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​Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione

di Donatella Di Cesare Bollati Boringhieri, 2017

Proponendosi come tentativo di introdurre nel dibattito filosofico il tema della migrazione, mai prima trattato o trattato in modo marginale, Donatella Di Cesare ci consegna un testo a tratti spiazzante, complesso ma sempre interessante. Chi affrontasse questo libro con l’intenzione di trovarvi soluzioni o proposte relative al modo di governare il fenomeno della migrazione nel mondo d’oggi, rimarrebbe oltremodo deluso. La cosa risulta chiara fin dalla prefazione: le domande su “come governare i flussi” si inscrivono in una politica che pretenderebbe di essere pragmatica, ma che “risponde solo alla logica immunitaria dell’esclusione“.

Destinatari del suo discorso non possono essere né coloro che devono sovrintendere al controllo dei flussi migratori, in quanto soggetti ad una “logica immunitaria”, né coloro che si irrigidiscono nei limiti dei propri stereotipi, in quanto incapaci di senso critico. Tutti gli altri possono ritenersi potenziali interlocutori della filosofa, a patto che siano provvisti di curiosità intellettuale e non siano troppo affezionati ai propri preconcetti sostenendo la fatica del pensiero e dimostrando apertura mentale.

Lo scopo di questo libro, infatti, mi sembra quello di rendere il lettore consapevole di come vada correttamente impostato il problema attualissimo del rapporto fra gli stranieri che premono sui confini degli Stati benestanti e i residenti. Nulla deve essere dato per scontato, qualunque convinzione preconcetta va sottoposta al vaglio della riflessione critica. La Di Cesare affida la sua elaborazione teorica alla capacità del lettore di assumere come propri alcuni punti cardine dai quali partire per impostare un corretto approccio alla questione.

Per elencarne solo alcuni: non dare per scontato che nascere su un territorio significhi esserne il proprietario, esaminare natura, limiti e contraddizioni dello Stato moderno, scandagliare la nozione di “straniero” e raffrontarla con quella di “autoctono”, gettare luce sulla formazione del sé correlata all’origine o alle radici nel territorio, riflettere sui contributi filosofici alla nozione di “abitare”, a partire da Martin Heidegger e Hannah Arendt. Questi ed altri nuclei tematici costituiscono le diverse tessere di un mosaico che si compone in unità grazie alla presenza di un “fil rouge” che attraversa tutto il discorso. Gran parte dei registri linguistici vengono utilizzati a questo scopo: da quello narrativo a quello speculativo, da quello a tratti poetico a quello giornalistico, per affrontare il problema da diverse, spesso sorprendenti, angolature di ordine storico, filosofico, sociale, mitico, religioso, esistenziale, esegetico, etimologico, perfino cronachistico, tutte afferenti al tema degli “stranieri residenti”. Il “fil rouge” a cui faccio riferimento si rintraccia nella centralità assegnata alla condizione umana, ai suoi requisiti, il suo senso e i suoi limiti. Potrà sembrare strano che da un discorso sulla migrazione si passi ad un ordine del discorso più generale, di carattere squisitamente filosofico, ma, a ben riflettere, è proprio nell’intuizione che la condizione del migrare non è un’occasionale attributo della condizione umana, bensì un suo costitutivo modo di essere, che consiste l’originalità di questo approccio. È pur vero che alla condizione degli esseri umani come “viandanti” si alluda sia nella storia della letteratura sia nella storia della filosofia sia in molte religioni, ma solo con questo libro viene istituita una connessione fra la migrazione, intesa come tematica caratterizzante la nostra epoca, e l’essenza profonda della condizione umana. Grazie a questo tipo di approccio si sottrae un argomento di tale rilevanza al chiacchiericcio giornalistico e alle superficiali diatribe dei salotti televisivi. Questo, almeno, se si vuole rimanere fedeli alla serietà del pensiero.

Ciò detto, risulta forse più chiaro il motivo per cui ciò che ci si può attendere da questo lavoro ha poco a che fare con le proposte contrastanti delle varie parti politiche sul modo di governare i flussi migratori e dei contrasti ideologici che vi sono sottesi. La sottrazione di cui parlavo sopra riguarda proprio l’intenzione dell’autrice di non partecipare a un rissa ideologica che vede coinvolte visioni del mondo che solo apparentemente sono incompatibili, ma che in realtà condividono un assunto di fondo che ne testimonia la subalternità ai meri dati di fatto. Questo assunto di fondo, causa di equivoci e contraddizioni, si può riassumere in poche semplici idee. La prima è che esista una fonte di legittimazione “naturale” che si chiama Stato, i cui cittadini stabiliscono una sorta di possesso del territorio all’interno di confini anch’essi “naturali”. Qui a venire sottoposti a dubbio sono i concetti di “possesso” e di “naturale” riferito allo Stato. Un’altra idea che la Di Cesare mette in questione è quella secondo cui l’identità di un individuo, che si forma nel radicamento in un preciso luogo, sia qualcosa di statico e definitivo. Una terza idea da respingere in linea di principio, secondo l’autrice, è che sia ovvio che i diritti di coloro che vivono all’interno di un territorio debbano fungere da criterio per stabilire chi, fra i non residenti, abbia diritto ad essere accolto e chi non abbia questo diritto. Come si vede, si tratta di una lotta senza quartiere ai luoghi comuni e alle certezze acquisite, lotta che talvolta può trovare il lettore spiazzato, qualche volta perplesso, ma mai indifferente.

Alla fine del percorso nella mente del lettore può emergere una domanda indiscreta, che è anche un dubbio e una possibilità: la condizione del migrante non appartiene costitutivamente a tutti gli esseri umani? Se guardiamo il problema sotto questa luce, forse si capisce meglio che cosa l’autrice intenda quando dice che la questione della migrazione deve essere affrontata dal punto di vista del migrante, deve partire dai non garantiti, dall’esterno dei recinti protettivi che le comunità nazionali hanno eretto a propria difesa. Difesa da che cosa? Dalla minaccia dello straniero, direbbe un sovranista. Non è di questo che si tratta, secondo Di Cesare, perché, al di là dei motivi politici, giuridici, economici e sociali addotti a giustificazione dell’esclusione dell’estraneo, si può dimostrare che la vera minaccia è data da una visone distorta della realtà, da una proiezione verso l’esterno di paure che dipendono unicamente dal nostro modo di concepire lo stare al mondo. A questo servono le riflessioni dei filosofi, a farci capire che lo stare al mondo non significa possedere un territorio, significa invece essere esposti al mutamento, significa accettare la provvisorietà dell’esistenza, ma significa anche non perdere l’orientamento in questa provvisorietà, tendere costantemente a una meta a cui ci si avvicina progressivamente ma che non può essere raggiunta definitivamente. La vera “patria” è quella che ogni essere umano porta in se stesso, nella propria interiorità, a partire anche da un territorio in cui si è nati ma non ridotta ad un mero dato spaziale. Si sentono in queste affermazioni le suggestioni di filosofi come Heidegger, Arendt, Levinas, Habermas, Derrida, per citarne solo alcuni, per altro debitamente citati dalla filosofa.

Nel capitolo conclusivo il discorso cerca di riprendere e portare alle loro logiche conseguenze i concetti precedentemente toccati. Si tratta di un capitolo composito, dove si giustappongono affreschi storici a fianco di argomentazioni filosofiche, racconti di cronaca a fianco di proposte “lato sensu” politiche, considerazioni geo-politiche accanto a riflessioni etiche. Tutto ruota intorno al concetto di “straniero residente”, che dà il titolo al libro. È in questo concetto che si condensa il messaggio e insieme la proposta dell’autrice. Secondo lei, dobbiamo assumere come nostra la figura dello straniero residente, farne il modello della convivenza del futuro. Questa figura rappresenta uno dei tre modi in cui si può realizzare la coabitazione, cioè la cittadinanza. In essa il diritto di cittadinanza non è fatto discendere dalla nascita, come invece avviene nel modello ateniese, né è legato all’appartenenza a un territorio, come avviene nel modello di Roma. La figura del “gher”, lo straniero residente, tipica della forma di convivenza realizzata nella Gerusalemme biblica, ci ricorda che “coabitare la terra impone l’obbligo permanente e irreversibile di coesistere con tutti coloro che, più o meno estranei, più o meno eterogenei, sulla terra hanno uguali diritti”.

Nella frase conclusiva si può scorgere il suggerimento di una direzione da prendere, più un’apertura utopistica verso il futuro che un abbozzo di programma politicamente realistico: “Lo straniero è residente, ma risiede restando separato dalla terra. Questo rapporto non identitario con la terra dischiude, nell’assunzione dell’estraneità, un coabitare che non si dà nel solco del radicamento, bensì nell’apertura di una cittadinanza svincolata dal possesso del territorio e di un‘ ospitalità che prelude già a un modo altro di essere nel mondo e a un altro ordine mondiale”.

Salvatore Pennisi, Commissione educazione Gariwo

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