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Cosa fu Chernobyl, trent'anni fa

di Francesco M. Cataluccio

A trent'anni dal disastro di Chernobyl, riprendiamo di seguito l'articolo di Francesco M. Cataluccio, pubblicato da Il Post:

Il nome di Chernobyl divenne famoso in tutto il mondo dopo il 26 aprile del 1986 quando, nella locale centrale elettronucleare, si verificarono due esplosioni successive che provocarono l’immediata morte di 31 persone e fecero scoperchiare il tetto disperdendo nell’atmosfera grandi quantità di vapore contenente particelle radioattive.

Allora mi trovavo, con una borsa di studio, a Varsavia. Per alcuni giorni, come tutti i polacchi, non seppi niente, finché un amico da Firenze mi telefonò dicendomi di non uscire più di casa e non mangiare l’insalata. Il nome di quella cittadina ucraina mi si stampò in mente come un’ossessione. La combattei facendo ricerche, andando a visitare quel luogo abbandonato e scrivendoci su un arzigogolato libretto: Chernobyl (Sellerio, Palermo 2011). Ma ancora oggi, dopo trent’anni, non smetto di ripensarci. E quello che posso fare è raccontare ancora una volta che cosa successe.

Successe che durante l’esecuzione di un test di simulazione di guasto al sistema di raffreddamento del reattore numero 4, per un errore degli operatori, guidati dall’ingegnere Valerij Chodemčuk, le barre di uranio del nocciolo del reattore si surriscaldarono per davvero (raggiungendo un picco di valore pari a 100 volte quello stabilito) provocando la fusione del suo cuore. L’improvvisa ondata di energia provò un’esplosione con rilascio di radioattività duecento volte superiore alle bombe di Hiroshima e Nagasaki messe assieme.

Si levò in pochi giorni un’immensa nube, composta da tonnellate di materiale radioattivo che il vento portò in tutta Europa e raggiunse il Mediterraneo nelle successive due settimane, riportando a terra con la pioggia le particelle radioattive (che possono essere rilevate ancora oggi con un contatore Geiger a circa 10 centimetri sotto la superficie). Per molti giorni le autorità sovietiche negarono la portata della catastrofe, anche se un laboratorio di ricerche nucleari in Danimarca e i satelliti spia statunitensi avevano annunciato, già il 28 aprile, un «incidente di enorme portata».

I soccorsi mostrarono da subito impreparazione e improvvisazione. I pompieri a disposizione della Centrale erano 14. Si gettarono letteralmente nel fuoco, senza alcuna tuta di protezione. Le radiazioni bruciarono rapidamente tutte le loro cellule vitali. Cinque ore dopo arrivarono i rinforzi: 250 uomini disponibili, 69 operativi. Moriranno tutti. L’incendio continuò ad autoalimentarsi e, il 4 maggio, il nucleo del reattore, ormai completamente fuso, iniziò a sprofondare nella terra, rischiando di far entrare in contatto la grafite in fusione con la falda acquifera sottostante e provocare un’esplosione termonucleare. Per evitare questo, 400 minatori della regione del Donets’k, anch’essi inconsapevolmente votati alla morte, furono costretti a scavare sotto la Centrale un tunnel per portare dell’azoto liquido che, dopo l’evaporazione, potesse saldare la terra con il cemento e formare una sorta di cuscino per isolare il reattore. Tornavano su, dopo turni di tre ore di immersione in una stretta galleria, privi delle maschere e a torso nudo per il caldo irrespirabile, investiti da livelli di radiazione impensabili, e si sentivano subito male…

Per due settimane, dall’alto, 1.800 operai ed elicotteristi ricoprirono il nocciolo fuso, con sabbia a base di boro, silicati, dolomia e piombo, finché l’emissione di vapore radioattivo cessò sabato 10 maggio: «Si facevano quattro o cinque voli nell’arco delle 24 ore a un’altezza di 30 metri sopra al reattore, con una temperatura della cabina che raggiungeva i 60 gradi. Ci si può immaginare cosa succedeva di sotto, quando venivano lanciati i sacchetti di sabbia… La radioattività raggiungeva i 1.800 röntgen per ora (50 röntgen è la dose mortale). I piloti avevano dei malori già durante il volo. Per aggiustare la mira e colpire il bersaglio, cioè il cratere infuocato della Centrale, sporgevano la testa dalla carlinga e calcolavano a occhio. Non c’era altro sistema…», ha raccontato Sergej Vasil’evič Sobolev, dell’Associazione «Uno scudo per Chernobyl». Il 2 ottobre, durante una di queste operazioni, un elicottero MI-8 urtò il braccio di una gru della Centrale e si schiantò al suolo. L’incidente avvenne sotto gli occhi di una telecamera che documentò il precipitare di quel goffo uccello meccanico.

Per portar via le macerie si cercò dapprima di utilizzare dei robot tedeschi, giapponesi e sovietici. Ma i loro sistemi elettronici andavano in tilt rapidamente a causa del livello estremamente elevato delle radiazioni. Fu quindi presa la decisione di usare gli uomini: dei «robot biologici». Una sirena ululava all’inizio e alla fine di ogni intervento, che doveva durare meno di un minuto. Quanto bastava per ricevere una dose di radiazioni pari, se non superiore, al massimo ammesso per l’intera durata della vita umana.

Il reattore distrutto fu, nel mese di novembre, ricoperto da una struttura di contenimento in Bario, chiamata «Sarcofago»: una vera e propria piramide del XX secolo, progettata per resistere 30 anni (ma già nel 1995 venne rilevato che la struttura presentava fratture e crepe per 250 metri quadrati). C’è un proverbio ucraino, secco e complicato, che può esser forse tradotto con quello che mia nonna ripeteva in continuazione, con tono fatalistico: «Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi!».

Dopo 36 ore dall’incidente iniziò l’evacuazione dell’area di Chernobyl della popolazione residente. Circa 350.000 persone furono portate via dalla città, da Pripjat’ e dalle campagne adiacenti. In una zona di 30 chilometri quadrati di diametro non rimase più nessuno. Ma ormai il danno era stato irrimediabilmente fatto: migliaia di persone, profondamente contaminate, avevano già le cellule impazzite, il sistema genetico in subbuglio, la tiroide compromessa. I feti delle donne incinte non avevano alcuna speranza, così come molti bambini.

Sui bambini malati, senza capelli e con grandi occhi disperati, c’è un’ampia e terrificante quantità di fotografie (molto forti sono quelle, ad esempio, di Pierpaolo Mittica del 1998, pubblicate nel suo libro, The Hidden Legacy , Trolley, London 2007). Ma la più efficace rappresentazione di questa che, oltre la retorica, è una tragedia nella tragedia, è frutto della fantasia che si esprime attraverso i disegni in bianco e nero di Paolo Parisi, nel «graphic novel» Chernobyl, Cronaca a fumetti (Cecco Giallo, Treviso 2006): un reportage di rara misura e sensibilità non soltanto visiva. Accanto a questa, per la sua suggestiva immaginazione di una catastrofe nucleare che risveglia minacciosi mostri della tradizione popolare ucraina, va segnalata l’avventura di Dylan Dog, La furia dell’Upyr (n. 258, gennaio 2011).

Un documento unico della vicenda di Chernobyl in presa diretta è il libro di foto (Chernobyl. Confessioni di un reporter, EGA, Torino 2006) del fotoreporter dell’agenzia Novosti, Igor Kostin, originario della Moldavia, chiamata allora Bessarabia, figlio di una famiglia abbastanza benestante rovinata dalla guerra e dal sistema sovietico: «Mi ricordo di esser cresciuto tra le vigne, bruciato dal sole, all’ombra dei noci, dal mattino alla sera. […] Ora sono convinto che devo la mia buona salute alle noci e all’uva della mia infanzia. Se ho resistito alle forti dosi di radioattività di Chernobyl, lo devo al paese dei miei genitori, a quello che mangiavamo, a tutto quello che ci circondava e ci proteggeva». In gioventù era stato un teppistello e un mediocre sportivo. Ma poi aveva studiato ingegneria e si era sposato. Nel lavoro si era scontrato subito con la burocrazia industriale sovietica che gli bocciava tutte le invenzioni.

Alla fine degli anni Sessanta (lasciati il posto di ingegnere, la moglie e la casa) si mise a fare il fotografo free-lance e per anni la fame. Finché non fu assunto nel 1975 alla Novosti come corrispondente di guerra: «unico fotografo non comunista dell’agenzia e quindi senza un lavoro vero, non mi mandarono mai al fronte». La sua vera occasione fu Chernobyl. Inviato a documentare «un incidente in una fabbrica», Kostin fu il primo a giungere là il 26 aprile in elicottero e, da sopra, vide il reattore esploso poche ore prima: «una lastra di cemento di 3.000 tonnellate rivoltata tutta intera come una frittata, l’aria che bruciava anche senza fiamme né fumo, uno strano bagliore rosso cupo sotto le macerie». La sua fotocamera dopo pochi minuti di colpo si bloccò e le pellicole, sviluppate al ritorno, erano completamente nere, bruciate. Al termine della giornata gli rimase solo una foto stampabile, anch’essa mezza bruciacchiata. Nei giorni seguenti nessuna sua foto fu pubblicata dai giornali sovietici, ma lui rimase coraggiosamente là a documentare gli sforzi di coloro che cercavano di contenere la catastrofe.

Kostin si prese a Chernobyl una quantità enorme di radiazioni e si ammalò gravemente (ma, dopo un’operazione in un ospedale specializzato a Hiroshima, riuscì a guarire). Quell’esperienza lo segnò nel fisico, e anche nell’anima: «Chernobyl ha cambiato la mia esistenza, ha fatto di me un’altra persona. Oggi, faccio molta fatica a vivere con gli altri. Non capisco di che cosa si preoccupano: il salario, il quotidiano, le piccole storie sentimentali. Rispetto al male che ho visto, non è niente. Quella catastrofe mi ha moralmente trasformato. Mi ha purificato, ripulito». Kostin è morto l’anno scorso (10 gennaio 2015), all’età di 78 anni, per un’incidente stradale, alla periferia di Kiev.

Su Chernobyl negli anni succcessivi alla catastrofe esiste invece una documentazione fotografica molto più vasta. Ma poche immagini hanno la nitidezza informativa e la bellezza del dettaglio di quelle scattate da Robert Polidori nel giugno del 2001 e raccolte nel grande album a colori Zones of Exclusion. Pripyat and Chernobyl, mentre un’efficace denuncia fotografica degli effetti degli incidenti nucleari nell’ex Unione Sovietica – che accosta quelli in Kazakhstan, Ucraina, Bielorussia, Urali e Siberia –, realizzata in un bianco e nero quasi bruciato, è il reportage fatto per Greenpeace da Roberth Knoth.

La giornalista ucraino-bielorussa Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura nel 2015, nell’introduzione al suo prezioso libro di interviste Preghiera per Cernobyl (2001; trad. it. edizioni e/o, Roma 2002), sostiene che Chernobyl è ormai diventato una metafora, un simbolo e anche un enigma che dobbiamo ancora decifrare: «È più che una catastrofe […] È accaduto qualcosa per cui ancora non abbiamo né un sistema di rappresentazione, né analogie, né esperienza, al quale non è adeguata né la nostra vista, né il nostro orecchio ed è perfino inadatto il nostro vocabolario […]. Chernobyl ci ha trasferiti in un’altra epoca».

Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

26 aprile 2016

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