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La Coppa Davis e il Giusto di Santiago

di Francesco Caremani

Oltre settecento oppositori salvati durante il regime di Pinochet. Cosa resta dell’opera del diplomatico italiano Tomaso de Vergottini e del suo braccio destro Emilio Barbarani e perché la loro storia è legata alla vittoria più importante del tennis italiano

Una squadra è una delle docuserie più belle che siano mai state prodotte in Italia. Con la regia di Domenico Procacci racconta la storia della Nazionale italiana di tennis, composta da Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Adriano Panatta, Tonino Zugarelli e capitanata da Nicola Pietrangeli, che raggiunse quattro volte la finale di Coppa Davis, vincendone una sola: nel 1976 in Cile.

La sfida contro i cileni – Jaime Fillol, Patricio Cornejo e Belus Prajoux – si giocò tra il 17 e il 19 dicembre del ’76 nell’Estadio Nacional de Chile, che dopo il golpe del 1973 era stato utilizzato come campo di concentramento dal regime di Pinochet. Una sfida che si giocò prima sui tavoli della politica e della diplomazia, di fronte a una nazione che il mondo, a parole, voleva isolare dopo l’assalto a La Moneda dei militari che l’11 settembre 1973 avevano rovesciato il governo del socialista democratico di orientamento marxista Salvador Allende.

Tanto che, mentre l’Italia in semifinale sconfiggeva in casa la fortissima Australia, l’Urss si rifiutava d’incontrare il Cile dandogli partita vinta a tavolino e facendolo arrivare in finale senza giocare.

In quel periodo l’Italia stava vivendo anni di grandi tensioni politiche, sociali ed economiche. La Democrazia Cristiana teme il sorpasso da parte del PCI che nelle elezioni del 20 e 21 giugno 1976 ottiene 12.615.650 voti alla Camera e 10.637.772 al Senato.

Nello stesso anno Adriano Panatta vince il Roland Garros a Parigi contro Harold Solomon (Stati Uniti) e gli Internazionali d’Italia a Roma contro Guillermo Vilas (Argentina), raggiungendo il quarto posto nella classifica ATP; avendo conquistato nel 1975 il torneo di Stoccolma contro Jimmy Connors (Stati Uniti). Sono gli anni di piombo da una parte e di terra rossa dall’altra, con il tennis italiano capace di raggiungere vette ineguagliate.

Quando è chiaro a tutti che la finale di Coppa Davis, la prima raggiunta da questo gruppo di straordinari tennisti – Barazzutti, Bertolucci, Panatta e Zugarelli –, uomini tutt’altro che banali, si giocherà contro il Cile, l’opinione pubblica italiana si divide tra chi vuole che si giochi lo stesso e chi invece vorrebbe rinunciare; con il governo Andreotti e il CONI, presieduto da Giulio Onesti, che non si sbilanciano per non prendere posizione in un senso o nell’altro, chi per opportunità politica e chi per opportunità sportiva. Perché alla favola della neutralità dello sport ci hanno creduto troppi e per troppo tempo. A questo proposito caustica fu la dichiarazione di Ugo Tognazzi in un’intervista: «Noi in Cile esporteremo automobili, sicuramente cinema e importiamo rame. Ora, perché proprio Panatta non lo vogliamo esportare e Bertolucci, Barazzutti e Pietrangeli?».

Secondo una prima ricostruzione fu il Partito comunista cileno, dalla clandestinità – nella figura del leader Luis Corvalan ­–, a chiedere a quello italiano di insistere perché l’Italia andasse in Cile, evitando così che Pinochet si potesse fregiare di una vittoria sportiva prestigiosa, anche se vinta a tavolino.

Ma la storia della diplomazia italiana che preparò il terreno alla sfida di Coppa Davis è più complessa e merita di essere raccontata.

Tomaso de Vergottini era nato a Parenzo (Istria, oggi Croazia), il 30 dicembre del ’33. Da lì se ne va insieme con la madre, Paola, e il fratello, Pier Paolo, nell’ottobre del 1943, dopo l’uccisione del padre Antonio, podestà della città, da parte dei partigiani di Tito. Trasferitosi in Friuli terminerà gli studi a Udine per poi andare a Roma. Laureato in giurisprudenza nel 1957, nel 1962 iniziava la carriera diplomatica. Nel 1964 è al consolato di Innsbruck, nel 1968 a Tel Aviv, dal 1973 al 1983 a Santiago del Cile (come Incaricato d’Affari), dal 1984 al 1988 a Montevideo (dov’è stato sepolto nel 2008) e dal 1992 al 1996 a Santo Domingo.

Proprio in Cile visse gli anni più duri della dittatura di Pinochet, dal colpo di Stato in poi, riuscendo, nonostante il governo italiano non riconoscesse ufficialmente il regime dei militari e al tempo stesso impossibilitato ad abbandonare i rapporti con quel Paese, a godere della fiducia del governo cileno e a salvare centinaia di oppositori – alla fine saranno 750 –, facendogli lasciare il Paese dopo averli ospitati nell’ambasciata italiana, con l’aiuto e la collaborazione della moglie, Anna Sofia, e del suo braccio destro, Emilio Barbarani, veronese, giovane console a Buenos Aires, inviato dal ministero degli Esteri a dargli manforte.

Subito dopo l’11 settembre 1973 molti cileni, per sfuggire alla DINA, la polizia segreta diretta dal sanguinario Manuel Contreras, si rifugiano nelle ambasciate. Quella italiana è sguarnita e retta dal primo segretario Piero De Masi che apre i cancelli, diventando così persona non gradita al regime e costretto a lasciare il Paese.

Tomaso de Vergottini arriva a Santiago nel giorno del suo quarantesimo compleanno (30 dicembre 1973) da Israele, con lo status di ‘diplomatico in transito’. Dovrebbe restare lì solo per sistemare le cose, ma vi rimarrà dieci anni, trasformando l’ambasciata in un centro di accoglienza per gli oppositori di Pinochet, sostenuto dalla moglie; la coppia sarà vittima di un attentato di ritorno da un viaggio sulle Ande: i freni della loro Volvo erano stati manomessi.

Tomaso de Vergottini, attraverso estenuanti trattative con il ministero degli Interni cileno, ottiene i salvacondotti con i quali i richiedenti asilo possono lasciare il Cile. Ma questo non piace a tutti e ha un prezzo.

Il 3 novembre del 1974 nel giardino dell’ambasciata italiana viene ritrovato il corpo di Lumi Videla, militante del MIR, Movimento della sinistra rivoluzionaria, il cui leader, Humberto Sotomayor, ha trovato rifugio nella sede diplomatica condotta da de Vergottini. Il corpo lo trova il segretario Roberto Toscano che, come De Masi, dovrà lasciare il Paese, mentre la stampa si scatena contro i diplomatici italiani: «Covo di estremisti protetti dall’Italia», raffigurando l’ambasciata come un luogo di dubbia morale. Da Buenos Aires arriva il console Enrico Calamai, ma resta poco e sarà sostituito da Barbarani; nel 1976 Calamai è nuovamente a Buenos Aires dove, con l’aiuto del giornalista del Corriere della Sera Giangiacomo Foà e del sindacalista Filippo Di Benedetto, riesce a mettere in salvo e a far espatriare centinaia di oppositori politici del regime, mettendo a repentaglio la propria vita, nel 2000, in Italia, testimoniò nei procedimenti penali contro otto militari argentini responsabili della morte di cittadini italiani durante il regime e dal 2010 è onorato al Giardino dei Giusti di Milano.

I due – de Vergottini e Barbarani, appunto – ottengono il benestare della Farnesina ma operano senza un mandato ufficiale, quindi rischiano in proprio e l’8 aprile del 1975 accompagnano all’aeroporto di Santiago gli ultimi ventisei rifugiati muniti di salvacondotto.

E la finale di Coppa Davis?

Per sbloccare l’impasse che si era venuta a creare de Vergottini convinse il regime di Pinochet a rilasciare due prigionieri politici comunisti e in cambio trattò con il governo italiano perché l’Italia del tennis si recasse in Cile a giocare: la nostra prima Coppa Davis coincise con l’uscita dal carcere di due oppositori, per questo ancora più luccicante.

Tomaso de Vergottini ha ricevuto la Gran Croce dell’Ordine di Bernardo O’Higgins, massima onorificenza cilena, il 17 dicembre 1990, l’Ordine al merito di Duarte, Sanchez e Mella della Repubblica Dominicana e il titolo di Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana; nel 2014 la moglie Anna Sofia ha ritirato il Premio Allende conferito alla sua memoria.

Tomaso de Vergottini ha collaborato a lungo con La Discussione con lo pseudonimo di Giorgio Horvat e ha scritto un libro su quegli anni vissuti pericolosamente Cile: diario di un diplomatico (1973-1975). Emilio Barbarani, invece, ha raccolto le sue memorie in Chi ha ucciso Lumi Videla, vincendo il Premio Salvador Allende e il Premio speciale Flaiano di narrativa nel 2019.

Per tornare allo sport non possiamo dimenticare le magliette rosse di Bertolucci e Panatta nel doppio contro Cornejo e Fillol, match che vinsero gli azzurri conquistando il punto decisivo (3-0) per aggiudicarsi la Coppa Davis. Su quelle magliette è stato scritto e detto tanto: casualità o provocazione? Adriano Panatta, in un’intervista di alcuni anni fa ha fugato ogni dubbio; magliette rosse come il colore dei fazzoletti che le donne cilene sventolavano per protestare in piazza contro il regime di Pinochet, cercando i propri desaparecidos. Nel 2009 Mimmo Calopresti ha girato il documentario La maglietta rossa con Paolo Villaggio, Paolo Bertolucci, Tonino Zugarelli e lo stesso Panatta.

Altri, invece, nel ricostruire le vicende storiche di quegli anni si sono dimenticati troppo spesso di Barbarani e de Vergottini, due Schindler italiani tra i tanti che la nostra storia può vantare.

Bibliografia

A Tomaso de Vergottini il Premio Allende alla memoria – 23 settembre 2014

Lorenzo Fabiano, Il Cile di Nanni Moretti. Una storia raccontata a metà, heraldo.it, 27/12/2018

Pietro Cabrio, La Coppa Davis delle magliette rosse, ilpost.it, 19/12/2021

Arianna Boria, La Coppa Davis all’Italia nel Cile di Pinochet grazie al diplomatico istriano: la storia sul Piccololibri, ilpiccolo.gelocal.it, 19/08/2022

Francesco Caremani, giornalista

14 marzo 2023

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