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Il silenzio di Auschwitz

di Enrico Mottinelli San Paolo Edizioni, 2018

L’incipit del libro è ad effetto: veniamo proiettati nell’intervista che Claude Lanzman, durante la più che decennale lavorazione del film Shoah (1974-1985), tenta a Jan Piwonski, un allora giovane assistente controllore della stazione ferroviaria della linea Chelm-Wlodawa. Egli giunge in bicicletta, siamo al giugno 1942, al suo posto di lavoro, dove, dal marzo, arrivavano treni e treni carichi di materiale da lavoro e manodopera che i nazisti costringevano a lavorare a ritmi infernali. “Il giorno precedente, nel tardo pomeriggio, Jan ha visto arrivare un lungo convoglio di circa quaranta vagoni. Scortato da SS in uniforme nera, stavolta trasportava soltanto persone. Jan ha pensato che si trattasse di nuovi operai.” Il mattino dopo egli torna, puntuale, alla stazione. Appoggia la bicicletta al muro e capisce che qualcosa è successo. Qualcosa di particolare, di grave, forse. Ne parla con i colleghi, ma nessuno sa dare una spiegazione. In luogo del trambusto del campo di lavoro solo silenzio. Un silenzio irreale, definitivo. “Erano arrivati quaranta vagoni, e poi più niente.” (p. 10-11) È il silenzio quello che ha fatto capire che qualcosa era cambiato. Quel silenzio. Rileggo la pagina e la mente solca la mia memoria figurativa. Decenni e decenni fa, alla televisione, la scena di un silenzio irreale, di vita subitaneamente e totalmente sottratta. Rammento un uomo miope, un amante della lettura, un caveau di banca dove nessuno disturba e durante la lettura un’imponente scossa tellurica. Il lettore riesce a tentoni a trovare la via d’uscita fra polvere e macerie. Fuori tutto è solo silenzio. Il mondo è stato cancellato da un’esplosione atomica. Oggi, in internet, mi è facile ritrovare la puntata È tempo di leggere della serie televisiva americana The twilight zone del 1959, andata in onda nella RAI con il titolo Ai confini della realtà. Spaesamento e sgomento. Jan ripete a Lanzmann che lo interroga trent’anni dopo: “Era un silenzio…” “Era un silenzio”. Ma non c’è parola che possa solcare quel silenzio. Un silenzio post umano opposto al principio delle origini, di cui la parola è sorgente. Il silenzio di Auschwitz è il simbolo della Shoah è l’interrogativo, «Warum?», posto alla Shoah resta implacabile, insondabile nel fondo, indicibile. Come esplicita celando Elie Wiesel nella citazione a p. 5, «Quelli che non hanno vissuto quell’esperienza non sapranno mai cosa sia stata; quelli che l’hanno vissuta non lo diranno mai; non veramente, non fino in fondo». Il punto di arrivo dell’anziano Jan è il punto di partenza dell’autore e del lettore che accetta la sfida di queste pagine non indulgenti, non consolatorie, non appaganti per usare termini che sarebbero graditi a quel miope lettore di È tempo di leggere. La tesi del libro è che «Percepire la portata di quel silenzio è importante per capire quello con cui abbiamo a che fare nell’accostarci ad Auschwitz. E se pare inevitabile attingere all’immaginario della sacralità e al linguaggio religioso, non è perché si intende fare di Auschwitz l’oggetto di un’oscura adorazione o il soggetto di una nuova religione, ma perché non abbiamo altri modi per dire che quell’evento tocca la nostra umanità nei recessi più profondi e misteriosi della nostra natura, là dove il nostro essere si trova affacciato sull’abisso di incomprensibilità che è la morte, là dove infine ci risulta difficile orientarci con precisione e sicurezza e quindi dobbiamo procedere a tentoni». (p. 26) Un silenzio mai esistito prima. «È un ritorno al caos in cui occorre innanzitutto avere il coraggio di penetrare se si ha la volontà di uscirne. […] Il primo passo, dopo Auschwitz, pare dunque essere quello che ci colloca nel preciso istante dove nulla esiste più, ma dove tutto può essere di nuovo. È l’istante del Silenzio, di quel Silenzio che un tempo, alle origini del mondo, soffocò la Parola, per esserne non di meno la matrice; di quel silenzio che testé ad Auschwitz si identificò con la storia del mondo.» (André Neher, L’esilio della parola. Dall’esilio biblico al silenzio di Auschwitz, Casale Monferrato, Marietti, 1983citato a p. 30, nuova edizione Medusa 2010 trad. di M. Doni)

Da questo silenzio i capitoli del libro si dilatano ai silenzi e inizia la numerazione dei capitoli: 1. il silenzio come obiettivo e strategia della Shoah come tentativo di annientamento dell’identità ebraica realizzata nel silenzio di tutti gli operatori del Sonderbehandlung (SB trattamento speciale), dai vertici nazisti ai Sonderkommando che estraevano i cadaveri dalle camere dopo il trattamento e li infilavano nei crematori. Operazione che dopo la sconfitta di Stalingrado si rese necessaria per ottenere il silenzio delle vittime, dei cadaveri delle vittime, precedentemente seppellite in fosse comuni. Si provvide allora all’Action 1005: riesumare i cadaveri, triturarne le ossa, rinvenire eventuali oggetti di valore rinvenibili nei liquami e nelle ceneri.

Segue il silenzio dell’indifferenza che parte dalla scritta voluta da Liliana Segre all’ingresso del Memoriale della Shoah nella stazione Centrale di Milano, inaugurato nel 2013. Lei ha vissuto la città deserta e silente di quella mattina di fine gennaio del 1944. Il libro raccoglie le parole simili sull’inizio della deportazione di Nedo Fiano, Ida Marcheria, Grete Weil, Vincenzo Pappaletra (pp. 60-61). Poi l’indifferenza di coloro che ebbero l’inferno dietro casa, gli austriaci della regione di Linz, i villaggi intorno a Mauthausen, Gusen, al castello di Hartheim, l’indifferenza di cui sono circondate le vittime è un silenzio abissale che si specchia nell’indifferenza della natura, della foresta dei dintorni dei crematori di Birkenau, dei boschi di Chelmno, Sobibor, Treblinka...

La recensione completa è disponibile nel box approfondimenti

Carlo Sala, Commissione educazione Gariwo

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