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Andrzej Wajda: un regista come coscienza critica della Polonia contemporanea

di Francesco M. Cataluccio

Andrzej Wajda

Andrzej Wajda

“Wer der Dichter vill verstehen Mus in dichters lande gehenn”
(Chi vuol capire il poeta deve recarsi nel suo paese) W. GOETHE

Autore di quaranta film e di quasi altrettante regie teatraliAndrzej Wajda (Suwałki, 6 marzo 1926–Varsavia, 10 Ottobre 2016) è un artista difficilmente comprensibile senza conoscere la Polonia e la sua drammatica storia. Questo è il motivo per cui i suoi capolavori (come I dannati di Varsavia, 1957; Ceneri e diamanti, 1958;Tutto in vendita, 1968; Il bosco di betulle, 1970; Le nozze, 1970; Paesaggio dopo la battaglia, 1970; La terra della grande promessa, 1974; Le signorine di Wilko, 1974; L'uomo di marmo, 1976; Senza anestesia, 1978; Korczak, 1990; Katyń, 2007) sono stati apprezzati nel mondo soltanto per i loro valori formali e per la denuncia politica, ma non hanno mai avuto il successo di pubblico che avrebbero meritato.

I film di Wajda attendono ancora di essere considerati nella loro complessa trama culturale, anzitutto letteraria. La metà dei suoi film infatti sono tratti da romanzi o racconti della letteratura polacca o russa e sono un'efficace fusione della storia con i romantici drammi nazionali e personali, la pittura e le immagini dell’arte polacca.
Wajda ha forse incarnato e interpretato, come nessun altro intellettuale polacco, l’autocoscienza del suo Paese. Le sue opere sono sempre sorte da una personale riflessione e denuncia di un particolare momento della storia della Polonia e hanno puntualmente suscitato accese discussioni e polemiche. E' stato certamente uno dei più grandi registi del dopoguerra. Un regista molto letterario e pittorico.

“Sono diventato regista per caso. Volevo fare il pittore, avevo delle reali ambizioni in questo senso: ero convinto di diventare un grande artista. Ma non è andata così. E dopo tre anni ho lasciato l’Accademiaper la Scuola di cinema di Łódz. Però non ero del tutto convinto del mio destino, che la mia strada fosse quella. Fu il caso a determinare il mio futuro. Ero invacanze al mare e, poiché il tempo era brutto, decisi di partire e tentare gli esami per entrare nella scuola di cinema. Se il tempo fosse stato bello sarei rimasto al mare, ma come spesso accade è stato il caso a decidere…”.

La pittura è stata fondamentale nella vita e nell’attività artistica di Wajda. Anche mentre passeggiava, di continuo cavava di tasca il suo inseparabile quadernetto, si fermava e in piedi si metteva a disegnare le cose più svariate: alberi, statue, variopinte biciclette, volti, gatti e cagnetti… Nel disegno nasceva l’idea di una scena di un film. La fotografia, spiegava, non gli avrebbe poi permesso di ricostruire l’interpretazione e la suggestione di quell’oggetto, in quel dato momento.

I suoi film sono stati costruiti sequenza per sequenza, disegnando ogni scena e, spesso, “animando”  dipinti famosi. Come nel caso de Le nozze, tratto dal dramma dello scrittore e pittore della fine dell’ottocento, Stanisław Wyspiański, dove molte delle scene sono il calco vivente di quadri di Wyspiański stesso. Wajda si definiva spesso “uno strano pittore, un costruttore di immagini”: uno che traduce la letteratura e la vita “in cose che si vedono e stanno tra loro in un particolare ordine di immagini, il mio ordine”.
In uno dei suoi film più disperati - girato non caso nel 1968, che in Polonia fu uno dei momenti più neri della sua storia recente - intitolato Tutto in vendita (e dedicato all’amico attore Zbygniew Cybulski, morto l’8 gennaio 1967 sotto un treno, nel tentativo di prenderlo al volo), Wajda fece rifugiare il suo alter ego, l’intenso attore Andrzej Łapicki, in una galleria dove erano esposte le tele del pittore “esistenzialista” Andrzej Wróblewski (1927-1957): “Andrzej è stato il mio grande amico. Morì suicida alla fine degli anni cinquanta. È stato il più grande pittore polacco del dopoguerra era stato membro del Partito e un acceso sostenitore del sociorealismo. La sua rottura con quell’ideologia e quel modo di fare arte la visse come una profonda, insanabile, lacerazione. Avrei voluto tanto fare un film su di lui. Avevo chiesto al poeta Stanisław Czycz, che aveva scritto un fantastico racconto, And (1967), sugli anni cinquanta, di preparami una scenaggiatura. Ma poi non se ne fece più nulla”.

Ma questa idea, dalle forti tinte autobiografiche, era rimersa come un fiume carsico negli ultimi anni. In alcune occasioni, Wajda aveva detto di voler fare il suo ultimo film proprio sul pittore Wròblewski. Alla fine prevalse l’idea di concentarsi sulla figura di un pittore completamente all’opposto, prima esponente dell’avanguardia del Costruttivismo, e poi strenuo, e coraggioso, assertore dell’Astrattismo: Władysław Strzemiński (1893-1952). E così è nato l’ultimo film, Powidoki (Immagini residue), chea questo punto molti vedranno come il suo “testamento”, di recente presentato al 41esimo festival internazionale di Toronto e candidato per la Polonia all’Oscar. Wajda lo ha presentato così: ”Da molto, da anni volevo occuparmi di un pittore che, nel 1949, abbandona l’Accademia di Belle Arti di Cracovia per andare a studiare alla Scuola di cinema di Łódz. Sentivo di doverlo fare. Spero che la figura di Władysław Strzemiński mi permetta di portare sullo schermo il destino di uno dei più consapevoli artisti polacchi e il suo conflitto con le autorità. Gli dette la forza di opporsi al potere proprio la consapevolezza della strada che deve percorrere l’arte dei nostri tempi, e che Strzemiński espresse nel suo libro Teoria widzenia (Teoria della visione, 1958): la certezza che non esista altra strada che l’astrattismo, dal momento che la pittura tematica e il postimpressionismo hanno già detto tutto quello che dovevano. Ho fatto un ritratto di un uomo inflessibile, sicuro di una sua strada che percorse per tutta la vita, dedicandosi ad un'arte non per tutti. Un insostituibile pedagogo, creatore nel 1934 del, secondo in Europa e nel mondo, Museo di Arte Contemporanea, a Łódz. Dalla vita di Strzemiński, per il mio film, ho scelto gli anni bui 1949-1952, quando la sovietizzazione della Polonia aveva assunto la sua forma più violenta, e il realismo socialista era diventata la forma obbligatoria di espressione nell’arte. Sono cosciente che, film così, l’odierna cinematografia polacca non li realizza, ma proprio per questo l’immagine degli anni cinquanta, che hanno con sé varie implicazioni politiche nel mio ambiente che ne fu testimone, può essere molto interessante per lo spettatore cinematograficio”.

Troppo preoccupato delle immagini, Wajda sosteneva di non potersi occupare delle sceneggiature. Raramente le scrisse lui. Quando in un romanzo o in un racconto trovava un’idea che lo colpiva, cercava lo stesso autore, o uno sceneggiatore di professione, e chiedeva loro di scrivergli i dialoghi. Spesso da romanzi mediocri riusciva a fare film bellissimi, come nel caso de La terra della grande promessa (tratto da La terra promessa, 1898, del Premio Nobel Władysław Reymont) o Cenere e diamanti (1948, dall’omonimo romanzo di Jerzy Andrzejewski). 
Infatti, di un testo letterario, Wajda riusciva a scoprire la “cassa di risonanza”, il filo che esalta la vicenda e mette in luce tutto il suo valore simbolico ed emblematico. In due film in particolare Wajda è stato capace di rendere con le immagini quell’atmosfera che nei racconti, da cui sono tratti, era appena suggerita o non espressa appieno. Si tratta de Il bosco di betulle (1970) e Le signorine di Wilko (1979), tratti di due racconti del grande poeta e scrittore Jarosław Iwaszkiewicz (1894-1980) (in italiano: Le signorine di Wilko, Ponte Sisto, Roma 2010). Così li spiegò Wajda, durante un’intervista autunnale che gli feci nel giardino della sua bella villetta nel vecchio quartiere di Żoliborz, a nord di Varsavia: “Sono due film sulla morte. Sull’impossibilità di tornare nello stesso posto, alla stessa situazione, allo stesso clima. L’unico scampo che c’è alla morte è l’amore, l’unica grande forza che possa contrapporsi all’istinto di morte. Su questa contrapposizione , che un po’ forza il discorso di Iwaszkiewicz, ho giocato tutto Il bosco di betulle. Andai a prendere in prestito al Museo Nazionale di varsavia il quadro del pittore ‘decadente’ Jacek Malczewski, intitolato Thanatos. Volevo che quella donna con la falce della morte stesse appesa alla parete della casa della guardia forestale dove abitano i protagonisti. Mentre questo è un film primaverile, Le signorine di Wilko è un film sull’autunno della vita. Ebbi la fortuna di girarlo in uno degli autunni polacchi più belli degli ultimi decenni. Il Tempo ha nel film una grande importanza. In fondo Iwaszkiewicz ha molti punti in comune con Proust”.

Un tema che stava molto a cuore a Wajda era quello della Decadenza. Come molti altri intellettuali polacchi viveva la tragica cadenza della storia del proprio Paese come il segno di un lento scivolare dell’Occidente verso l’Abisso. Un abisso però senza clamori, del quale a mala pena ci accorgeremo. Come nella poesia del Premio Nobel Czesław Miłosz, canzone sulla fine del mondo: “il giorno della fine del mondo/ L’ape gira sul fiore del nasturzio,/Il pescatore ripara la rete luccicante./nel mare saltano allegri delfini/(…) E chi si aspettava folgori e lampi./ Rimane deluso./E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,/Non crede che già stia avvenendo…/”.

Pur essendo attentissimo e partecipe delle vicende politiche della Polonia, dopo il 1989 fu addirittura senatore per il raggruppamento legato a Solidarność. Wajda a volte si esprimeva davvero come il figlio di un’altra epoca. A proposito della traduzione polacca del mio libro sull’Immaturità, mi scrisse sorprendentemente: “I giovani non maturano più perché manca loro una rigida educazione militare!”. Per spiegare i problemi del suo litigioso Paese, diceva spesso con rammarico: “Sta definitivamente scomparendo la generazione di prima della guerra, che aveva fatto buone scuole, conosceva il latino, credeva nei valori, aveva il culto della verità…". Aveva il mito di Józef Konrad Korzeniowski, meglio conosciuto come Joseph Conrad. Wajda, come tutti quelli della sua generazione, si era formato nel culto dei valori conradiani: “Nel 1966 un famoso produttore americano mi propose di girare un film tratto da Cuore di tenebra. Non se ne fece niente. Coppola ha poi girato Apocalypse now e credo che abbia trovato la formula giusta per fare un film da Conrad: soltanto allontanandosi dal modello dello scrittore si può creare una situazione nella quale si può dire ciò che Conrad aveva espresso. Io forse avevo letto troppo quel libro. Non so se sarei stato in grado di farne un buon adattamento. Però Coppola l’ha letto troppo poco, ha dimenticato di leggersi la fine. E invece Conrad aveva scritto quel romanzo proprio per la fine. È lì la cosa più importante: Marlowe (nel film mi sembra si chiami Willard) torna a Londra, va dalla fidanzata e le dice che Kurtz è un uomo a posto. Così si comporta un vero gentleman, un polacco! Nessun altro si comporterebbe così. Se Coppola avesse fatto tornare Willard e dire al figlio di Marlon Brando che suo padre era uno per bene, avrebbe sconvolto tutta l’America! Da Conrad ho invece girato, nel 1976, La linea d’ombra, che è un libro sul passaggio all’età adulta. La linea d’ombra è quell’incerto tratto che separa l’adolescenza luminosa dell’età matura che invece è in ombra. Nel film ho ceracatodi descrivere quel momento, terribile e meraviglioso allo stesso tempo, un momento di grande paura in cui bisogna prenedere delle decisoni da cui dipende la vita degli altri. I soggetti dei romanzi di Conrad sono molto lontani da noi, ma c’è in lui un particolare moralismo, una prospettiva esistenziale che è molto vicina a una certa tradizione spirituale polacca”.

Questa “tradizione spirituale polacca” è particolarmente evidente in due dei suoi film più recenti ed emblematici del rapporto di Wajda con la Storia: Katyń (2007) e Człowiek z nadziej (L’uomo della speranza, 2013). Katyń fa i conti con una tragedia personale e collettiva rimasta per troppo tempo occultata. Nell’aprile del 1943, proprio mentre infuriava la rivolta del ghetto di Varsavia, i tedeschi, che occupavano il territorio sovietico, scoprirono nella foresta di Katyń, nei pressi di Smoleńsk, delle fosse comuni con i corpi di 4.500 ufficiali e soldati polacchi, uccisi ognuno con un colpo alla nuca. Dall’analisi dei cadaveri emerse che erano stati uccisi nella primavera del 1940 (quando quel territorio era sotto il controllo sovietico). Tra gli ufficiali polacchi uccisi c’era anche l’ufficiale di cavalleria padre di Wajda, che, assieme alla madre, ignorò per molti anni la verità, sperando in un miracolo e poi dovette nascondere per decenni questo “macchia familiare” per non rischiare la propria carriera. Il suo film è una dolorosa resa dei conti con queste contraddizioni, e drammi, personali e collettivi, ma anche un ristabilimento oggettivo della verità dei fatti. Una ricostruzione impietosa di un massacro per troppi anni occultato e dell’ostinazione di un popolo che caparbiamente ha lottato per il ristabilimento della verità e per dare delle tombe a quei morti innocenti (particolarmente forti, nel film, sono le figure di coraggiose donne-Antigoni) e che è chiamato a rivivere quella tragedia, nell’ultimo quarto d’ora del film, attraverso le terribili immagini dell’ impietosa e meccanica ripetizione delle esecuzioni, come in una fredda sala di un macello.

L’altro film, L’uomo della speranza, è dedicato al fondatore di “Solidarność” Lech Wałęsa. Un film bello e niente affatto retorico, a volte persino assai ironico, basato su un sapiente montaggio di spezzoni documentari d’epoca e ricostruzioni girate oggi con gli stessi personaggi. L’ossatura del film ruota attorno all’intervista che Oriana Fallaci fece, recandosi apposta a Danzica, a Wałęsa, pochi giorni prima del colpo di stato militare del 12 dicembre 1981. Incalzato dalle domande, anche molto irriverenti, Wałęsa finì con l’aprirsi e, come nel film (la sceneggiatura è dello scrittore Janusz Głowacki), mostrò anche lati più privati della sua figura. Wałęsa, come si vede bene anche nel film, fu uno che subì violenze fisiche, umiliazioni e ricatti (Wajda non tace nemmeno sul controverso episodio di quando, agli inizi, richiuso per l’ennesima volta in prigione, Wałęsa accettò di firmare un foglio che lo chiamava a collaborare con la polizia), ma mantenne sempre la schiena dritta, aiutato da una solida fede religiosa e dall’ostinata convinzione che, avendo ragione, prima o poi lui e i suoi operai avrebbero vinto. Spicca nel film la forte figura di sua moglie Danuta, madre di sei figli, disperata per la loro situazione economica e famigliare, ma sempre accanto a lui, anche quando non lo capiva. Il racconto si ferma al 1989: il momento della vittoria, quando il regime comunista accettò di discutere del futuro della Polonia attorno a una “tavola rotonda”. Nel film non si vede la fase successiva dove Wałęsa, divenuto addirittura Presidente della Repubblica polacca, non si dimostrò del tutto capace di coprire quel ruolo istituzionale così diverso e lontano da quello che aveva interpretato nei Cantieri di Danzica.

Ricordo una delle nostre chiacchierate quando, alla fine di maggio del 1988, l’Università di Bologna, tra sbuffi di ermellino, mantelle color menta e cilindri appartenenti a teste assai più larghe, conferì al cinquantanovenne Wajda la laurea honoris causa in Lettere. Nel discorso di ringraziamento il regista polacco accusò l’Occidente di dimenticare che l’Europa non si ferma al muro di Berlino “dove si ergono barriere di filo spinato e Cerberi al guinzaglio abbaiano spaventosamente a ogni alba, quando si spengono i riflettori che sorvegliano la cosiddetta frontiera della pace”. Togliendosi gli occhiali e dando alla sua voce un tono di fierezza, ribadì che “l’Europa, nella nostra coscienza polacca, esiste come unità spirituale che, attraverso i secoli, è stata creata e cementata dai suoi grandi scienziati, scrittori e artisti”. Disse che Dostoevskij aveva pronosticato l’arrivo di un tempo in cui l’inizio sarebbe stato la totale derisione di tutto e concluse citando una frase di Antonio Labriola: “La libertà di parola non consiste nella libertà di tacere”.

Oltre al discorso di ringraziamento, Wajda si era preparato anche una lezione sul suo autore preferito: Fëdor M. Dostoevskij. Ma non gliela fecero tenere, sostenendo che quello che aveva detto era più che sufficiente. Così lo scrittore russo divenne il protagonista di un suo monologo mentre passeggiavamo sotto i portici di Bologna, tra scrosci d’acqua da una parte e file di manifesti annuncianti la visita del Papa, ritoccati nei modi più volgari, dall’altra. Ogni tanto ci fermavamo per dar modo a Wajda di cavar di tasca il suo inseparabile quadernetto e disegnare. E io ne approfittavo per trascrivere il più velocemente possibile, sul mio bloc-notes a quadretti, quello che lui aveva detto.

Infervorato a parlare di Dostoevskij e dei suoi spettacoli teatrali (del film I demoni, uscito allora a Parigi, e accolto assai freddamente, non volle dire niente), Wajda disse una cosa che sembrava contraddire quanto aveva sostenuto in precedenza e dimostava la complessità del suo rapporto con lo scrittore russo: “Nel suo libro su Dostoevskij, Mackiewicz si chiede perché egli sia uno scrittore più europeo degli altri, pur essendo il più russo. Sono d’accordo con la sua risposta, credo che questa sia la chiave: perché i suoi romanzi, molti dei quali cominciano con un motto evangelico, in quei casi rappresentano il tentativo di costruire storie di quell’idea tratta dai Vangeli. Questo legame di Dostoevskij con i Vangeli ce lo rende attuale”…

Come tutti i polacchi, Wajda aveva un rapporto controverso con Dostoevskij: “Anzitutto perché è russo. Ho molti amici laggiù, ma non posso dimenticare, ad esempio, che mio padre, ufficiale di carriera, fu assassinato nella primavera del 1940, a Katyn, assieme ad altri quattromila prigionieri polacchi, dalle forze di sicurezza sovietiche. Poi, perchè parla sempre male e con disprezzo dei polacchi (e i polacchi sono suscettibili!)”.

Nello scontro tra i polacchi e i russi, come nel caso dell’ultima tragica insurrezzione del 1863, Dostoevskij vedeva infatti “la guerra tra due cristianesimi, l’inizio della futura guerra tra l’ortodossia e il cattolicesimo o, in altre parole, tra il genio slavo e la civiltà europea”. Ci è lontano, diceva Wajda, perchè non è legato all’Europa come noi polacchi. Non a caso Milan Kundera, quando, a Praga, gli proposero di scrivere sotto pseudonimo un adattamento dell’Idiota, disse che avrebbe preferito morire di fame piuttosto che mettere mano a quest’opera di gesti eccessivi, di profondità putride, di una sentimentalità aggressiva, dove i sentimenti acquistano un valore assoluto. E per protesta si rimise a leggere Jacques le fataliste di Diderot. Però Wajda riteneva che la grandezza di Dostoevskij consisteva proprio nel non lasciare indifferenti: o lo si ama o lo si deve odiare. E, tutto sommato, lui lo amava molto. Glielo fece conoscere, negli anni cinquanta, un “giovane scrittore arrabbiato” polacco: Marek Hłasko –autore, tra l’altro, della bella raccolta di racconti L’ottavo giorno della settimana (Einaudi 1959), che morì suicida in Germania nel 1969. “Marek sapeva quasi tutti I demoni a memoria. Mi propose di farne una riduzione, magari per il teatro. Ma non riuscivo a raccapezzarmi tra tutti quei personaggi. Per fortuna mi capitò tra le mani una lettera di Dostoevskij a una certa signora Obelonskaja che voleva fare un adattamento de I fratelli Karmazov, dove egli le consigliava di scegliere qualche frammento, qualche idea, qualche personaggio, e su questi costruire una nuova opera. Questa è l’unica strada che può aver successo. Non ce n’è un’altra. E l’adattamento di Camus mi sembrò esser fatto secondo questo spirito. C’è inoltre un altro aspetto che autorizza il suo trasferimento sulle scene: Doestoevskij è il teatro. Per lui, infatti, l’essenza dell’uomo è la menzogna. E il mestiere dell’attore è una continua menzogna. Inoltre Dostoevskij è dialogo, discussione. Il teatro è ormai l’ultimo luogo dove la gente ascolta i dialoghi e attraverso il dialogo con gli attori crea un magico senso di comunità”.

Wajda mise in scena, a varie riprese, per il Teatr Stary di Cracovia: I demoni, Delitto e castigo (“di tutte le regie che avevo visto mi era sembrato che i registi si fossero sempre concentrati sul delitto e non avessero lasciato alcun spazio al castigo. Il castigo, invece, inizia nello stesso momento del delitto”), e L’idiota.

A Dostoevskij è legato il suo capolavoro come regista teatrale: uno spettacolo intitolato Nastazja Filipowna (1977), tratto dall’ultimo capitolo dell’ Idiota (che, nel 1994, Wajda traspose anche per il cinema: Nastazja, con l’attore giapponese Tamasaburo Bando). Wajda allestì una semplice scena dove i due protagonisti, il principe Myškin e Parfen Rogožin si incontrano sul cadavere di Nastas'ja/Nastazja. Due attori soltanto (i bravissimi Nowicki e Radziwiłowicz), una candela, un’icona, una vecchia scrivania, due sedie. Gli attori recitavano, improvvisando varie parti del romanzo, assemblando le frasi come sotto l’effetto di una scossa elettrica, rischiarati soltanto dalla candela davanti a un’icona: un piccolo segno luminoso che stava a ricordare l’esistenza di una, seppur flebile speranza, un’alternativa al male e, allo stesso tempo, mostrava la sua buia potenza.

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

18 ottobre 2016

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