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Il bambino nella neve

di Włodek Goldkorn Feltrinelli, 2016

La zia Nachcia, sua madre e la figlioletta Rut furono deportate assieme, ad Auschwitz. Nachcia teneva Rut tra le braccia. Quando scesero dal treno la madre capì tutto. Aveva un aspetto giovanile e dimostrava meno dei suoi anni. Così disse a Nachcia: “Dammi la bambina”. Pensava di farsi passare per la madre di Rut. “Va avanti da sola, ti salverai. Io vado con la bambina: penseranno che sia io la madre”. Nachcia rispose: “Non è un mondo degno di essere vissuto. Non è un mondo degno di me”. E andò nella camera a gas con Rut tra le braccia… Questo racconta il giornalista polacco-italiano Włodek Goldkorn, figlio di ebrei sopravvissuti alla Shoah, nel suo straordinario libro Il bambino nella neve (Feltrinelli).

Bisogna e si deve raccontare l’irracontabile. “La vendetta è il racconto”, sosteneva Pier Vincenzo Mengaldo, nel suo acuto libro (Bollati Boringhieri, 2007) dedicato alle testimonianze e riflessioni sulla Shoah: un evento che ci sovrasta ancora e ci mette di fronte, con Macbeth, a una storia “piena di frastuono e di furore, che non significa nulla”. Si ha a che fare con qualcosa che costituisce una rottura epistemologica e ontologica ed è l’assenza stessa della parola, della spiegazione, del perché. La Shoah, “uno strepito abitato dall’inumano”, non ha nulla di metafisico e non era l’inevitabile conclusione della storia. Non si può dare un senso a una morte che non ha avuto senso né ragione: una morte causata dall’irrimediabile idiozia dei carnefici convinti che annientando gli ebrei il mondo sarebbe stato migliore.

La Shoah, dice Goldkorn, è solo un vuoto. Cercare di riempirlo con presunti significati positivi e con un messaggio di speranza è peggio dell’angoscia: è il rifiuto di capire quanto il Male sia radicato dentro di noi. E allora, narrare cosa accadde non è soltanto una testimonianza, contro coloro che avrebbero voluto nascondere e cancellare i crimini, ma anche un doloroso sforzo di mostrare la controversa natura del Male, con la speranza, come diceva Primo Levi, di insegnare a riconoscerlo quando si dovesse ripresentare.

Oggi la gran parte dei sopravvissuti e dei testimoni diretti della Shoah è scomparsa. Ci sono i loro figli e nipoti, nati e cresciuti dopo, e un grande problema con la Memoria. Włodek Goldkorn che, essendo nato negli anni Cinquanta, appartiene alla “seconda generazione della Shoah” è convinto che “la memoria è solo il nulla su cui cerchiamo di strutturare la nostra identità. Ed è un bene che sia così. Altrimenti non avrei potuto vivere e amare le persone vive. Il desiderio ha come premessa l’oblio.” Goldkorn lavora spietatamente sulla memoria, tirandola a fatica fuori da sé, lottandoci contro, ma alla fine rendendola viva: “La memoria dei ghetti e dei campi teatro della Shoah non serve a niente se non a promuovere e difendere, ovunque e nel concreto, le istanze di emancipazione. È comodo pensare di essere vittime e poi pranzare in famiglia, leggere libri, scrivere sui giornali, fare viaggi esotici. Non sono vittima, ma soggetto della storia. Le vittime sono solo i morti. Noi, i viventi, dobbiamo essere giudicati per le nostre azioni, non per il passato dei nostri genitori o per il modo in cui morirono i nostri nonni, le nostre zie, i nostri cugini. (…) Per me la memoria della Shoah significa saper parlare e trasmettere agli altri il linguaggio della ribellione, della radicale contestazione delle verità del potere. Altrimenti quella memoria non esite: si riduce a un esercizio di vuota retorica, un cerimoniale che non serve a niente; a un rituale “mai più” che non dicve nulla a nessuno e niente può dire”. Questa è una novità: un passo oltre nella strada indicata da Primo Levi nel suo testamento I sommersi e i salvati (Einaudi, 1986).

Il messaggio radicale e innovativo del libro di Goldkorn non rinuncia però alla “vendetta del racconto”. Anzi, la narrazione di tante storie famigliari e collettive è tutt’uno con le profonde e tormentate riflessioni. Dalle une scaturiscono le altre, e viceversa. Il Goldkorn narratore fa appello a una memoria che è per molti versi tutta immaginazione. Egli fa i conti non soltanto con ciò che accadde ai suoi parenti (la nonna materna Taube, la zia Nacha, la cugina Rut, e Srulik e Yokheved, Róźka, Hela, Tola e il piccolo Uszerek furono uccisi ad Auschwitz), ma racconta anche: l’esilio in Kazakistan dei suoi genitori, durante la guerra; il loro ritorno in patria per costruire, nelle loro speranze, una Polonia socialista e rispettosa delle minoranze; i massacri degli ebrei sopravvissuti (“molti ebrei, finita la guerra, vennero uccisi per non dover restituire un piumone…”); l’impegno del padre per tenere viva la cultura yiddish e per far la guardia alle tombe dei propri parenti e del proprio popolo in terra polacca; la giovinezza nella città ex tedesca di Katowice, dove i figli degli ebrei e comunisti giocavano, invece che a guardie e ladri, “ad Auschwitz”; le delusioni politiche e il trasferimento della famiglia a Varsavia; la campagna antisemita del regime comunista nel 1968 e la decisione forzata dei Goldkorn di lasciare la propria patria e trasferirsi in Israele, attraverso Vienna; le difficoltà di ambientamento a Tel Aviv; il traumatico servizio militare (l’episodio del diverbio con l’ufficiale, alle pagine 110-113, è un grande pezzo di letteratura) e la fuga a Francoforte. Ma anche da lì Włodek se ne andrà presto (“la Germania non faceva per me”) per trasferirsi definitivamente in Italia: “pensai che se era condannato a non avere una casa, avrei vissuto nel paese più bello del mondo”.

Nel racconto è centrale la figura dei genitori, e un’idea particolarmente forte di famiglia. Come spiegò disperatamente il padre Goldkorn, durante la guerra e l’esilio in Unione sovietica, a un funzionario kazako che non voleva aiutarlo a salvare sua moglie gravemente ammalata: “Noi ebrei siamo gente strana, che voi kazaki non riuscite a comprendere. Per noi la famiglia è tutto. Per la famiglia siamo disposti a uccidere e morire”. Una famiglia che poi si rafforzerà nei suoi legami “perché quando il proprio mondo è scomparso rimangono soltanto gli affetti”. Un padre e una madre che a tavola parlavano sempre di politica e trasmettevano valori basati sul mettersi sempre nei panni dell’altro: “sono stato fortunato a crescere in una famiglia in cui il rancore, l’odio, l’idea di vendetta erano inconcepibili”. I genitori erano reticenti sulla Shoah e non raccontavano ai figli tutto quello era successo: “perché dire tutto avrebbe significato per i nostri genitori abbandonarsi al senso della vergogna. E la vergogna è il sentimento della morte. La vergogna è la morte senza lutto e quindi una memoria senza possibilità di oblio”. Una famiglia profondamente legata alla Polonia (almeno fino al 1968) che si identificava nella cultura e nella bandiera polacca ed era contraria agli ideali sionisti: “In israele abbiamo parenti e ci abitano gli ebrei, per cui è uno Stato che ci è caro, ma la nostra patria è la Polonia, e non abbiamo altra bandiera che quella polacca”.

Grazie anche a questa educazione, nonostante l’esilio, Goldkorn riscoprirà la Polonia: “Decisi di essere polacco pochi anni dopo che le autorità di quel paese mi privarono della cittadinanza. Lo decisi perché altrimenti, accettando la mia estraneità al mio paese natio, mi sarei rassegnato a essere vittima. Così feci quello che avrei fatto se fossi rimasto in Polonia: allacciai contatti con l’opposizione democratica e mi misi al servizio dei suoi militanti”. C’è sempre, in questa famiglia, la ferma volontà di non abbandonarsi alla vergogna e la dignità di non sentirsi, e apparire, vittime (forse, in questo atteggiamento, un po’ l’educazione comunista c’entra). Ma Goldkorn ha anche l’onestà di riconoscere la propria condizione, nonostante tutto, di “privilegiato”: “Sono emigrato in vagone letto, la mia vita in Occidente non è stata una storia di stenti né fame”. Eppure, su questo distacco, un dubbio aperto gli rimane. Alla fine si chiede: “Davvero non sono, non siamo, vittime? Davvero il ricordo di Auschwitz, la memoria della Shoah, l’esilio dalla Polonia non mi hanno reso vittima, malgrado tutti i miei sforzi?”.

Il bambino nella neve è un libro strano, difficilmente catalogabile (e infatti la casa editrice lo ha collocato nella collana “Varia”; io lo avrei inserito nei “Narratori”) . Strutturalmente è diviso in due parti diverse. La prima, il racconto autobiografico, potrebbe terminare a pagina 115 con l’arrivo dell’io narrante in Italia. Poi c’è, apparentemente, un intermezzo, assai importante per dare un senso al racconto di memoria e introdurre, con una chiave di lettura forte, quello che verrà dopo.

Proprio in Italia, Goldkorn racconta di aver sentito parlare per la prima volta dell’eroico comandante, sopravvissuto alla rivolta del ghetto di Varsavia (aprile 1943), Marek Edelman (del quale curerà il libro intervista, assieme a Rudi Assuntino: Il guardiano. Marek Edelman racconta, Sellerio 1998, 2016): “Fino ad allora i combattenti del ghetto di Varsavia facevano parte del mio immaginario, ma in quanto morti, eroicamente”. Edelman, che dopo la guerra è voluto rimanere in Polonia, facendo il cardiologo a Łódź, è stato il continuatore delle idee del Bund (il movimento socialista ebraico) e ha regalato la sua biografia e il prestigio che ne poteva derivare a chi lottava per un futuro migliore e per la libertà, in Polonia ma anche all’estero. Per Włodek Goldkorn è stato, con il suo esempio di vita e azione politica e con le sue affermazioni spiazzanti, un “maestro di vita”: colui che gli ha dato una chiave per affrontare il problema della memoria della Shoah e dell’ebraismo.

La seconda parte del libro è un viaggio, anche nel senso letterale del termine, ad Auschwitz e Birkenau, e in altri campi di sterminio in terra polacca (Bełżec, Sobibór, Treblinka), accompagnato dalla fotografa Neige De Benedetti (le cui foto aprono ogni capitolo del libro). Nel campo di sterminio di Birkenau diversi suoi famigliari “sono diventati in poche ore cenere e fumo”. Goldkorn ricorda che, nel 1964, suo padre, che faceva anche lui il giornalista, andò ad Auschwitz per seguire un sopralluogo dei giudici della Corte di Francoforte. Mentre camminnavano in mezzo al fango, vi scorse un libro di preghiere per donne. Lo prese e lo ripulì, e vide nella pagina aperta la preghiera dei morti. In quell’istante immaginò, anzi ebbe la certezza, che quel libro fosse appartenuto a sua madre, che pregava mentre veniva condotta alla camera a gas. Il trauma fu tale che svenne.

Il campo-museo di Auschwitz, ben diverso da Birkenau e dagli altri campi di sterminio che visita, pare a Goldkorn una “fantasmagorica costruzione posticcia”, una sorta di museo degli orrori. Non trova Memoria in quelle baracche e in quegli oggetti: “molto orrore e poca riflessione”. Il museo non aiuta a immaginare la vera realtà di quei luoghi, che erano essenzialmente morte, violenza, sangue, fango, pidocchi, merda, liquami… Da una visita là, oggi non se ne può trarre nessun “insegnamento”. Anzi: “noi tutti versiamo una lacrima pietosa quando pensiamo a quegli ebrei che, se oggi fossero tra di noi, in mezzo alle nostre piazze o all’assalto delle nostre frontiere, li tratteremmo da rom o clandestini e musulmani; noi tutti ci commuoviamo per la loro sorte, perché la consapevolezza che sono morti provoca una specie di catarsi”.

Invece Primo Levi, sostiene Goldkorn, potette raccontare efficacemente Auschwitz proprio perché, in qualche modo, ne è rimasto estraneo. La fabbrica chimica della Buna dove lavorò si trovava lontano da Auschwitz e anche dal campo di sterminio di Birkenau. Levi era un borghese torinese e laico che “guardava con apparente distacco quella gente dell’Est che parlava una lingua a lui poco comprensibile: li osservava quasi come l’oggetto di studio di uno scienziato positivista”. Ma proprio questa “distanza” fisica e culturale gli permise di raccontare l’irraccontabile. Levi, come ha sostenuto più volte Marco Belpoliti (cfr. Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda 2015), è stato un grande scrittore della Shoah, non tanto un testimone. Testimoni ce ne sono stati diversi (tutti importantissimi!), ma di scrittori come Primo Levi, o Tadeusz Borowski, assai pochi. Quello che essi hanno immaginato e narrato di Auschwitz è letteratura (il che non significa che non sia vero!) e ha la forza chiarificatrice che soltanto l’arte della scrittura possiede, anche quando si aiuta con la fantasia. Per questo Włodek Goldkorn, il cui libro è dello stesso tipo di letteratura (un po’ narrativa e un po’ saggio), può affermare: “Io, senza Levi, senza quel suo apparente distacco, di Auschwitz avrei capito molto meno di quanto credo di avere compreso”. 

Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

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