesi, nel corso dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l'ambiente (UNEA - 5). La risoluzione, basata su tre bozze iniziali presentate da vari paesi (Perù, Giappone e Ruanda in testa), istituisce un Comitato intergovernativo di negoziazione (INC), che inizierà i suoi lavori quest’anno e nei due anni successivi dovrà definire i termini del trattato. “L’obiettivo nel 2024 è intervenire sull’intero ciclo di vita della plastica”, ha spiegato Espen Barth Eide, presidente di UNEA-5 e ministro norvegese per il Clima e l’ambiente, “dall’estrazione dei combustibili fossili per produrla alla progettazione fino allo smaltimento. Sullo sfondo delle turbolenze geopolitiche (il conflitto tra Russia e Ucraina era iniziato da pochi giorni, Ndr), l’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente mostra il meglio della cooperazione multilaterale”. Mentre Inger Andersen, direttrice esecutiva del Programma dell’ONU per l’ambiente (UNEP, United Nations Environment Programme), agenzia delle Nazioni Unite che ha sede proprio a Nairobi, ha definito questo accordo “il più importante sull’ambiente da quello di Parigi”, riferendosi a Cop21, la conferenza sul clima svoltasi nella capitale francese nel 2015, in cui 195 paesi si erano impegnati a ridurre le emissioni inquinanti nel mondo al di sotto della soglia di 2° Celsius.

Quanto inquina la plastica

Quello avviato in Kenya è un percorso a più tappe, molto complesso, che dovrebbe ridurre drasticamente la quantità di uno dei materiali più inquinanti del Pianeta. Il PET (quello delle bottiglie per l’acqua minerale), il PVC, il polipropilene, e altri polimeri plastici sono dannosi ancora prima di entrare in commercio perché il 99% di questi materiali vengono prodotti da petrolio e gas fossile e inquinano in ogni fase del ciclo di vita: dalla produzione all’incenerimento. Secondo l’UNEP, la produzione di plastica è aumentata da 2 milioni di tonnellate nel 1950 a 348 milioni di tonnellate nel 2018 (altre fonti dicono che la quantità è superiore), e si prevede che raddoppierà entro il 2040. Montagne di oggetti che finiscono per la gran parte nei corsi d’acqua e negli oceani: si calcola che l’impatto è equivalente a quello di un camion di rifiuti che ogni minuto riversi l'intero carico nei mari. Degli 11 milioni di tonnellate di rifiuti plastici generati ogni anno, fino a 2,7 milioni di tonnellate provengono dai fiumi. L’inquinamento degli oceani ha tante fonti diverse, tra cui gli scarichi agricoli e industriali e i sedimenti prodotti dalla deforestazione. La plastica, però, è la frazione più grande, più dannosa e più persistente del pattume che si riversa nel mare: rappresenta almeno l'85% dei rifiuti marini totali. È in grado di modificare le comunità pelagiche (più vicine alla costa) e bentoniche (in mare aperto, nei fondali oceanici). I ricercatori hanno dimostrato come tutta questa roba possa essere vettore di importanti patologie attraverso gli oceani, colpendo le comunità marine anche a migliaia di chilometri di distanza.

La salute umana

Dagli ambienti marini alla salute umana. L'esposizione alla plastica può danneggiare l’equilibrio nel nostro organismo. Sappiamo ormai che il pesce che mangiamo contiene microplastiche, ossia minuscoli componenti non biodegradabili rinvenuti in oltre 170 tipi di organismi marini, pressoché a tutte le latitudini. Nei materiali plastici è presente una lunga lista di sostanze tutt’altro che utili alla nostra salute: metalli pesanti (cadmio e piombo), ftalati, ritardanti di fiamma, PFAS (prodotti nocivi che vengono usati per impermeabilizzare indumenti e pellame). In un documento del dicembre 2020 della Endocrine Society (www.endocrine.org), società scientifica che riunisce decine di esperti di tutto il mondo, realizzato insieme all’IPEN (International Pollutants Elimination Network – https://ipen.org), si legge che alcuni composti plastici contengono interferenti endocrini (EDC, Endocrine disrupting chemicals), che possono alterare l’equilibrio ormonale, provocando danni spesso non evidenziabili nel breve termine, e alterazioni allo sviluppo neurologico del feto. L’OMS ha pubblicato rapporti sui rischi da esposizione agli EDC dal 2014. È praticamente impossibile non incontrare la plastica nella vita di tutti i giorni: si trova nel packaging, nei giocattoli, nei cosmetici, nelle auto, nei materiali per la casa.

Ciascuno può avere un atteggiamento responsabile

Se è vero che difficilmente ci possiamo sottrarre al contatto con questi composti nella vita quotidiana possiamo, per esempio, evitare di bruciare plastica all’aria aperta, perché la combustione genera sostanze tossiche (diossina). Oppure, cercare di sostituire i contenitori di plastica per finger food nei buffet, posate, piatti, ecc. con oggetti biodegradabili e compostabili. Forse ciascuno di noi potrebbe stilare una lista di elementi di uso quotidiano “usa e getta” inutili o sostituibili. L’utilizzo di materiale biodegradabile o bioplastica (a base di composti organici, come amido di mais, tapioca, patate, ecc.) è un’opzione che sta incontrando il favore dei consumatori. Nel mondo dell’industria e della ricerca c’è ottimismo. Anche se la posizione degli studiosi non è univoca. Secondo alcuni, infatti, nonostante le buone intenzioni, le bioplastiche non sembrano essere la soluzione migliore a causa delle particolari condizioni necessarie alla loro degradazione: servono infatti almeno 50° Celsius (ma la temperatura degli oceani è, ovviamente, molto più bassa). Inoltre, non essendo materiali galleggianti, non vengono esposti ai raggi solari che ne favorirebbero il dissolvimento. 

La direttiva europea Single Use Plastic

Gli allarmi sull’impatto dei composti plastici nell’organismo umano sono stati in parte raccolti dalla politica. Tra gli effetti più importanti, la direttiva dell’Unione Europea SUP (Single Use Plastic) sulle plastiche monouso, adottata nel 2019, recepita in Italia con il Decreto legislativo 196 del novembre 2021, entrato in vigore il 14 gennaio scorso. Ora non si potranno più usare oggetti in plastica come piatti, posate, agitatori per bevande, aste per palloncini, bastoncini cotonati e altri prodotti usa e getta. Poche settimane prima della risoluzione siglata a Nairobi, anche Greenpeace - come aveva già fatto in precedenza il WWF - ha lanciato una petizione per chiedere alle Nazioni Unite un trattato globale sulla plastica per azzerare l’inquinamento, ma anche gli impatti climatici legati ai gas serra che vengono emessi nella produzione delle materie plastiche. La ONG ricorda che, se dispersa in natura, la plastica si degrada in tempi molto lunghi: 20 anni per un sacchetto, 400 anni per un flacone per il detersivo, 500 per una bottiglia.

Nairobi: andare oltre la fase del riciclo

L’accordo in Kenya di inizio marzo sembra accogliere le istanze presentate da WWF, Greenpeace, Ocean Conservancy (fondata nel 1972, con sede a Washington DC) e altre organizzazioni non governative per intervenire in tutto il ciclo di vita della plastica e andare, quindi, oltre il mero problema del riciclo (processo complicato e costoso). Studiosi e decisori politici dibattono da tempo, chiedendosi se il riciclo possa essere considerato davvero utile o se invece sia dannoso, tenendo conto di tutti i costi ambientali. “Nonostante il successo delle campagne per la raccolta differenziata in gran parte dei paesi più ricchi”, è scritto in un rapporto OCSE del settembre 2018, “il riciclo della plastica continua a essere un’attività economicamente marginale”. Lo studio dell’organizzazione con sede a Parigi evidenzia che, a livello globale, la quantità di plastica riciclata corrisponde al 14-18% del totale; il resto finisce in inceneritori e termovalorizzatori (24%) oppure è lasciato nelle discariche o disperso nell’ambiente (58-62%). Nell’Unione Europea le cose vanno meglio, è riciclato circa il 20% dei materiali plastici; mentre negli Stati Uniti poco più del 10%. I risultati sul riciclo della plastica sono deboli soprattutto se messi a confronto con altri materiali: sia i principali metalli industriali (ferro, alluminio, rame) sia la carta hanno tassi di riciclo che superano il 50%. 

 I nodi del metodo meccanico

In Italia i livelli di recupero dei materiali plastici sono elevati. Nel 2020 si è raccolto in modo differenziato il 58,3% dei rifiuti urbani a livello nazionale (in alcune regioni come Emilia-Romagna e Lombardia oltre il 70%). Ottimi dati riguardo al recupero. Va bene. Ma quanto viene effettivamente riciclato? Il tasso di riciclo e riutilizzo è basso. Secondo uno studio dell’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, soltanto il 30% della plastica raccolta in Italia è riciclata; un altro 40% viene bruciato in termovalorizzatori o inceneritori, e il resto finisce in discarica. Si ricicla così poca plastica anche perché il metodo più diffuso, quello meccanico, è complicato, oneroso e non funziona bene per tutti i tipi di composti polimerici. Con questo metodo, in pratica, il materiale viene selezionato, lavato e poi sminuzzato da una macchina in scaglie finissime, trasformate successivamente in granuli (riutilizzati e trasformati a loro volta in nuovi oggetti di plastica).

La Cina ha cambiato le rotte

La scarsa convenienza economica del riciclare plastica è diventata più evidente a partire dal 2018. Prima di allora il 70% circa dei rifiuti plastici del mondo - in gran parte prodotto in Europa e America del Nord - era raccolto, imbarcato su navi cargo e spedito in Cina: l’intero processo era più conveniente che riciclare la plastica sul posto. Dal gennaio 2018, però, Pechino ha approvato regole più severe, ha vietato l’importazione di 24 tipi di materiali e ha imposto che i rifiuti fossero contaminati al massimo per lo 0,5%. In questo modo, l’invio in Cina di rifiuti di plastica si è praticamente interrotto e le filiere del riciclo in Europa e Stati Uniti sono andate in crisi.

Oggi molti attori stanno operando per ridurre la plastica nel Pianeta. In alcuni casi la tutela della Terra si accompagna con il business, come accade per le imprese coinvolte in progetti per rimuovere il pattume di polimeri che galleggia sugli oceani (attualmente sarebbero sei le “isole” di plastica nel mondo, la più grande è la Great Pacific Garbage Pach, vasta come due volte il Texas, creatasi grazie alle correnti dell’Oceano Pacifico). Uno degli esempi più interessanti è offerto da The Ocean Cleanup, una fondazione il cui scopo è sviluppare tecnologie per estrarre inquinanti plastici dal mare; l’organizzazione è stata fondata da Boyan Slat, inventore e imprenditore olandese. Slat ha 27 anni. Come altri protagonisti della tutela ambientale della sua generazione, ci consente – nonostante le pesanti tensioni geopolitiche del momento - di guardare al futuro con un po’ di ottimismo.

Antonio Barbangelo, giornalista

8 aprile 2022

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