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Ma forse un dio

di Alberto Cavanna Cairo. Milano, 2018

Questo di Cavanna è il secondo romanzo storico dedicato dall’autore alla Liguria di Levante, alla terra che abita, al mare della sua vita e al dolore che abita la storia di uomini e soprattutto delle donne che nella tragedia umana trovano la determinazione per affrontare e superare il male. Se l’esergo de Il dolore del mare, pubblicato da Nutrimenti nel 2016, era il verso di Euripide Il mare guarisce tutti i mali degli uomini (v.1193 Ifigenia in Tauride) ora la fonte del titolo del romanzo dedicato Alle donne. Alle loro lacrime, è Erodoto (Storie, I, 87). Ma forse a un dio piacque che queste cose andassero così. Nel primo romanzo erano la guerra e l’educazione fascista a sconvolgere l’equilibrio secolare della dura vita delle donne che abitano Palmaria come se la storia politica non si desse. In questo romanzo Alberto Cavanna ha il merito di far entrare nella narrativa italiana l’epopea della Porta di Sion che furono la città e il porto di La Spezia dalla fine del 1945 al 1948. Qui vennero allestiti dagli ingegneri Mario Pavia e Gualtiero Morpurgo le navi che riuscirono a far raggiungere la terra d’Israele a circa ventun mila ebrei sopravvissuti alla Shoah. Gli ingegneri e le maestranze navali locali realizzarono la trasformazione di pescherecci con scafi di legno e di battelli mercantili in imbarcazioni passeggeri. La mente e il cuore della gestione organizzativa dell'operazione furono Ada Ascarelli Sereni, (moglie di Enzo, eroe di Israele, ucciso a Dachau dopo essere stato paracadutato nell'Italia settentrionale come ufficiale inglese per dare aiuto alla Resistenza) e Yehuda Arazi, Abbà nel romanzo. Essi furono i responsabili in Italia del Mossad le Aliyad Bet (sezione del servizio segreto ebraico che aveva il compito del trasferimento illegale di Ebrei dall’Europa alla Palestina allora sotto mandato inglese). Su questa vicenda è ora allestita presso il Memoriale della Shoah di Milano la mostra Navi della speranza Aliya Bet dall’Italia 1945-48, aperta fino a giugno 2018.

I riferimenti storici del romanzo sono ineccepibili e l’intreccio delle vicende a capitoli alterni dedica attenzione alla trasformazione e alla rinascita dei due protagonisti che la povertà e la guerra fanno incontrare con una casualità insondabile, ma che forse un dio governa. Ettore Sbarra, è il giovanissimo rozzo, figlio di contadini della località Pino di Fornoli, frazione di Bagni di Lucca in Lunigiana e Anna Della Seta è invece figlia di proletari di origine ebraica che in cerca di lavoro si trasferiscono da Reggio Emilia a La Spezia, la città dell’arsenale che dà un lavoro stabile e stimato al padre operaio specializzato. Il primo fugge dalla subordinazione atavica della famiglia e della fatica contadina aderendo, prima senza scelta alla Gioventù del Littorio, e in seguito come volontario appena diciottenne in rottura con la famiglia al Milmart la contraerea che difendeva la base navale italiana nel 1941 e poi, dopo l’8 settembre nella Decima Mas. Anna invece è diligente alunna delle scuole di Stato fino alle leggi razziali che la espellono dalle scuole del Regno come riducono il padre dalla stimata condizione di operaio specializzato a quella di lavoratore emarginato e illegale nel sottobosco delle imprese metalmeccaniche spezzine. Il destino sembra fare del primo un criminale di guerra e della seconda una vittima designata della persecuzione razziale. Invece nei momenti cruciali degli incroci di queste vite entrambi saranno, reciprocamente giusti o prossimi l’uno per l’altra e l’altra per il primo. La trama non si snoda come una melensa telenovela, ma sa usare nel parlato dei personaggi, la rude spontaneità dei rispettivi dialetti e nella descrizione dei bombardamenti, della persecuzione, della deportazione e dello sterminio una stringente essenziale durezza che mantiene tragico il genere, anche se l’esito dell’improbabile intreccio di queste vite non è infausto.

Il cattivo destinato sa essere salvatore. La vittima designata sa essere redentrice. Il mutamento interiore e la dialettica della relazione costringe il lettore a riflettere sui pregiudizi a buon mercato, sulla complessità opaca degli avvenimenti che esige una riparazione di lungo periodo sul male compiuto, ma non seppellisce nella morte l’assassino. Camminando, s’apre cammino, navigando si aprono nuove rotte anche di vecchi navigli riattati a navi della speranza. Né le cose, né le persone sono del tutto quelle che crediamo, che definiamo, che usiamo per scopi che possono mutare, che possono divenire nobili ed esigenti. Anche il dono delle lacrime che sgorgheranno dagli occhi scuri di Anna diraderà la nebbia che avvolge la vista e la memoria di chi nei campi di sterminio è stato testimone dell’umanamente non vedibile e non dicibile. Effetto di un abbraccio che apre a nuova vita, che fende le acque scure solcate dalla nave che dirige verso Israele. “E quel mare di primavera si sciolse nella spuma delle onde, divenne rugiada, salì alle nubi e si trasformò in una pioggia leggera che dal cielo scese sulla terra a fecondare il suolo ancora arato dalle bombe e intriso di sangue.” (p.249) Con occhi aperti sull’orizzonte del Giovanni Maria, il battello che effettivamente trasferì un migliaio di ebrei dal 2 al 24.9.1947 da La Spezia fino alle sponde palestinesi e, intercettato da un cacciatorpediniere inglese fino a Cipro, come testimonia oggi un marinaio italiano dell’equipaggio (http://moked.it/blog/2009/05/22/mario-giacometti-marinaio-del-dopoguerra-e-limmigrazione-clandestina/), si chiude il romanzo. 

Carlo Sala, Commissione educazione Gariwo

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