Il 26 settembre il Presidente dell’Iran Ahmadinejad ha pronunciato il
suo discorso all’ONU. Ha iniziato ringraziando Dio e spiegando che per
il suo popolo, e in particolare i giovani, la dittatura di Teheran sta
preparando un futuro di “amore e affetto”.
Com’è tipico del suo
stile, che somiglia in modo inquietante a quello dei nazisti di cui
ammira le gesta, Ahmadinejad dispensa “amore e affetto” anche agli altri
popoli del mondo, che secondo lui richiedono a gran voce “giustizia”,
“verità”, “ricerca del Divino” e “sostegno della dignità umana”. Tutti
desideri che lui è pronto a esaudire, magari rinchiudendo i giornalisti
stranieri nel famigerato carcere di Evin.
Dal maggio 2009, quando
scesero in piazza per contestare la sua elezione, i giovani iraniani
hanno conosciuto non solo la sua propaganda incendiaria, ma anche
gravissime violenze. Ahmadinejad considera reato perfino tenere un
gatto, suonare la chitarra e dipingersi le unghie e punisce tutto ciò
con incarcerazioni, torture e violenze fisiche e psicologiche. Il
simbolo della lotta disperata dei giovani contro l’arbitrio di questo
dittatore è la morte di Neda Agha-Soltani, una studentessa di Filosofia
freddata da un cecchino mentre manifestava, come se fosse stata una
pericolosa terrorista.
Qual è il prezzo che il mondo paga per questi “amore e affetto” dichiarati ai quattro venti?
Non
c’è solo il pericolo degli armamenti nucleari, che l’Agenzia Atomica
dell’ONU ha registrato in forte crescita in Iran. In fondo, su questo
tema, Ahmadinejad potrà dire che molti Stati ne hanno accumulati più di
lui. Tra questi un Paese considerato la più grande democrazia del mondo,
l’India, dove Indira Gandhi nel 1970 spiegò che con l’atomica
finalmente Nuova Dehli non rappresentava più il simbolo del Terzo Mondo
affamato, ma la grande rincorsa dell’Asia verso l’Occidente.
Ahmadinejad
potrebbe anche essere fermato, con le sanzioni, che secondo recenti
stime avrebbero dimezzato gli export di Teheran, e forse con un
intervento militare auspicabilmente internazionale per evitare di
riproporre sempre il solito schema a lui caro del sionismo in lotta
eterna con i Paesi musulmani e non allineati.
Il problema più urgente
probabilmente è la violenza di quei suoi ritornelli ideologici unita
all’assenza di spirito critico: la stessa miscela che, complice una
grave crisi economica, consegnò la Germania e il mondo all’aggressore
nazista.
Ahmadinejad continua a ripetere nei suoi discorsi il verbo
“bruciare”, i problemi o la loro causa, che sarebbero gli ebrei e
Israele, fin dalle radici, che naturalmente “risalgono alla seconda
guerra mondiale” sulla quale il dittatore non si perita di compiere
alcuna analisi, né storica, né politica – per tacere della sua tanto
decantata “etica”. L’idea stessa che i problemi o le loro cause siano da
bruciare è perniciosa, non solo perché a Gaza, in Siria e in molti
altri Paesi le pretese di potenza regionale e religiosa dell’Iran degli
ayatollah esercitano una suadente attrazione, ma anche perché questo
alfiere del mondo nonallineato esente dalle ipocrisie dell’Occidente viene
considerato in qualche modo “alternativo” anche all’interno di realtà
giovanili occidentali. Sono discorsi capaci di fomentare l’odio nel
mondo, incitando al razzismo e alla violenza. Altri vocaboli ricorrenti
sono, non a caso, “distruggere”, “mani nascoste” che complottano
nell’ombra, l’accusa a Israele di avere stabilito “un regime” e
l’introduzione del concetto per cui il diritto internazionale sarebbe
non violato o disapplicato, bensì vecchio “di 60 anni”.
Ahmadinejad
dopo avere invocato l’amore, il monoteismo, la giustizia e l’etica nel
mondo si è esibito al Palazzo di Vetro in un gesto di vittoria simile a
quello (vecchio di 60 anni?) di Churchill. Non è che non si accorga
anche lui che l’Organizzazione delle Nazioni Unite attraversa una crisi
di credibilità, anzi, cavalca l’istanza di riforma cercando di proporsi
come potenza egemone. E fa di più: nella sostanza irride l’ONU,
proponendosi, con un ghigno sardonico, nelle vesti di liberatore.
Insomma
in lui si associano violenza e furbizia. È una specie di Hitler “più
giovane di 60 anni”, capace di creare uno slogan per ogni più sacro
principio: la giustizia, la “legalità”, “il Salvatore che tutte le
religioni attendono” (come se non ci fossero fedi politeiste o laiche).
La sua pillola di odio quotidiano, “dall’Iran con amore e affetto”,
potrebbe corrodere i fragili equilibri necessari alla democrazia e alla
pace.