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Il Giusto quotidiano che può salvare il mondo

di Salvatore Natoli

Salvatore Natoli al Teatro Franco Parenti

Salvatore Natoli al Teatro Franco Parenti

Pubblichiamo di seguito la trascrizione dell’intervento del filosofo Salvatore Natoli alla presentazione del nuovo libro di Gabriele Nissim, “Il bene possibile” (Utet), lo scorso 21 maggio al Tetro Franco Parenti di Milano.

Per me la ricerca e il colloquio sui Giusti risalgono a una data antichissima. Parlo di queste cose con Gabriele Nissim da prima ancora del suo primo libro. Da parte mia, c’è non solo un’attenzione all’importanza dell’argomento, ma anche una relazione d’amicizia. Essa è la prima modalità d’incontrare un volto e quella più profonda - prima e ultima perché anche la più intensa. A questo proposito, il Paradosso di Montaigne diceva che nell’amicizia “il rispecchiamento è tale che può essere amico solo uno”. Questa profonda affermazione diventa poi sbagliata per il fatto stesso che noi siamo molti, e l’amico non può essere uno perché, in ragione della nostra complessità, ognuno rivela a noi una dimensione di noi stessi sconosciuta. È importante affrontare l’idea del rispecchiamento, dell’incontro, nel momento in cui si parla di Giusti, che rappresentano l’amicizia del genere umano.

Partirò, con queste mie considerazioni, dal titolo del libro “Il Bene possibile”, che sembra essere chiaro ma apre immediatamente una riflessione complessa. Per due ragioni. Intanto perché c’è la parola Bene, e, come diceva correttamente Massimo Recalcati, il Bene è un’astrazione. Posto nel titolo non è un chiarimento, è un problema, è un indirizzo; esiste qualcosa che noi chiamiamo Bene, ma tende ad essere astratto. Nel libro si parla invece del Bene in una forma diversa, quella della bontà, che è un’azione. L’uomo buono compie atti di bontà, quindi essa è sempre individuata, non può mai essere astratta. Il Bene può essere un’idea, mentre la bontà no, essa è sempre un atto. L’altra problematica dimensione del titolo è la parola “possibile”. Quando diciamo possibile, possiamo dare di questo termine un’interpretazione riduttiva. “Il Bene possibile” può essere inteso come “non posso fare di più”, “non posso fare di meglio”. I Giusti che hanno agito invece hanno fatto proprio di più, non si sono limitati a dire “questa condizione non me lo consente”.

La dimensione della bontà è traboccante e, particolarmente, emerge laddove è più alto il bisogno. Dove l’istanza di bontà più profondamente si manifesta, lì più alto è il bisogno. La bontà viene richiamata, ancora di più nella condizione estrema, perché è lì che bisogna fare di più. “Il possibile” quindi sconfina: dov’è il limite del possibile? È l’istanza del momento che definisce la possibilità, è l’urgenza del momento, è, detto in termini più profondi, “la chiamata”. Il Giusto risponde a un’impellenza.

Permettetemi una considerazione, riprendendo quello che è stato detto da Recalcati e di cui in altre occasioni ho parlato con Gabriele: il Male può essere perpetrato senza limiti soltanto in nome del Bene. Il Male assoluto può essere commesso perché il soggetto che si sente titolare del Bene non ha limiti nella realizzazione del Male.

È un atteggiamento in senso stretto gnostico: chi pensa di essere nel Bene dice “io sono la scintilla pura”, “io faccio pulizia”. Per questo il Male assoluto può esistere soltanto nell’intenzione delirante del soggetto che si sente titolare del Bene. Però, stranamente, e questo è l’aspetto che mi interessa di più, il Male assoluto non può mai esistere nella realtà. Esso è il delirio di colui che si crede nel giusto. Ma perché non può sussistere concretamente? Perché, per fortuna, fallisce. Se potesse esistere, avrebbe già vinto, ma noi siamo essere finiti, e per fortuna lo siamo anche nel Male.

Non abbiamo cioè la forza di produrne uno Male assoluto. E qual è la prova di questo? È che quando il Male giunge oltre una certa soglia, la Giustizia chiama, il Giusto nasce. Il Giusto è la prova vivente che il Male in re, nella realtà, non può essere assoluto, ma è solo il delirio di chi si crede Bene assoluto. I totalitarismi infatti sono falliti, dinanzi a un Male che ha alzato la soglia il Giusto ha reagito, perché per usare un’espressione di Adorno,“non sopportava che la vita venisse offesa”.

E qual è il criterio del Bene? Come lo riconosciamo? Ci dev’essere un discernimento, un’intelligenza del Bene, altrimenti il Giusto agirebbe per puro istinto, senza risultato, senza strategia. Ma come si fa a discernere il Bene? Lo si discerne quando si vede che la vita è in pericolo. Ci sono dei momenti in cui la vita offesa appare, nella punizione più tremenda, più atroce: i totalitarismi, i Gulag, il terrorismo. Questa minaccia però può avvenire anche nella quotidianità. Se un delirio può nascere è perché già nell’ogni giorno della vita i volti non si sono visti più. Ecco perché il Giusto, il vero Giusto, non può essere eletto neanche da coloro che ha salvato, perché essendo quotidiano non può essere conosciuto. Tuttavia, se esiste questo Giusto quotidiano non sorgerà mai l’ingiustizia.

Queste figure non sono testimoni, ma hanno creato testimoni, non hanno agito per dichiarare, ma perché c’era l’impellenza, la vita offesa, la chiamata. I salvati, e su questo ci sono pagine bellissime scritte da Gabriele, non sempre hanno testimoniato. Come nell’episodio dell’orologiaio di Varsavia, dove colui che aveva ricevuto il Bene, non testimoniò. È l’ingrato che non testimonia: se il Giusto si muove perché spinto dall’urgenza di una vita che ha bisogno di essere preservata, chi è salvato dovrebbe dire “lui mi ha salvato!”. Nelle situazioni estreme, dove i salvati sono tanti, è la dimensione estrema della situazione che rende noto il Giusto e la sua azione. Ma il Giusto dell’ogni giorno è sconosciuto, è la santità singolare, è il rispetto di ogni volto in ogni momento della vita. Se ciò sussiste, rappresenta l’antidoto preventivo perché non sorga un Male assoluto, tendenzialmente superbo. Il Male infatti, come dice la vecchia teologia, “nasce dall’atto di superbia”, che è l’autosufficienza del soggetto che tiene il mondo in balia del suo desiderio, di una dimensione perversa del desiderio, di per sé divorante. Io credo che il mondo stia in piedi, nonostante tutto perché ci sono i Giusti quotidiani che noi non conosceremo mai.

A questo punto, tornando al “di più”, la cosa importante è che la dimensione del “possibile” si dilata, diventando “devo fare sempre di più” nella donazione di sé agli altri. Essa non può essere però l’amore del prossimo, formula tardiva e contraddittoria. “Ama il prossimo come te stesso” è impossibile, perché se io amo interamente me non posso amare mai completamente il prossimo. Nella versione giudaica l’espressione non è questa, ma “fai per l’altro quello che vorresti fare per te”. Al centro non c’è l’astrazione dell’amore, c’è l’azione, c’è la bontà.

Ho trovato un’espressione per capire che cosa sia il Giusto. Non è l’uomo perfetto, ha i suoi vizi, le sue piccole ambizioni, però ci sono dei momenti in cui la vita offesa lo chiama. Nella Genesi, poi ripresa da Ezechiele, c’è questa frase: “al giusto sarà accreditata la sua giustizia”: questo è il titolo del libro di Nissim. È l’accreditamento della Giustizia a un’azione giusta. Non sapremo mai se una persona è Giusta, ma l’atto l’accredita a Giustizia.

La Giustizia giudica, e riconosce che la vita è minacciata, ma facendo questo tende alla condanna. Il giudizio tende alla condanna. Nella Bibbia la Giustizia non è mai degli uomini ma è solo di Dio. Nel giudaismo l’atto di Giustizia di Dio è la Giustizia che salva, non che condanna. È vero che per salvare bisogna riconoscere il Male, ma l’atto primario consiste nel giudicare il Male, identificarlo come tale, e salvare sia la vittima che il carnefice.

La cosa importante è salvare il carnefice, perché solo così si estirpa la dimensione sacrificale dalla vita - insegnando per primo a lui, che ha bisogno di essere salvato. Se tutti pensiamo così, la giustizia quotidiana, forse, è quella che meglio può salvare il mondo, ed ecco perché è giusto che queste cose siano raccontate nelle scuole. Anche se non è detto che sortiscano effetto, perché, purtroppo, il Male, per usare un’espressione biblica, “è accovacciato accanto a te”. Questo ci dev’essere d’indirizzo per una saggia prudenza, per una finitezza nella stessa realizzazione del Bene. L’humilitas, in fondo, altro non è che questo. 

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