Lo sport, come ogni attività umana, può contribuire al rafforzamento del nostro carattere, all’amicizia e al rispetto dell’altro.
L’agonismo che ci stimola a migliorare il nostro fisico e a rafforzare la nostra personalità presuppone sempre una relazione tra esseri umani.
Persino in uno sport solitario immaginiamo di gareggiare con altri, che così ci spronano a diventare migliori.
Per questa componente relazionale, fin dai tempi dell’antica Grecia, la competizione sportiva è un indice, nel bene e nel male, del livello di civiltà del genere umano.
Può essere usato dalle dittature per veicolare il messaggio razzista della superiorità di una razza o di una nazione e diventare uno strumento di propaganda ideologica per regimi totalitari; oppure può diventare l’espressione della ricchezza morale di una società democratica che esalta l’eguaglianza nella contesa sportiva e il cui fine è sempre l’esaltazione della prestazione individuale o collettiva in uno spirito di amicizia.
Come aveva intuito il poeta greco Esiodo, esiste sempre la possibilità di una contesa buona, che rafforza il carattere e la volontà dell’individuo ed educa al rispetto dell’avversario, e di una contesa cattiva, che esalta invece l’ego della superiorità e mira all’annientamento dell’altro.
Negli anni recenti l’esperienza più significativa di un agonismo buono ci viene dal Sudafrica, dove, dopo gli anni dell’apartheid, il presidente Nelson Mandela volle che la squadra nazionale di rugby diventasse il veicolo di una riconciliazione tra i bianchi ed i neri, simbolo dell’integrazione possibile nel suo Paese.
Invece la partita di calcio del 13 maggio 1990 allo stadio Maksimir tra la Dinamo Zagabria e la Stella Rossa di Belgrado scatenò una guerriglia sanguinosa tra le rispettive tifoserie che anticipò la guerra civile nella ex Jugoslavia. In quello stadio non si tifava per lo sport, ma si vedeva nella contesa sportiva la lotta contro un nemico che doveva essere annientato. Quella partita, strumentalizzata dai nazionalisti, preparò così all’imminente guerra. Si odiavano i calciatori avversari per sostituire il pallone con le armi.
Oggi in un tempo pericoloso dove riemergono l’odio e i nazionalismi, dove in nome di una religione si commettono massacri, dove negli stadi si insultano gli atleti neri, dove ad un atleta arabo si impedisce di gareggiare e stringere la mano ad un israeliano, è necessario rilanciare i valori della contesa buona e positiva nell’agonismo sportivo.
Come la storia ha insegnato, qualche volta lo sport può salvare il mondo, perché i comportamenti degli atleti, dei tifosi e anche dei giornalisti sportivi possono influenzare positivamente la vita democratica nelle nostre società.
Esercitare lo sport con uno spirito olimpico aiuta la pace, la convivenza e semina il bene tra gli esseri umani.
Ogni atleta dovrebbe essere consapevole che nella competizione è sempre la presenza dell'altro che lo spinge a migliorare, e per questo motivo dovrebbe agire con correttezza nei suoi confronti e rispettare la sua dignità. L’agonismo non divide gli uomini in una brutale lotta di annientamento, ma il confronto li unisce nel medesimo percorso nell’agorà sportiva. Grazie alla sua popolarità, ogni atleta diventa un esempio per la società; per questo, come auspicavano i filosofi greci, non deve farsi prendere dall’hybris, ricercare un potere sugli altri e usare mezzi illeciti. Un atleta a qualsiasi livello è veramente grande quando riconosce il suo limite ed è sempre disponibile a riconoscere il valore dei suoi avversari. Secondo i greci, lo sport insegna che non ci sarà mai il migliore in assoluto, perché nel ciclo continuo della vita ci saranno sempre atleti migliori che seguiranno. È questa la bellezza dell’agonismo sportivo, dove negli stadi, nelle piscine, nei campi di atletica gli sportivi competono tra di loro allo stesso modo in cui gli uomini responsabili si confrontano tra di loro nelle istituzioni. Il dialogo e l’agonismo hanno un punto in comune perché la ricerca continua della verità, come quella della prestazione sportiva, non si esaurisce mai e unisce gli uomini in un destino comune. Non è un caso che la parola agorà (il luogo dell’assemblea e della democrazia per i cittadini) e agon (agonismo) abbiano in greco la stessa radice.
A loro volta gli spettatori dovrebbero venire educati a tifare in modo positivo e mai contro gli avversari della propria squadra, perché l’attività sportiva è una relazione tra esseri umani dove non dovrebbero mai esistere dei nemici e dove i beniamini delle tifoserie non possono sempre risultare vincitori. Applaudire negli stadi la propria squadra e quella avversaria anche nella sconfitta, riconoscendo il limite umano degli atleti, è un indice della maturità sportiva.
L’applauso e il riconoscimento più grande dovrebbero essere per quegli atleti che di fronte alle emergenze più grandi si sono assunti una responsabilità per la salvezza dell’umanità, come è accaduto a quei grandi calciatori che hanno salvato degli ebrei durante la Shoah, a quegli atleti che si sono battuti per difendere la dignità umana in Africa e in America Latina, o a quelle atlete che in Medio Oriente e in Asia non si sono piegate alla sottomissione della donna e alle imposizioni religiose.
Le loro storie non sono circoscritte solo agli stadi o all’ambito sportivo: i loro esempi hanno un significato etico fondamentale per l’agone sportivo.
Riconoscere il valore di questi uomini e raccontare le loro gesta agli sportivi offre dei parametri morali per comportarsi in un modo degno e onesto nella stessa competizione sportiva. Chi apprezza l’altruismo del grande ciclista Gino Bartali, che nascose nella canna della bicicletta centinaia di documenti falsi per salvare gli ebrei durante il fascismo; il sacrificio del maratoneta etiope Feyisa Lilesa, che arrivò al traguardo con le mani incrociate per denunciare la persecuzione degli oromo e così perse il suo posto in squadra e non poté più tornare nel suo Paese; il coraggio della nuotatrice siriana Yusra Mardini, che si erse a paladina dei profughi del suo Paese dilaniato dalla guerra; della mezzofondista algerina Hassiba Boulmerka, che lottò per correre senza il volto coperto, è più rispettoso degli avversari e rifiuta comportamenti razzisti e di discriminazione etnica, religiosa o di genere.
Lo sport non è un’isola a parte, come direbbe oggi Primo Levi, perché al suo interno si possono riprodurre i comportamenti migliori della società, oppure diventare un luogo dove si alimentano i germi peggiori.
Ecco perché è necessario raccogliere e divulgare le storie dei Giusti dello sport, per creare negli stadi e nei campi sportivi uno spirito di emulazione.
Con questo intento Gariwo propone l’allegato alla Carta della responsabilità 2017, sul tema dello sport. Immaginiamo che ognuno, che sia tifoso, atleta o giornalista sportivo, possa in prima persona far propri questi valori e comportamenti etici.
direttore Fondazione Candido Cannavò
capitana Geas Basket
corrispondente da NewYork de Il Sole 24 Ore
nuotatore italiano sette volte campione del mondo
giornalista
caposervizio sport per Avvenire
giornalista de Il Fatto Quotidiano, già co-fondatore de La Repubblica
mezzafondista olimpionico (Oro a Los Angeles '84)
marciatore olimpionico (Oro a Mosca '80)
mezzafondista olimpionica (Oro a Los Angeles '84)
autore e regista, promotore Fondazione Giacinto Facchetti
marciatrice (primatista europea della 50 km)
vicepresidente della Federazione Italiana Triatlon
centrocampista dell’AC Milan e capitano della nazionale femminile sudafricana
maratoneta olimpico (Mosca ’80; Los Angeles ’84)
presidente Fondazione Corriere della Sera
cestista (Argento a Mosca ’80)
Nazionale italiana di rugby
presidente Stramilano Running Club
giornalista La Repubblica
mezzofondista (Oro a Roma ’87)
scrittore, già direttore di La7 Sport
caposervizio Il Giornale e maratoneta
nuotatore (Oro ad Atene '91)
scrittore e giornalista UCEI
responsabile settore femminile dell’AC Milan
campione d’Italia 2001 con la Roma e presidente Assocalciatori
allenatore Nazionale italiana sordi e Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana
Jean Blanchaert, artista; Francesco Caremani, giornalista; Marco Cavallarin, regista, operatore culturale; Gianluca Colonnello, allenatore e calciatore (105 presenze in Serie A); Giovanna Grenga, insegnante; Giampaolo Gualla, presidente CUS Pro Patria Milano Triathlon; Marcattilio Marcattilii, staff tecnico del Sassuolo; Cristina Miedico, direttrice del Museo Archeologico di Angera; Giorgio Mortara, vicepresidente UCEI; Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo; Luciano Scalettari, giornalista; Nadav Tamir, già diplomatico israeliano, membro del Consiglio del Mitvim; Roberto Tortora, giornalista SportMediaset; Unione Stampa Sportiva Abruzzo.