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Maxime Mbandà, il rugbista in ambulanza contro il Covid-19

Per il suo impegno con la Croce Gialla, Mattarella lo ha nominato cavaliere della Repubblica

Parlarsi al telefono è un’impresa. L’impegno con la Croce Gialla è così totalizzante che tutto il resto passa in secondo piano. Quando finalmente riusciamo a sentirci, Maxime ci chiede scusa per non essere riuscito a rispettare un paio di appuntamenti. Ma l’imbarazzo è nostro, per rubargli tempo prezioso tra un turno e l’altro in ambulanza. Classe '93, nato a Roma e cresciuto a Milano da papà congolese e mamma italiana, Maxime Mbandà è terza linea delle Zebre di Parma e della Nazionale italiana di rugby, con cui conta 20 presenze internazionali. La sua vita sportiva si è fermata prima della partita del 14 marzo valida per il Sei Nazioni tra gli azzurri e l’Inghilterra. Fermo, come tutti, Maxime ha deciso di “arruolarsi” con la Croce Gialla di Parma, con la quale per tre mesi ha trasportato a bordo di un’autoambulanza pazienti malati di Covid-19 dall’ospedale di Parma a quelli di centri più “liberi”. Uno sforzo nato in sordina che tuttavia l’ha portato a essere insignito dal Presidente Sergio Mattarella dell'onorificenza di cavaliere al merito della Repubblica. Un riconoscimento gigantesco, “eccessivo rispetto a quello che fanno altri volontari da trent’anni” secondo l’atleta, che tuttavia è un’occasione per aprire uno spiraglio sul mondo del volontariato giovanile e sull’importanza degli sportivi come motore di cambiamento della società. Ma non solo, l’esempio di Maxime evidenzia la necessità di lavorare insieme per promuovere i valori della solidarietà in un momento storico in cui, in tutto il mondo, il dibattito sul razzismo è al centro della discussione pubblica. Nel frattempo, in Italia, molti giovani coetanei di Maxime nati e cresciuti nel nostro paese lottano per una legge sulla cittadinanza che li tuteli e riconosca loro gli stessi diritti degli altri cittadini.

Maxime, come è maturata l’intenzione di collaborare con la Croce Gialla di Parma?

Erano i primi di marzo e come molte persone mi sono ritrovato a casa. Avevano interrotto tutti i campionati e i tornei proprio mentre stavo a Roma con i compagni della Nazionale per preparare partita contro l’Inghilterra. Volevo capire come aiutare la mia comunità a Parma. Ho fatto una ricerca internet e ho letto di questo progetto. C’era urgente bisogno di personale, dato che si entrava in un periodo “intenso”. Mi sono fatto avanti, così mi hanno chiesto se mi sentivo pronto a trasportare positivi di coronavirus da un ospedale all’altro.

Come è stato l’impatto con il dolore delle persone?

Soprattutto nei primi giorni non è stato facile. Non avevo mai visto così tante persone soffrire in questo modo. È stata dura. La sera piangevo, cercavo di sfogarmi per quello che vedevo durante il giorno. Il mio compito era di trasportare i pazienti verso altri ospedali nella provincia di Parma che avevano delle postazioni disponibili. I medici erano stressati, avevano tante persone da curare e non sapevano da dove cominciare.

Come reagivano i pazienti quando vi vedevano?

Ci presentavamo tutti bardati, io poi rispetto agli altri volontari emergevo perché sono un omaccione. Molti non erano coscienti perché la malattia li aveva colpiti in maniera aggressiva alle vie respiratorie. Quelli coscienti ci vedevano arrivare da loro, prendere le loro cose, metterle nei sacchi e spostarli dal loro letto di ospedale a una barella. Erano terrorizzati, avevano paura di andare a morire. La prima impressione era di puro sconforto, anche se noi volevamo solo salvarli. L’impatto era decisamente poco piacevole.

Qual era il tuo ruolo?

Trascorrevo tutto il tempo in ambulanza vicino alle persone, stringevo mani, le accarezzavo, cercavo di confortarli con le parole. Mi sono immedesimato nei loro famigliari che non potevano vederli perché altrimenti sarebbero stati contagiati. Sono stato loro nipote, loro figlio… e loro cugino, visto che ho trasportato anche persone giovani. Lavoravo pensando a madri e zie, come se ci fossero state loro.

Cosa ti porti a casa di questi tre mesi?

Sicuramente ho avuto molto tempo per pensare. Ci sono tante cose che abbiamo dato per scontato che invece non lo sono, come la salute, la famiglia e l’amore. E invece altro, al quale attribuiamo molta importanza come il telefono e l’auto sgargiante, durante questo periodo passa in secondo piano. L’obiettivo è cercare di essere meno superficiali.

Ti aspettavi il riconoscimento di Mattarella?

Non me l’aspettavo, quando mi hanno dato la notizia i miei compagni mi stavo allenando. Era un mercoledì mattina, eravamo divisi in gruppi, una dozzina ciascuno. I ragazzi del gruppo che aveva finito prima la seduta hanno letto la notizia. Per me è esagerato, io sono entrato in questo ambiente da tre mesi. Nella mia associazione, ma non solo, ci sono volontari che lo fanno da trenta anni senza che nessuno dia loro alcun riconoscimento. I veri eroi sono loro, che da anni operano nel silenzio senza pensare a retribuzioni o premi. Però mi hanno spiegato il valore simbolico, da sportivo, di questo riconoscimento. Spero di poter essere un esempio positivo per molti altri giovani e molti altri sportivi. Avrei avuto la possibilità di fare volontariato già quando avevo 14 anni, mio padre chirurgo aveva provato a inserirmi in un’associazione. Ma non è andata, non ero conscio del fatto che attraverso il volontariato puoi fare molto. O semplicemente donare un sorriso, che per molte persone sole è essenziale. Ho già avuto riscontro di giovani che si sono attivati in questo periodo per trovare delle associazioni e aiutare dopo aver sentito la mia storia. Sono più che contento che la mia storia possa essere utile in questo senso.

Si parla tanto dei valori del rugby. Hanno influito nel tuo percorso da volontario?

Sicuramente. Una delle parole chiave del rugby è sostegno. È uno sport in cui corri, vieni placcato e vai a terra. E se non hai il sostegno dei compagni perdi il possesso e non puoi vincere. Un altro concetto basilare è proprio quello di squadra, che del resto fa parte di tutti gli sport collettivi. Io sono entrato in un’associazione dove c’erano già volontari da tempo. In questi casi la cosa da fare è impegnarti affinché non ci sia spazio per nessun tipo di incomprensione. Anche perché quando devi prendere una persona e portarla in un altro ospedale hai in mano la sua vita. Quindi devi impiegare il minor tempo possibile cercando di essere più efficiente che mai.

Una questione di coordinamento.

Erano trasporti lunghi, in strade piene di dossi. Quando arrivavi in ospedale, dovevi scaricare la barella e portare il paziente nel reparto: tutte cose da fare in squadra, esattamente come in un campo da rugby. Sono riuscito a lavorare con gli altri e far funzionare tutti questi gesti in maniera coordinata anche grazie alla mia esperienza con il rugby.

A proposito di esperienze collettive e di essere coordinati per ottenere risultati starai sicuramente seguendo le proteste per i diritti dei cittadini neri e la dignità di tutti gli esseri umani.

Sono assolutamente a favore delle proteste e di tutti gli atti simbolici. Secondo me funzionano bene quando non si è mossi solo dalla rabbia. Purtroppo basta una sola azione negativa che i media si concentrano su quella e fanno emergere tutto il movimento in maniera negativa. Ad ogni modo stiamo vedendo che molti sportivi neri e non, famosi e non, stanno cercando di sensibilizzare le persone. Tutti dovrebbero farlo, siamo tutti stufi di queste prevaricazioni. Possiamo convivere tutti in maniera pacifica. Il razzismo è un concetto complesso, esiste il razzismo dei bianchi verso i neri, dei neri verso i bianchi, dobbiamo far capire che si può vivere bene insieme a prescindere da culture e identità.

Sei stato premiato da Mattarella in quanto cittadino italiano che si è comportato in maniera esemplare. Molti tuoi coetanei, come te nati e cresciuti in Italia da genitori stranieri, per lo stato non sono italiani.

È un tema complicato. Non ho competenze giuridiche, ma non capisco perché queste persone nate o cresciute in Italia debbano essere considerate straniere. Conoscono la storia italiana, ne vivono la cultura, sono italiani. Questo purtroppo dipende dal buon senso dei politici. Devono risolvere la questione il prima possibile con leggi appropriate: ne va del futuro di questa e delle future generazioni.

Joshua Evangelista, Responsabile comunicazione Gariwo

15 giugno 2020

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