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Perché Israele ha lasciato andare Mengele?

di Ronen Bergman

Ronen Bergman è un editorialista per The New York Times Magazine e corrispondente senior sugli affari militari e di intelligence per Yedioth Ahronoth. Inoltre è autore del libro di prossima uscita Rise and Kill First: The Secret History of Israel’s Targeted Assassinations. Per il giornale americano The New York Times del 6 settembre 2017 ha analizzato il perché del mancato arresto di Josef Mengele, lo spietato medico nazista che torturò gli internati dei lager con orrendi "esperimenti scientifici". 

Per molti decenni, l’agenzia di spionaggio di Israele, il Mossad, ha conservato un fascicolo su Josef Mengele, il medico nazista responsabile, fra altre atrocità, di selezionare quali nuovi internati ad Auschwitz erano destinati immediatamente alla camera a gas e quali venivano prima messi al lavoro o sottoposti ai suoi orribili esperimenti “medici”.

Questo fascicolo è lungo migliaia di pagine e documenta gli sforzi del Mossad per catturare o assassinare il criminale di guerra: infinite ore di lavoro investigativo, ingenti somme di denaro, un grande numero di agenti e di fonti, intercettazioni, irruzioni, fotografie segrete e in pratica ogni altro elemento caratteristico dell’armamentario dello spionaggio, incluso il reclutamento di nazisti e giornalisti.

E tutto questo non ha portato a niente. Mengele non è mai apparso davanti a una corte di giustizia.

Per la prima volta, è ora possibile dire perché il Mossad non è riuscito a catturare l’uomo che era forse il nazista sopravvissuto alla guerra più ricercato al mondo. Documenti e interviste rivelano che, contrariamente a quanto si crede normalmente, per la maggior parte del tempo in cui Mengele fu in clandestinità, il Mossad non lo cercò affatto – o pensava alla sua cattura come a qualcosa di non molto urgente. La mia nuova ricerca getta luce su un tempo in cui le priorità di quell’agenzia erano impostate su criteri di realismo e maturità, invece di un pur comprensibile desiderio di far scorrere sangue nazista.

I premier israeliani che si sono succeduti, agendo su raccomandazione dei vari direttori del Mossad, furono del saggio avviso che l’agenzia dovesse concentrare i suoi sforzi su materie più urgenti e destinarono risorse limitate, ammesso che ne destinassero del tutto, a quella caccia all’uomo.

La cattura, il processo e l’esecuzione nei primi anni ’60 di Adolf Eichmann, l’organizzatore burocratico della Shoah, convinse molti che il Mossad avrebbe poi messo le mani su Mengele. Molti in Israele e nel mondo si immaginavano che il Mossad non avrebbe avuto alcun problema a farlo, ma la verità è che per diversi anni i leader del governo e l’agenzia semplicemente non erano molto interessati a catturarlo.

Mengele fuggì dalla Germania in Argentina nel 1948, utilizzando documenti falsi che gli erano stati forniti dalla Croce Rossa (secondo il file del Mossad, l’organizzazione era consapevole di stare aiutando un criminale nazista a sfuggire alla giustizia). A Buenos Aires, egli visse prima sotto un nome falso, ma più avanti riassunse il suo vero nome che fece scrivere perfino su una targa alla sua porta: Dr. Josef Mengele.

Anche se molte delle sue attività del tempo di guerra erano note, il governo tedesco non ne aveva richiesto l’estradizione, e gli aveva perfino fornito documenti grazie ai quali la sua fedina penale risultava pulita. L’ambasciatore tedesco a Buenos Aires è citato nel fascicolo del Mossad su Mengele per aver detto che aveva ricevuto ordine di trattare il medico nazista come un comune cittadino, dato che non c’era nessun mandato di cattura su di lui. Quando, finalmente, un mandato fu emesso nel 1959, Mengele lo venne a sapere. Entrò in clandestinità, prima in Paraguay e poi in Brasile.

Il Mossad iniziò a perseguire Mengele nel 1960 sulla base di alcune soffiate di Simon Wiesenthal, il celebrato cacciatore di nazisti. Nel 1960, reclutò Wilhelm Sassen, un ex nazista conoscente di Mengele, che fornì informazioni secondo cui Mengele aveva trovato rifugio in un gruppo di nazisti e simpatizzanti vicino a San Paolo.

Poco dopo, un team di sorveglianza del Mossad vide un uomo simile alla descrizione di Mengele che entrava in una farmacia di proprietà d una persona di cui si sapeva che era in contatto con lui. Il 23 luglio 1962, l’agente del Mossad Zvi Aharoni (che aveva identificato Eichmann due anni prima) era in una strada non asfaltata nei pressi della fattoria dove si credeva che Mengele si nascondesse, quando incontrò un gruppo di uomini - incluso uno che sembrava proprio il latitante.

Il caposquadra della sede sudamericana del Mossad inviò un telegramma al quartier generale in Israele: “Zvi alla fattoria di Gerhard ha visto una persona con l’aspetto, l’altezza, l’età e l’abbigliamento tipici di Mengele”. Più tardi saltò fuori che si trattava davvero di Mengele. Nel 1999, Aharoni mi disse: “Eravamo di ottimo umore. Ero certo che entro poco saremmo stati in grado di portare Mengele in Israele affinché fosse processato”.

Ma il capo del Mossad di quel tempo, Isser Harel, ordinò di lasciar cadere il tutto. Nello stesso giorno, l’agenzia aveva appreso che l’Egitto stave reclutando scienziati tedeschi per costruire missili; disporre di quelli era la più alta priorità di Harel.

Il Mossad era ancora un’agenzia giovane, con poche risorse e poca manodopera. In più, come Aharoni avrebbe testimoniato più tardi per il dipartimento di storia del Mossad, “Quando Isser iniziava a occuparsi di qualcosa, pensava solo a quello”. Inoltre, l’agenzia era stata tenuta all’oscuro di tutto, e non sapeva niente degli scienziati tedeschi e dei missili che stavano costruendo per il più grande nemico di Israele. Harel mobilitò l’intera agenzia perché se ne occupasse.

Sei mesi dopo, Harel fu sostituito da Meir Amit, che ordinò al Mossad di “smetterla di andare a caccia di fantasmi del passato e dedicare tutte le risorse, umane e non, alle minacce contro la sicurezza dello Stato”. Egli ordinò che l’agenzia si occupasse dei nazisti “solamente nella misura in cui è in grado di farlo, in modo subordinato alle sue missioni principali" e fintanto che ciò "non interferisce sulle altre operazioni”.

Con il sostegno del primo ministro Levi Eshkol, Amit si concentrò sul programma missilistico egiziano fino a quando la minaccia fu risolta (con l’aiuto di un ex ufficiale nazista di alto grado), e quindi raccogliendo informazioni di intelligence sugli stati arabi che si dimostrarono cruciali per la vittoria di Israele nella guerra del 1967.

Amit dovette subire la pressione esercitata dai molti membri del suo staff che erano sopravvissuti dell’Olocausto o parenti di vittime, ma altri pensavano che avesse ragione. Rafi Eitan, un agente del Mossad nato in Israele che aveva guidato il team della cattura di Eichmann, mi disse: “Dato il bisogno di persone che parlassero lingue straniere, molte delle reclute del Mossad erano europee, e quindi avevano fatto l’esperienza della Shoah o perso i propri parenti in essa. Si può certamente capire il loro bisogno di vendetta. Tuttavia, c’era un’elevata pressione a occuparsi delle necessità attuali, e con risorse limitate quali erano allora, non si sarebbe potuto assegnare alla questione dei nazisti in nessun modo un’altra priorità”.

Nel 1968, il Mossad ricevette una conferma immediate che Mengele viveva nella fattoria vicino a San Paolo, protetto dalla stessa gente che era stata sotto sorveglianza sei anni prima. “Non siamo mai stato così vicini a Meltzer”, scrisse un agente operativo del Mossad ad Amit, usando il nome in codice di Mengele. L’agente chiese permesso di prelevare una di quelle persone e torturarla per trovare Mengele, ma i suoi superiori erano spaventati dalla sua inclinazione, gli ordinarono di tornare in Israele e lo sostituirono.

In quegli anni, il terrorismo palestinese era diventato la prima sfida alla sicurezza di Israele, e il Mossad dedicava la maggior parte dei suoi sforzi a quella minaccia. Per i successivi 10 anni, con il sostegno del premier Eshkol e dei suoi successori Golda Meir e Yitzhak Rabin, non fu fatto quasi nulla per catturare Mengele. L’esplosione del terrorismo, la guerra a sorpresa di Yom Kippur nel 1973 e la corsa al riarmo della Siria con l'assistenza sovietica ebbero la precedenza.

Quando Menachem Begin arrivò al potere nel 1977, voleva un cambiamento. Chiarì le sue posizioni in una prima riunione con Yitzhak Hofi, che era allora il direttore del Mossad. “Begin, - scrisse Hofi -, pensava che non fosse stato fatto abbastanza e che fosse necessario continuare a dare la caccia ai nazisti”. Hofi dichiarò inoltre più avanti, in un’intervista confidenziale con il Menachem Begin Heritage Center. “Io gli dissi: ‘Primo Ministro, oggi il Mossad ha altre missioni che concernono la sicurezza nazionale del popolo di Israele nel presente e nel futuro, e io assegno la mia preferenza al presente e al futuro piuttosto che al passato’”. Begin non apprezzò quella risposta. “Alla fine decidemmo che ci saremmo concentrati su un obiettivo in più, Mengele, ma Begin, che era un uomo molto emotivo, era deluso”, disse Hofi.

Per Begin, arrivare a Mengele non era solo un tema del passato. Egli considerava Yasir Arafat uguale a Hitler. “Diversamente da altri israeliani, che vedevano l’Olocausto come una catastrofe storica di un determinato periodo”, ha affermato Shlomo Nakdimon, un eminente giornalista israeliano vicino a Begin, “questo premier credeva con tutto il cuore che la lezione dell’Olocausto era che il popolo ebraico dovesse difendersi nel proprio Paese, in modo da prevenire una nuova minaccia alla sua esistenza”.

Begin pensava che regolare i conti con Mengele avrebbe mostrato ai leader palestinesi (e all’opinione pubblica israeliana) che avrebbero dovuto pagare un prezzo se avessero fatto del male agli israeliani. Il suo atteggiamento si rifletteva in un messaggio che inviò al Presidente Ronald Reagan quando spedì l’Esercito Israeliano in Libano nel 1982, dicendo che si sentiva come se “avessi inviato un esercito a eliminare Hitler chiuso nel suo bunker”.

Il Primo Ministro non era soddisfatto dell’accordo verbale di Hofi a trovare Mengele. Nel luglio 1977, il comitato di sicurezza del consiglio dei ministri approvò segretamente una proposta di Begin “di istruire il Mossad a rinnovare la sua ricerca dei criminali di guerra nazisti, in particolare Josef Mengele. Se non è possibile processarli, che li si uccida”.

La caccia riprese con uno spirito vendicativo. Nel 1982, l’agenzia considerò perfino di rapire un dodicenne e minacciare di ucciderlo se suo padre, Hans-Ulrich Rudel, un nazista convinto e amico d’infanzia di Mengele, non avesse fornito le informazioni atte a portare alla sua cattura (alla fine, Rudel morì prima che il Mossad decidesse se procedere o no con l’operazione).

Nello stesso anno, il Mossad sperava di intercettare conversazioni telefoniche tra Mengele e suo figlio Rolf, che viveva a Berlino Ovest. I due erano nati lo stesso giorno, e gli israeliani speravano che si sarebbero sentiti al telefono per gli auguri di compleanno. La Berlino della Guerra Fredda era piena zeppa di spie, e il Mossad preferiva quando possibile non lavorarci. Ma essi calcolavano che “potrebbe trattarsi dell’ultima possibilità” di avere notizie di Mengele. Gli agenti israeliani installarono microspie a casa e nell’ufficio di Rolf, e nei suoi telefoni.

Era troppo tardi. Mengele era morto da uomo libero nel 1979 mentre nuotava al largo di una delle spiagge di San Paolo.

In retrospettiva, alcuni ex ufficiali del Mossad espressero rimpianti. Mike Harari, il capo dell’unità azioni speciali dell’agenzia, Caesarea, negli anni Settanta, mi disse poco prima di morire nel 2014 che aveva sperato di catturarlo: “Finché c’è ancora un nazista che respira in qualunque angolo del mondo, noi dovremmo aiutarlo a non respirare più”.

Non sono sicuro di essere d’accordo. Sono figlio di sopravvissuti della Shoah. Da bambino ho ascoltato la storia di uno dei migliori amici dei miei genitori che era passato attraverso l’infame processo di selezione di Mengele ad Auschwitz. Questo ha segnato i miei incubi. Così, senza dubbio, mi arrabbio con il governo tedesco per tutte le volte che si rifiutò di agire, nei primi anni dopo la seconda guerra mondiale, e ho provato frustrazione per il fallimento del Mossad di portarlo davanti alla giustizia. Tuttavia, credo che la decisione di non fare della sua cattura un’alta priorità fosse quella giusta. Ogni operazione di intelligence comporta dei rischi. L’approccio del Mossad nei confronti di Mengele mostra prudenza e pragmatismo da parte dei leader dell’agenzia – in contrasto con l’emotività di Begin.

La cattura e il processo di Eichmann – e la sua esecuzione – erano abbastanza per insegnare al mondo qualcosa sull’Olocausto e inviare il messaggio che il sangue ebraico non può essere versato impunemente. Da quel punto in poi, sarebbe stato meglio se il Mossad avesse lasciato correre il passato. I nazisti non ponevano più minacce. E al giorno d'oggi decisamente i nemici non mancano, né verosimilmente ne mancheranno in futuro.

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