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Euro 2020 tra antirazzismo e hate speech

Dall'inginocchiarsi dei calciatori all'odio sui social, gli Europei dal punto di vista dei diritti

Essendo cresciuto in Gran Bretagna negli anni ’80, quando i politici criticavano i calciatori perché non riuscivano ad essere un modello per i più giovani, l'ironia dell'attuale inversione di rotta della politica del calcio non mi sfugge”, ha scritto ieri Matt Browne su la Repubblica riferendosi all’attivismo antirazzista della Nazionale inglese durante gli Europei di calcio appena conclusi. E in effetti, mai come in questa edizione del torneo, il dibattito su razzismo e antirazzismo è stato centrale tra i giocatori. La discussione sull’inginocchiarsi o meno in solidarietà con il Black Lives Matter ha accompagnato tutte le fasi dell’Europeo, fino allo sgradevole episodio degli attacchi razzisti sui social contro i calciatori britannici Jadon Sancho, Bukayo Saka e Marcus Rashford, rei di aver sbagliato i tiri dal dischetto durante la finalissima persa contro l’Italia. Il giorno dopo la finale Tyrone Mings, difensore dell’Aston Villa e della Nazionale inglese ha accusato la ministra degli Interni Priti Patel di aver “alimentato il fuoco” del razzismo. Patel aveva infatti dichiarato all'inizio dell'Europeo di non sostenere "le persone che partecipano a quel tipo di gesti politici”, riferendosi alla protesta dell’inginocchiarsi, e quindi che i fan che fischiavano il gesto non erano criticabili. Secondo Tyrone Mings, invece, "non si può alimentare il fuoco etichettando il nostro messaggio antirazzista come gesto politicoe poi fingere di essere disgustata quando accade proprio quello contro cui stiamo facendo una campagna".

Il gesto dell’inginocchiarsi nasce con Martin Luther King ed è stato riportato in auge dal giocatore di football Colin Kaepernick che nel 2016 si era inginocchiato durante l’esecuzione dell'inno nazionale statunitense prima di una partita. Da allora questa dichiarazione antirazzista è diventata un simbolo delle proteste statunitensi di Black Lives Matter, non solo nel mondo dello sport. Ben presto anche i calciatori della Premier League, storicamente restii a prendere posizioni sociali nette, hanno iniziato a mettersi in ginocchio per evidenziare la disuguaglianza e la discriminazione razziali. Il gesto è quindi arrivato a Euro 2020 e ha avuto i giocatori di Inghilterra, Belgio e Galles come “capofila”. Se per l’ex stella del Manchester United Rio Ferdinand il gesto va reiterato perché "la minoranza ignorante ha bisogno di essere educata”, un certo numero di politici conservatori ha affermato di opporsi all’inginocchiarsi, considerandolo una dichiarazione politica. Ad esempio, il ministro dell'Istruzione Gillian Keegan lo ha definito un gesto “divisivo”.

Le altre squadre si sono comportate in maniera contrastante. Se i fan di Polonia, Russia e Ungheria hanno fischiato i giocatori che si inginocchiavano, altre si sono inginocchiate quando hanno incontrato nazionali che lo fanno regolarmente o hanno dimostrato in altro modo la propria solidarietà. È il caso della Danimarca, che in semifinale contro l’Inghilterra non si è inginocchiata ma ha applaudito i propri avversari mentre lo facevano. Per quanto riguarda l’Italia, dopo non essersi inginocchiata nelle prime due partite, lo ha fatto parzialmente a Roma contro il Galles (Rafael Toloi, Federico Bernardeschi, Emerson Palmieri, Andrea Bellotti e Matteo Pessina), evidenziando una certa confusione. Si è in seguito inginocchiata contro il Belgio e capitano il Chiellini ha spiegato che l’Italia lo avrebbe fatto ogni volta che gli avversari avessero optato per il gesto.

Gli attacchi razzisti a Sancho, Saka e Rashford fanno emergere che il problema del razzismo nel calcio è reale e persiste, nonostante lo si cerchi di sminuire. Allo stesso tempo, anche le prese di posizione contro il razzismo sono in aumento, simbolo di una società sempre più polarizzata. Non può passare inosservata, a questo proposito, la petizione - che in meno di un giorno ha superato il milione di firme - per proibire lo stadio a tutti i tifosi che hanno fatto commenti razzisti. Promossa lunedì dalle tifose Shaista Aziz, Amna Abdullatif e Huda Jawad, la petizione chiede alla Federcalcio inglese e al governo di lavorare insieme per bandire a vita "tutti coloro che hanno commesso abusi razzisti, online o offline, in qualsiasi partita di calcio giocata in Inghilterra”. Tutti e tre le promotrici hanno affermato di essersi sentite non gradite negli stadi a causa della loro provenienza. "Ricordo una partita in particolare”, ha spiegato Aziz “in cui addirittura sono andata dallo steward all'intervallo e l'ho pregato: 'Per favore, puoi farmi sedere con gli avversari?’”. Petizione a parte, volgendo lo sguardo in particolare al mondo online ormai sovrapposto alla realtà offline (virtuale è reale) sempre più giocatori hanno denunciato abusi ricevuti sui social media. Oltre ai tre della nazionale inglese, anche Anthony Martial del Manchester United, Antonio Rudiger del Chelsea e Willian dell'Arsenal, solo per citarne alcuni tra i più noti, hanno detto di venir presi costantemente di mira per il loro colore della pelle. Il premier Boris Johnson ha voluto probabilmente rispondere alla petizione annunciando il divieto d'ingresso allo stadio per i tifosi che si macchiano di abusi razzisti online.

La Premier League, insieme ad altre importanti istituzioni calcistiche, ha scritto a Facebook e Twitter chiedendo un miglior lavoro di filtraggio e una rapida rimozione dei post offensivi, nonché maggiori verifiche sulle identità dei troll e una assistenza più attenta verso il lavoro di vigilanza delle forze dell’ordine. Facebook ha quindi dichiarato di aver recentemente annunciato misure più severe sulla sua piattaforma Instagram, inclusa l'eliminazione permanente degli account che inviano ripetutamente messaggi diretti offensivi. "Nessuno dovrebbe subire abusi razzisti da nessuna parte e non vogliamo che accada su Instagram", ha detto un portavoce di Facebook. “Ieri sera abbiamo rimosso rapidamente commenti e account che indirizzavano abusi ai calciatori inglesi e continueremo ad agire contro coloro che infrangono le nostre regole. Nessuno potrà risolvere questa sfida dall'oggi al domani, ma ci impegneremo a proteggere la nostra comunità dagli abusi”. Twitter ha dichiarato inoltre di aver rimosso più di 1.000 post nella giornata in cui si sono verificati gli abusi e di aver sospeso un certo numero di account per violazione della propria policy.

Questo è il test più grande per i giganti dei social media nei loro tentativi di reprimere gli abusi razziali sui calciatori - e finora non sta andando bene”, ha dichiarato il giornalista della BBC Rory Cellan-Jones. Dalla vicenda emerge chiaramente la necessità sempre più impellente di riflettere sulle responsabilità che le piattaforme hanno nei confronti dei propri utenti, oltre che sulla responsabilità personale e legale di chi genera odio e razzismo in rete. Come rendere i social media un luogo il più possibile libero da abusi? Come diffondere un’educazione civica digitale efficace? Sono solo alcuni dei quesiti che il momento ci sta ponendo.

In quest’ottica non certo rassicurante si inserisce poi il dibattito sul perché si debba impedire agli atleti di prendere delle prese di posizione nette, anche durante le manifestazioni sportive. Ora tutti gli sguardi sono rivolti alle Olimpiadi: il CIO, che organizza i Giochi, ha vietato agli atleti di inginocchiarsi. Un suo funzionario, Kirsty Coventry, si è detto “molto preoccupato per il rischio di politicizzazione degli atleti”. Il riferimento è all’articolo 50 della Carta Olimpica, che vieta qualsiasi tipo di “manifestazione o propaganda politica, religiosa o razziale”.

Latleta Katarina Johnson-Thompson, campionessa britannica di epthatlon si è detta disposta a inginocchiarsi nonostante il divieto. Se per qualcuno questa norma andrebbe rivista in quanto violerebbe i diritti umani, non possiamo non ricordare coloro i cui coraggiosi gesti durante le precedenti edizioni dei Giochi sono stati importanti per promuovere i diritti umani. Su tutti Tommie Smith e John Carlos che alzarono il pugno alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968. Più recentemente, alle Olimpiadi 2016, LeBron James e altri giocatori di basket avevano indossato magliette con le parole “I cant breath” facendo eco alle ultime parole di Eric Garner, morto dopo essere stato trattenuto da agenti di polizia di New York. Se dal Giappone ci tengono a dire che nessun divieto all’inginocchiarsi viene da Tokyo e che la decisione è unicamente interna al CIO, la rivista Vedemosti ha pubblicato il bizzarro vademecum che il Comitato olimpico russo ha diffuso tra i propri partecipanti per prepararsi su come rispondere alle domande “impertinenti” dei giornalisti internazionali. Se interrogati sul Black Lives Matter, gli atleti russi dovranno rispondere che “le Olimpiadi non devono diventare la piattaforma di azioni e gesti politici”.

Secondo l’accademico ed ex calciatore Jules Boykoff, a beneficiare delle regole del Comitato olimpico sono proprio coloro che vogliono mantenere il mondo, e i rapporti di potere, così come sono: “Mentre la neutralità politica può sembrare lodevole in superficie, si increspa di ipocrisia quando è ordinata dal CIO. In base a questa politica, gli atleti attivisti sono sospesi tra passato e futuro mentre viene loro negato il diritto di esistere nel presente. Ciò rafforza la politica dello status quo, che avvantaggia chi è al potere”.

Joshua Evangelista, Responsabile comunicazione Gariwo e Helena Savoldelli, Redazione Gariwo

15 luglio 2021

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