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La gabbia d’oro. Tre fratelli nell’incubo della rivoluzione iraniana

di Shirin Ebadi BUR Rizzoli, 2008

Come specificato nel sottotitolo, il libro narra in forma romanzata la storia di una famiglia iraniana stravolta dalla rivoluzione islamica, la cui unica superstite è la migliore amica dell’autrice. La vicenda familiare narrata è di fatto la medesima di molte famiglie iraniane, che sono state sconvolte, distrutte o disperse dall’avvento del governo teocratico degli ayatollah. Il romanzo pertanto, come specificato nell’ultimo capitolo, è il mezzo scelto da Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace nel 2003, per dar voce ai soprusi, alle vessazioni, alle incarcerazioni, alle torture e agli assassinii perpetrati, e sempre negati, per anni dal regime islamico dell’Iran sulla sua popolazione.

Al di là della vicenda, che iniziando in un clima sereno e rilassato diventa via via più tesa e cruenta in una escalation di orrore, due aspetti vengono messi in luce dall’autrice come spunti di riflessione. Il primo è il concetto, espresso nel titolo, di “gabbia d’oro”, ovvero quella forma di chiusura all’interno della quale qualsiasi ideologia getta chiunque ne sia sottomesso. L’ideologia, infatti, di qualunque tipo essa sia – religiosa, politica, ma anche etica – si presenta come un rifugio sicuro, dorato appunto, che come una gabbia permette di vedere e udire quanto succede all’esterno, ma lasciandolo fuori, come qualcosa di estraneo, che non tocca chi è all’interno. Perché sottomettersi a un’ideologia è come vivere in una gabbia comoda, senza preoccupazioni né rischi, senza porsi domande su quanto avviene realmente nel mondo. La gabbia dorata è sicura e certa, così come l’ideologia ci dà certezze, ci dice cosa fare, in cosa credere, cosa è bene e cosa è male. Ci permette di sopravvivere, ma annulla il pensiero critico, la coscienza, la condivisione: elimina tutto ciò che ci rende umani, trasformandoci in burattini. I tre fratelli soccombono ciascuno a una diversa ideologia (monarchia, islamismo, comunismo), ma anche la Ebadi si rende conto di essere sul punto di scivolare nell’ideologia della giustizia e del patriottismo ad ogni costo, quando arriva a condannare l’amica che rinuncia a lottare e emigra all’estero. E qui si arriva al secondo spunto di riflessione: il dolore dell’emigrazione. Tema quanto mai attuale, la migrazione all’estero spesso viene considerata una soluzione di comodo, e il migrante viene visto come una persona pigra, pusillanime, che piuttosto che rimanere nel proprio paese a combattere le difficoltà, preferisce la strada più semplice dell’espatrio. Shirin Ebadi descrive magistralmente invece lo strazio della sua amica Parì (che sarà poi il suo medesimo strazio quando ella stessa poco dopo verrà costretta a lasciare l’Iran) a Londra, lontana dalla propria terra, dagli amici e dai ricordi, così come quello del fratello maggiore, confinato negli Stati Uniti.

Abbandonare il proprio paese perché ci si rifiuta di entrare in una gabbia dorata e si preferisce vivere ed essere liberi è uno degli eventi più tragici e duri da sopportare per un essere umano: forse è il caso di tenerlo ben presente, prima di considerare gli immigrati degli invasori.

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