La memoria a livello educativo è stata una grande scuola perché ha permesso di comprendere come i genocidi non sono stati una catastrofe extrastorica, ma sono avvenuti per la responsabilità degli esseri umani. È accaduto in un campo di battaglia dove c’erano carnefici, complici, spettatori indifferenti, resistenti, Giusti e tutte le sfumature intermedie che, come Primo Levi sapeva e ci ha descritto, sono numerosissime.
Nelle scuole i giovani hanno potuto così apprendere che di fronte al nazismo e ad ogni forma di male estremo si poteva scegliere, poiché nulla era scontato e determinato a priori.
La memoria della Shoah (un genocidio senza precedenti nella storia, come scrive lo storico Yehuda Bauer[1]), ha avuto un ruolo fondamentale per fare conoscere la singolarità di un genocidio che si proponeva di eliminare gli ebrei non solo in un territorio, ma in ogni luogo della terra con una ideologia di pura fantasia che considerava gli ebrei gli elementi corrosivi di tutta l’umanità; ha permesso di scuotere le coscienze mostrando le responsabilità non solo dei nazisti, ma dei complici e degli indifferenti in tutta Europa, nonostante in grave ritardo in Russia e nei Paesi dell’Est e dell’Europa centrale attraversati dal totalitarismo comunista e oggi dai nuovi nazionalismi; ha aperto per la prima volta in Occidente una riflessione importante sulle vecchie e nuove forme dall’antisemitismo e sullo stesso diritto all’esistenza di Israele; ha mostrato come gli ebrei, a differenza dei resistenti e dei partigiani, come argomentava in Francia Simone Veil, erano sterminati non a seguito delle loro azioni, ma per la sola colpa di essere nati; ha soprattutto per la prima volta nella storia posto la questione della prevenzione dei genocidi con la Convenzione di Raphael Lemkin alle Nazioni Unite del 1948 come un tema giuridico che dovrebbe impegnare tutta l’umanità.
La memoria della Shoah ha permesso ad altri popoli, come gli armeni, i ruandesi, i cambogiani, gli yazidi, i popoli vittime del gulag nel sistema totalitario comunista di rivendicare sulla scena pubblica il diritto al riconoscimento delle loro sofferenze e il loro sacrosanto diritto di giustizia di fronte all’opinione pubblica internazionale.
Oggi dobbiamo invece constatare come il percorso della memoria stia mostrando alcune criticità che, se non affrontate alla radice, rischiano di limitarne la funzione pedagogica e di mostrare una profonda inadeguatezza nei confronti delle nuove sfide del nostro tempo.
In primo luogo sembra prevalere una lettura identitaria e rituale della Shoah che, come osservava Marek Edelman, rischia di fare venire meno il suo carattere di insegnamento universale. Quando il vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia si recò a Sarajevo per mostrare la sua solidarietà ai bosniaci lanciò un monito di grande attualità. Quanto era accaduto agli ebrei non solo non si doveva più ripetere per gli ebrei, ma doveva diventare un principio morale nei confronti di qualsiasi popolo minacciato.
In secondo luogo, spesso a livello internazionale si manifesta una concorrenza tra le memorie particolari (Shoah, genocidio armeno, Gulag) che non solo interpreta i genocidi e i totalitarismi come se fossero mondi a parte e dunque non ci fosse invece un elemento comune, anche nella loro specificità, ma che qualche volta spinge alcuni a creare delle classifiche inutili su un dolore più grande.
Le recenti affermazioni di Yehuda Bauer sono di grande spessore. Lo storico israeliano afferma che la Shoah è il genocidio paradigmatico del Novecento, un male estremo che ci permette di cogliere il punto più terribile dove può arrivare la distruzione dell’umanità sul nostro pianeta. Per questo considera che lo studio e la memoria della Shoah siano una lente di ingrandimento che ci permette di cogliere la genesi del male in ogni situazione, come le differenze tra la Shoah e gli altri genocidi come del resto le differenze tra ogni genocidio che presentano sempre delle caratteristiche diverse che devono essere riconosciute. Ma questo metodo non deve mai mai farci dimenticare che: “Non c’è differenza tra la sofferenza degli ebrei, dei tutsi, dei russi e dei cinesi, dei congolesi o di qualsiasi popolo che si sia trovato in un omicidio di massa genocidario. Non esiste una gradazione nella sofferenza, non esiste una tortura migliore di un’altra tortura, un omicidio migliore di un altro omicidio di bambini, uno stupro di massa migliore di un altro e non esiste dunque alcun genocidio migliore di un altro. L’idea di competizione non è solo ripugnante, ma totalmente illogica.” Per questo motivo è importante abituare gli educatori, gli storici, i narratori delle sofferenze particolari al metodo della comparazione, non solo per cogliere comunanze e diversità in ogni contesto, ma per creare una coscienza globale e universale nei confronti di tutti i genocidi.
L’esercizio della comparazione tra i genocidi crea le premesse dell’empatia e dell’apertura nei confronti di un tragico destino comune. Il filosofo Jan Patocka a Praga esortava a creare una “solidarietà tra gli scossi” come impegno morale di tutti gli offesi verso una nuova umanità.
Ma l’aporia più grande è il senso e l’obiettivo di quel mai più che doveva fare della memoria della Shoah il punto di svolta per la prevenzione di tutti i genocidi. Quel mai più ripetuto in modo rituale e retorico è diventato una parola vuota senza alcun progetto per il futuro. Per alcuni il mai più è l’idea della difesa dell’identità ebraica e dello Stato d’Israele. Per altri il ricordo del genocidio armeno, per altri è l’impegno nei confronti di qualsiasi male generico. Non si capisce allora a quale fine dovrebbe essere indirizzata la memoria. È come se si creasse un vuoto invalicabile tra un passato tragico e il nostro agire nel mondo. Nessuno allora si chiede in modo autocritico cosa è andato storto in questi anni e quanto noi contemporanei non siamo poi riusciti a fare. Possono dunque accadere le cose peggiori nel mondo, come scrive Valentina Pisanty, e ci consoliamo con il rito della memoria dove ci sentiamo tutti giusti e buoni ex post.
Dobbiamo allora porci delle domande sul senso della memoria nel nostro tempo non tanto per ricercare delle soluzioni pretenziose e irrealizzabili, ma per delineare un percorso che sia in sintonia con le dinamiche di un mondo che è in costante evoluzione.
Fare memoria, come suggeriva Tzvetan Todorov, non significa ricordare tutto in modo indistinto, ma operare sempre una scelta soggettiva in funzione della nostra responsabilità di fronte alle problematiche poste dagli eventi di cui noi siamo testimoni. Per questo è indispensabile il ruolo degli storici e degli intellettuali che sono chiamati a svolgere una funzione di indirizzo morale e a raccordare sulla base dei valori universali memorie particolari che sono spesso conflittuali.
Di volta in volta, in un cammino senza fine, è necessario porre alla società delle priorità su cui riflettere. Bisogna avere il coraggio di delineare dei compiti realisti per “raddrizzare” il corso degli avvenimenti. Come scriveva Shakespeare nell’Amleto ci incombe sempre il peso di essere responsabili del tempo in cui ci è capitato di nascere. È ciò vale per ogni generazione che si deve porre sempre nuove domande.
È importante che nelle giornate della memoria ci sia una costante informazione non solo sulla Shoah e sui genocidi del passato, ma su tutte le atrocità di massa del nostro tempo come ad esempio la persecuzione genocidaria nei confronti dei rohingya in Birmania, degli yazidi in Iraq, degli uiguri in Cina, i crimini dell’ISIS, gli stupri di massa in Congo, fino agli effetti devastanti delle pandemie, dei cambiamenti climatici, che possono provocare migrazioni, conflitti e tragedie la cui portata va oltre alla nostra immaginazione.
Dobbiamo abituare i giovani attraverso la riflessione sulla Shoah a provare empatia e sensibilità nei confronti delle vittime del nostro tempo. Si è veramente appresa la lezione di un genocidio quando si sviluppa una sensibilità nei confronti di ogni forma di male estremo che attraversa la nostra epoca. È quanto auspicava lo scrittore David Rousset, scampato a Buchenwald, il quale si sentiva come una sentinella morale che doveva reagire di fronte ad ogni nuovo campo di concentramento che si riproponeva nella storia. Sentirsi oggi come “figli della Shoah” e quindi custodi della memoria di un genocidio significa riscattare le vittime del passato con una solidarietà attiva nei confronti dei nuovi perseguitati. “Scegliete sempre la vita” (U’vacharta b’chaim) è un verso del Deuteronomio che si applica alla perfezione al compito della memoria. La malinconia, come effetto di una chiusura nel proprio dolore, porta alla deresponsabilizzazione e alla paralisi.
È importante creare una consapevolezza a livello di pubblica opinione sul ruolo degli strumenti internazionali in grado di intervenire a vari livelli per la prevenzione dei genocidi e la repressione degli Stati e dei gruppi di potere che fomentano atrocità di massa.
Come possiamo misurare se la promessa “del mai più” e del “non dimenticare” ha degli effetti concreti e lascia un segno tangibile nelle relazioni internazionali? Soltanto verificando l’applicazione reale della Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione dei genocidi, la messa in opera di misure di protezione per le popolazioni e i gruppi etnici minacciati, il funzionamento dei tribunali internazionali contro i responsabili dei crimini di massa, la vigilanza delle istituzioni internazionali, dell'Unione Europea e degli Stati democratici sul rispetto dei diritti umani in ogni parte del mondo.
L’impegno sulla memoria anche nel nostro Paese non si è mai saldato ad una mobilitazione sociale e politica a sostegno di queste istituzioni. Se non si crea una pressione costante di una società civile internazionale, il funzionamento di questi organi non solo non verrà rinnovato, ma sarà costantemente bloccato dai veti e dagli interessi delle grandi potenze.
L’esercizio della memoria a livello educativo ha come fine quello di incentivare comportamenti virtuosi da parte dei giovani e dei singoli cittadini che costantemente devono essere chiamati ad arginare i semi premonitori del Male che si presentano nelle società democratiche.
È importante fare comprendere, come è accaduto nella repubblica di Weimar, che una regressione dei costumi che può portare alle cose peggiori, non si materializza da un giorno all’altro, ma avanza sempre a piccoli passi.
Ecco perché è necessario, come osservava Agnes Heller in uno degli ultimi suoi scritti prima della sua scomparsa, porre argine all’hate speech sui social, alla cultura del disprezzo e della contrapposizione nel dibattito politico, all’uso di parole malvagie, razziste e antisemite sulla scena pubblica, allo svuotamento degli istituti democratici da parte dei fautori della democrazia illiberale.
Educare al gusto e al piacere del dialogo, al rispetto dell’altro, all’apertura nei confronti di genti di religioni e culture diverse, alla pratica dell’amicizia nella Polis è indispensabile per la salvaguardia della democrazia.
Come ci ricorda Yehuda Bauer la preservazione delle democrazie è nella maggior parte dei casi l’antidoto fondamentale per la prevenzione dei genocidi.
È sempre l’alleanza internazionale tra le democrazie che permette la resistenza ad un male estremo.
1. “La conclusione da quanto detto è che l’Olocausto, cioè il genocidio degli ebrei, non era unico.
Se dicessi che è stato unico, cioè che ne è accaduto solo uno nella storia, potremmo dimenticarlo, perché non avrebbe più importanza per i vivi - è successo una volta e non verrà ripetuto. Anche “unicità” implica che sia intervenuto qualche fattore extrastorico, qualche Dio o qualche Satana. Ma il genocidio degli ebrei fu il prodotto dell’azione umana, e quelle azioni furono prodotte da motivazioni umane. Nessun Dio o Satana era coinvolto. Pertanto, l’Olocausto è stato senza precedenti, non unico.
Il che significa che era, o può essere, un precedente e che, di conseguenza, dovremmo fare tutto ciò che è in nostro potere affinché non diventi un precedente, ma sia un monito. Questo è il collegamento principale tra affrontare l’Olocausto e affrontare il genocidio.”
Yehuda Bauer, The Jews a contrary people, Münster, LIT Verlag, 2014, p. 175
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