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I fiori dell'oleandro

di Nando Dalla Chiesa Ed. Melampo, 2014

Ulianova Radice, direttore di Gariwo, ha rivolto alcune domande a Nando dalla Chiesa in forma di conversazione sul suo nuovo libro I fiori dell’oleandro. Donne che fanno più bella l’Italia (Melampo, Milano, 2014), in cui vengono tracciati i profili di 58 donne, scelti dalla rubrica che ogni domenica l’autore, docente alla facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano, tiene su Il Fatto quotidiano.

Sono storie sconosciute che potremmo definire di “ordinario impegno civile”. Storie che in realtà non hanno nulla di ordinario e molto di straordinario, come sottolinea lo stesso dalla Chiesa, ricordando che le protagoniste non si considerano di particolare eccellenza e rimangono sorprese dell’interesse dimostrato nei loro confronti, mentre in realtà fanno parte di quella minoranza che sa proiettarsi positivamente sul futuro e agire coerentemente con questa visione. Una minoranza che permette all’Italia di rappresentarsi in modo meno avvilente, richiamando la metaforica bellezza dell’oleandro, con il suo colore sgargiante e il profumo inebriante di una speranza.

Nello spiegare il perché di questa raccolta di microstorie al femminile, tu ti richiami alla piega sempre più negativa che ha preso l’informazione come strumento mercificato, volto esclusivamente alla vendita del prodotto, dove è stato smarrito il senso più profondo del ruolo del giornalista, la ricerca della verità e la funzione sociale di contributo alla crescita civile del Paese.
Quindi sembri evocare  una forma di controinformazione: raccontare storie individuali come spaccato positivo della realtà sociale e culturale, anche nel senso della capacità di assunzione di una responsabilità personale. Una sorta di antidoto alla deriva “scandalistica”, la dimostrazione che si può fare buona informazione parlando del Bene, di cose positive.
Possiamo dire che è questo il senso più profondo del libro, o almeno uno dei principali obiettivi?


Diciamo che c’è una doppia valenza nella mia scelta di scrivere di queste cose su un giornale che costruisce la sua forza sulla denuncia delle cose negative come il Fatto quotidiano, la scelta di creare uno spazio in cui si dimostri che il giornalismo libero, intelligente è sia quello capace di fare le denunce che altri non fanno, sia quello capace di vedere le cose positive che altri non vedono e trasformarle in notizia.
In questo senso sì, potremmo dire che si tratta di una singolare forma di controinformazione, perché la controinformazione normalmente viene intesa come la capacità di scoprire gli scandali, di entrare nelle stanze segrete del potere, di tirar fuori quello che c’è negli armadi, nei cassetti. Invece qui si tratta di una controinformazione che consiste nel tirar fuori quello che possono vedere alla luce del sole tutti i giorni persone non potenti, e offrirlo – perché è vero che in questo modo si va contro le mode e le logiche correnti dell’informazione.

Quindi possiamo chiamarla una sorta di informazione controcorrente, e tu la fai su Il Fatto quotidiano.

Sì, proprio così.

Nell’introduzione metti in evidenza il legame con il ruolo di quelle minoranze che hanno funzione positiva di anticipazione, di visione costruttiva, migliorativa sul futuro. E che si distinguono dall’omologazione dilagante presente nelle maggioranze. Mi viene in mente l’autonomia di pensiero, l’indipendenza di giudizio, che è alla base dell’azione dei Giusti, di cui ci occupiamo con Gariwo. Non a caso nel libro ci hai dedicato una lunga nota, di cui ti ringrazio.
Ma qui mi interessa sottolineare l’approccio originale che utilizzi in questa analisi, un passo del tuo discorso che va più in là, che mi è apparso intrigante e  potente: l’aspetto femminile. Qui tu metti ben in evidenza il peso che portano le donne, quello di una doppia minoranza, sia in quanto portatrici di quella capacità visionaria rara, sia per la loro condizione di emarginazione nei meccanismi decisionali del potere.
Possiamo affermare che, proprio per questo, il futuro o è donna o non c’è?


Intanto è già da un paio di anni che dico che l’antimafia è donna, pensando che la mafia è l’universo maschile - maschilista -  per definizione e chi si ribella si ribella a due cose: una più grande e una che però la cementa e la alimenta ideologicamente. Le donne si oppongono anche al maschilismo del potere mafioso. Mi ha soprattutto colpito, di questi protagonisti che io cerco e trovo, che incontro per questo nella mia vita, che le donne sono quelle più impressionate dal fatto che vorresti scrivere di loro. “Perché dovresti scrivere di me? Cosa ho fatto di importante”, quasi che assumessero su di sé una convenzione sociale, secondo la quale il loro lavoro, come semplice lavoro di cura non è importante, mentre mi sembra di poter dire che quelle che lavorano nelle scuole, nelle biblioteche o nel volontariato, in realtà sì, compiono proprio un lavoro di cura, ed è  la cosa importante.

Questo affermare “non faccio niente di speciale, faccio una cosa normale” mi fa venire in mente molti dei Giusti che noi incontriamo, che dicono sempre “io non ho fatto niente di particolare, ho fatto solo il mio dovere”, quando in realtà questo dovere è un valore aggiunto.
Rispetto a quello che stavi dicendo sul ruolo delle donne contro le mafie, c’è una continuità con alcuni tuoi libri precedenti dedicati a donne, tu stesso lo ricordi. In particolare con Le ribelli e Al nostro posto. Donne che resistono alle mafie.
Ne I fiori dell’oleandro allarghi l’orizzonte e ti rivolgi a mondi più variegati, spaziando dalla scienza alla fabbrica, ma alla fine la tua riflessione ritorna non a caso sul rapporto tra donne e mafia, con una conclusione che è anche una metafora: l’antimafia è donna. Una metafora che prevede un significato allargato su parole chiave come legalità, giustizia, non violenza, difesa dei più deboli.
Quindi un altro modo originale di guardare al tema del Bene dal punto di vista dell’universo femminile.
Considerando la forza di queste figure femminili intorno al tema dell’antimafia, mi sembra che sarebbe di grande valore simbolico iniziare proprio da loro nel dedicare degli alberi nei Giardini dei Giusti a chi si è opposto al dominio mafioso. Cosa ne pensi?


Certo, avrebbe un grande significato! Il fatto è che molti dei caduti contro la mafia hanno vissuto anni e anni di delegittimazione, di attacchi, di privazione, consapevoli, tra l’altro, alla fine, di ciò a cui andavano incontro. Nell’impegno della donna a volte troviamo anche questo, ma in aggiunta vi è un’altra forma di isolamento - si può dire che c’è un doppio isolamento - rispetto alla società, sia per il fatto di ribellarsi alla mafia, sia per la propria condizione femminile in questa ribellione. La mamma di Peppino Impastato scoprì, dopo che suo figlio era stato ucciso, di essere l’unica a portare i simboli del lutto: pensa quale forma tremenda di isolamento anche privato ha dovuto subire, in aggiunta al proprio dolore! Credo quindi che sia giusto scavare in questa direzione, senza togliere nulla ai martiri ed eroi protagonisti delle grandi battaglie contro la mafia. 

Quella delle donne è una forma di progetto, di partecipazione, di ribellione, che spesso non viene considerata nel suo valore obiettivo. Ci sono oggi donne di potere, imprenditrici, magistrati, stiliste, che emergono e si impongono per le loro qualità, ma poi ci sono le donne normali, che non fanno carriera, che continuano ad essere sottovalutate ed emarginate come prima. Sono loro che meritano innanzitutto il nostro appoggio.

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