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Il perdono responsabile

conversazione tra Gabriele Nissim e Gherardo Colombo

Gherardo Colombo

Gherardo Colombo (intellettualephoto: © BASSON CANNARSA)

“Ci siamo posti il problema di cosa possa fare un individuo, un cittadino, di fronte ai problemi del nostro tempo”. Così Gabriele Nissim presenta la Carta delle responsabilità 2017 a Gherardo Colombo, ex magistrato protagonista di inchieste come quella sull’omicidio Ambrosoli, Mani Pulite, la Loggia P2, IMI-SIR, Lodo Mondadori e SME.

Un impegno etico per la memoria del Bene e l’educazione alla responsabilità, spiega Nissim, per delineare orizzonti. Di fronte alle sfide dell’oggi, assistiamo a un effetto generale di spaesamento delle persone, che non sanno più in che direzione muoversi e tendono a chiudersi nell’individualità. “C’è un filo conduttore che attraversa il mondo in cui viviamo - prosegue il presidente di Gariwo - ed è la cultura del nemico, della contrapposizione. Questo percorre le religioni, il dibattito politico, le relazioni interpersonali”.
Viene quindi messa in discussione l’idea della condivisione, del rapporto con l’altro. E ciò accade tanto nello scenario internazionale quanto a livello del singolo, come nei social network.
Le persone si sentono depositarie della verità assoluta, e chiunque abbia un’opinione contraria viene percepito come nemico.
Secondo Gabriele Nissim, “Ci stiamo abituando a una nuova forma di banalità del male, a cui dobbiamo rispondere stemperando gli odi e anticipando il bene. Faccio spesso riferimento a Etty Hillesum e al suo insegnamento di non combattere l’odio con nuovo odio; penso inoltre, come mi ha insegnato Nelson Mandela, che non esista il privilegio dell'innocenza da parte delle vittime. Nemmeno da vittime, cioè, si può scegliere la strada dell’odio.”

Un punto di partenza che trova il pieno consenso di Gherardo Colombo, da anni impegnato nella promozione del perdono responsabile e della giustizia riparativa. “Sono convinto che la pena non solo non serve, ma è controproducente: pensare di recuperare le persone facendole soffrire è un controsenso. Non credo ad esempio che si possa rispondere alla tortura attraverso uno strumento, il carcere, che in Italia è stato considerato disumano e degradante dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Come rispondere, quindi? Usando il carcere come ultima ratio, esclusivamente nei confronti di chi sia pericoloso (e solo fintanto che sia pericoloso), e facendo in modo che sia rispettoso di tutti i diritti umani che non confliggono con la tutela della collettività. Che vuol dire però fare un salto rispetto alla convinzione, profonda e diffusa, secondo la quale è giusto far male a chi ha fatto male.
L’alternativa? Il perdono responsabile, le sanzioni positive; strumenti che, invece di avere una finalità escludente, costituiscono un nuovo tentativo di inclusione e recupero dell’individuo.

Questo è vero tanto per l’Italia quanto per i tribunali internazionali - sostiene Colombo - che hanno il compito di mettere le persone in quelle prigioni che sono spesso accusate di essere dei luoghi di tortura. È questo un aspetto che sembra contraddittorio con la linea generale della Carta delle responsabilità, perché “mettere in prigione è in contrasto con l’idea del coltivare le relazioni”.
Colombo prosegue il ragionamento spiegando che: “Se continuiamo a pensare di fermare il male restituendolo (in questo consiste la pena) non smetteremo mai di legittimarlo. E da qualunque parte si guardi il loro operato, i tribunali, una volta accertata la colpa, infliggono pene.
La pena detentiva, accompagnata dall’esclusione dei diritti fondamentali di maggior rilievo (spazio vitale, igiene, salute, istruzione, lavoro, affettività), è un’imposizione di sofferenza. Credo a questo proposito che sarebbe necessario uno strumento che accerti l’attualità della pericolosità per la collettività ed elabori percorsi di mediazione e riconciliazione”.

Un esempio illuminante di questo percorso arriva dal Sudafrica, dove dopo l’apartheid è stato possibile creare anche una Commissione per la riconciliazione.
Tuttavia è molto complicato superare la tendenza a criminalizzare l’altro. “Spesso si pensa che sei un traditore se non desideri la resa dei conti. Questo accade, ad esempio, nella promozione del dialogo tra ebrei e musulmani. Ritengo invece che non serva pietrificare l’altro nella nozione di nemico, per quanto i suoi comportamenti siano origine di sofferenza”.
In questo senso, sostiene Colombo, sono fondamentali esperienze come quella di Robi Damelin, una donna di origini sudafricane trasferitasi in Israele, il cui figlio è stato ucciso mentre serviva nell’esercito. Dopo la sua perdita Robi ha cercato il dialogo con l’assassino del figlio e ha viaggiato per il Sudafrica per saperne di più sugli sforzi della Commissione per la riconciliazione, con lo scopo di riproporne gli intenti anche nel suo nuovo Paese.

Come spiegare, quindi, che il problema è il recupero delle persone, e non la loro colpevolizzazione? “Siamo immersi in una cultura secondo cui chi ha commesso dei reati è marchiato a vita - prosegue Nissim -. Io penso che sarebbe invece importante mostrare come una persona si è trasformata. Non ha quindi valore solo la persona virtuosa che ha fatto delle cose giuste, ma anche chi, nonostante fosse un criminale, ha dimostrato di essere profondamente cambiato. E non sto parlando dei semplici pentiti, ma di una trasformazione radicale”.

Questo percorso ha avuto successo, in Italia, con l’esperienza di giustizia riparativa degli ex brigatisti. Il libro dellincontro, edito per ilSaggiatore, ne è una forte testimonianza. “Si tratta di un percorso di sette anni - spiega Colombo – cui hanno partecipato una cinquantina tra vittime e responsabili della lotta armata degli anni Settanta. Di fronte a una ferita mai sanata dai processi, queste persone hanno iniziato a incontrarsi, con profondità sempre maggiore, aiutati da mediatori che li accompagnassero nel percorso, per cercare una via alla ricomposizione di quella frattura”.

Per raggiungere un simile risultato, tuttavia, è necessario abituare gli individui a mettersi nei panni dell’altro, a sentire il richiamo dellaltro. E in questo, secondo Colombo, risiede il senso della laicità.
In un tempo in cui lo spazio del dibattito pubblico è occupato dalle religioni, sembra quasi che non esistano riferimenti culturali alternativi e ideali sostitutivi alla religione. “In questo senso, credo che le religioni diventino pericolose, perché si trasformano in luogo di scontro”, sostiene Nissim. 
È quindi indispensabile la proposta di una morale laica, che veda anche nell’esercizio della virtù un modo per arricchire l’individuo stesso, per renderlo più felice. Ma questo è molto difficile, se pensiamo che per la nostra cultura fare il bene viene concepito come un sacrificio, una privazione da accettare perché è giusto. Occorre quindi riscoprire il gusto della virtù, soprattutto di fronte ai problemi del nostro tempo.

Anche questo significa essere responsabili, non solo nel proprio lavoro o nel richiamo dell’altro. Si è cioè responsabili nel proprio tempo quando nella quotidianità - non nelle situazioni di emergenza - si vivono i problemi dell’oggi, senza sfuggire. Ma come si educa alla responsabilità?
“Non esiste un solo modo - sostiene Colombo -, ma secondo la mia esperienza ciò che è fondamentale è un modello dialogante, non assertivo. Occorre parlare con i giovani e portarli a riflettere sulla loro quotidianità, su argomenti che loro conoscono bene. Per ragionare sulle regole, spesso parto da esempi come la preparazione di una torta, o lo svolgimento di un videogioco. Insieme arriviamo a capire che la regola, inizialmente vista come una imposizione (perché in effetti la regola, nell’approccio tradizionale, è costruita e presentata come un’imposizione), al contrario è un’indicazione, qualcosa che ti dice come si fa, uno strumento utile per raggiungere i propri scopi”.

Se questo discorso è facilmente applicabile a un determinato tipo di norme, è certamente più complesso parlare delle regole che riguardano le relazioni tra persone. Per organizzare le società, riflette Colombo, “siamo abituati da migliaia di anni a basarci sulla discriminazione. L’umanità si è sempre organizzata discriminando tra amico e nemico, tra cittadino e straniero, tra femmina e maschio. Il senso di appartenenza ha anche avuto e purtroppo continua ad avere un fortissimo senso di esclusione dell’altro”.
E in questa riflessione l’ex magistrato riprende alcuni passaggi della Carta delle responsabilità che analizzano la crisi dell’Europa e il ruolo della comunità europea di fronte ai problemi del nostro tempo. Il richiamo allEuropa non deve quindi essere sinonimo di eurocentrismo, perché l’Unione è sì un punto di riferimento importante, ma lo è per l’Occidente e non sempre per altre parti del mondo. Di fronte alla rinascita dei nazionalismi e al rischio della disgregazione dell’Europa, tale richiamo deve servire a rinforzare, e non indebolire, il tema della coesione. 
“Se non riusciamo a riconoscerci reciprocamente qui - conclude Gherardo Colombo -, dove condividiamo tanti valori, dalla storia alla religione, diventa poi impossibile riconoscere la comune umanità di un altro al di fuori di questo contesto. E se non ci riconosciamo non facciamo altro che discriminarci reciprocamente”.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

18 luglio 2017

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