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"Ah’s capis, cun gent’ parei". Vita di Lorenzo Perrone

Amedeo Vigorelli recensisce "Un uomo di poche parole" di Carlo Greppi

«Si capisce, con gente così…»: l’espressione dialettale, riportata da Primo Levi in uno dei suoi ultimi scritti, come le prime parole pronunciate da Lorenzo Perrone, in occasione del loro fortuito e fatale incontro nel Lager di Auschwitz-Monowitz nell’estate del 1944, sono la traccia laconica, strappata all’oblio della memoria storica, di un incontro e di una amicizia che rischiara come in un lampo le tenebre del più atroce Novecento. «Di poche parole» era il muratore semi-analfabeta che contribuì a salvare, in tutti i sensi, la vita di Primo Levi (come da lui più volte ricordato); e quelle parole (che al piemontese internato nel campo furono sufficienti a rivelare l’identità di «italiano» del lavoratore volontario della ditta Beotti di Piacenza, spedito in Polonia per lavori di ampliamento del Lager tedesco) furono per diversi giorni le prime e le sole a rivelare al languente Häftling una umana presenza, in quel disumano universo concentrazionario. La storia dell’amicizia tra l’intellettuale borghese, autore di Se questo è un uomo, e il proletario di Fossano, che uscì per breve tempo dall’oblio dei dimenticati dalla storia, solo per tornarvi di lì a poco, dopo il suo rientro in patria, è stata ricostruita da Carlo Greppi (Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo, Laterza, Bari-Roma 2023, pp. 309, €19), in un volume prezioso e necessario. Queste parole non contenevano traccia di empatia, ma parevano esprimere piuttosto dispetto, e forse malcelato disprezzo, per quell’inutile lavoratore-schiavo, che non sapeva neppure mettersi sulla spalla il bugliolo della malta, che Lorenzo gli aveva richiesto. Ma Primo gli rispose, chiedendogli la nazionalità italiana, e Lorenzo gli replicò a sua volta («ah’s capis») e questo bastò perché, di lì a qualche giorno, gli si ripresentasse davanti, con la propria gamella piena di zuppa nutriente, che gli passò in silenzio, chiedendogli soltanto di restituirgliela entro sera.

Alla ricostruzione della biografia di Lorenzo Perrone (o Perone) Carlo Greppi dedica uno scavo documentario davvero imponente, anche considerata la scarsità di tracce lasciate dal protagonista di questa vicenda. Ma la fonte principale rimane naturalmente il ritratto che di lui traccia, in una molteplicità di schizzi letterari, Primo Levi: cosicchè il succo di questa esistenza quasi larvale diventa la storia di una amicizia. Primo e Lorenzo: il giovane borghese, travolto nella bufera della storia per il suo impegno politico, oltre che per l’appartenenza alla stirpe perseguitata dai Nazisti, e il più anziano lavoratore a contratto, approdato ad Auschwitz insieme con numerosi altri esodati da una patria ingrata e colpevole. In lui e nel suo atteggiamento protettivo il giovane internato trovò (come giustamente sottolinea l’autore di questa biografia esemplare) una sorta di fratello maggiore: «un uomo più anziano, vero, genuino, imperfetto come tutti, per carità, ma che a rischio della vita si fa roccia a cui potersi aggrappare quando tutto appare perduto» (op. cit., p. 167). Ma il libro di Greppi non è solo una ricostruzione biografica, che restituisce l’indispensabile contesto storico alla scarna documentazione, che della vicenda di questo Giusto tra le Nazioni si conserva in un fascicolo d’archivio al museo della Shoah di Gerusalemme (lo Yad Vashem). Esso è anzitutto un coinvolgente esame di coscienza sul «perché questa storia sia rimasta tanto a lungo sottotraccia nella coscienza collettiva» (op. cit., p. 145). E la risposta – che non può non inquietarci – sta verosimilmente nel fatto che non si tratta di una vicenda edificante ed eroica, atta a commuovere e ad entusiasmare i cuori; ma di una storia del tutto anonima, destinata a restare per sempre ignorata; se non fosse per la circostanza casuale, che uno dei due protagonisti sarebbe assurto a involontaria fama letteraria, divenendo il testimone privilegiato di una delle peggiori infamie del Novecento.

Quella di Lorenzo non è la storia del Bene che salva il mondo, ma è la storia di una sconfitta; la vicenda donchisciottesca di chi vuole combattere il Male, sottraendogli almeno alcune prede, ma che deve alla fine riconoscerne l’onnipresenza, e con infinito dolore ne assume su di sé il verdetto di morte. La biografia di Lorenzo Perrone si può infatti restringere in poche frasi. Nacque nella miseria e morì così come era vissuto: tra i sommersi della storia. Privo di istruzione ma non di mestiere, muratore fatto, volle conoscere il mondo, peregrinando come lavoratore stagionale tra il natio Piemonte e la vicina Francia, poi la Germania (trascinato dalla fiumana dei sotto-occupati, più che per libera scelta). Testimone involontario dell’inferno di Auschwitz, non si sottrasse al dovere di testimoniare la sua umana pietà, aiutando con gesti umili quanti poté incontrare di quelle vittime umiliate. Ne uscì sconvolto e malato, fino a smarrire ogni superstite volontà di vita. Affogò nell’alcool il dolore e il senso di colpa, per non avere fatto qualcosa di più della sua cieca esistenza («non ho scelto io di nascere» – era un detto che amava ripetere). Morì di tubercolosi, ma il suo fu anche un volontario suicidio. La sobria epitome che meglio si adatta a riassumerne il senso biografico è quella impiegata da Samuele Saleri, che gli dedicò una tesi di laurea: «Lorenzo è il bene che esiste, il bene che esiste ma non vince» (op. cit., p.235). Ma allora perché scriverne la storia? Perché riproporlo come esempio alle più giovani generazioni? Perché non lasciarlo riposare in pace, insieme con gli umili congiunti, che ne condivisero l’anonima e privata esistenza? Credo che la risposta stia in una parola, difficile da pronunciare in quel contesto storico, ossia amicizia. Il silenzioso ma indissolubile legame che si strinse, tra lacrime e disperazione, in quei mesi di prigionia, tra Primo e Lorenzo. Più che di parole, quella amicizia era fatta di concretissimi simboli materiali: una gamella di zuppa, disgustosa ma provvidenziale; un paio di scarpe, scambiato con un paio di zoccoli, per essere risuolate; una maglia rattoppata, donata all’amico nel momento del congedo, e più tardi ricambiata con un bel maglione bianco di filo di capretto; alcune cartoline sgrammaticate, spedite a proprio rischio in Italia per informare i parenti della esistenza in vita del deportato, e contraccambiate da un miracoloso pacco di viveri natalizio. Ma soprattutto i gesti del lavoro, servile ma riscattato dall’orgoglio del ben fare, qualche ruvida stretta di mano e magari qualche gesto pudico di affetto e di gratitudine.

Il parroco di Fossano, don Carlo Lenta, non mancherà di inquadrare la figura umana di Lorenzo nell’ambito cristiano di una comunità contadina solidale. Quella dei «muratori e pescatori di Fossano» che «si facevano in quattro per aiutare i più deboli della comunità» (212). Ma, come ci ricorda Primo Levi, Lorenzo era cresciuto in un ambiente pressoché privo di riferimenti religiosi, da un padre rozzo e manesco, da una discendenza che la voce popolare identificava come i Tacca: attaccabrighe lesti di mano e di coltello. Forse il ritratto che gli si attaglia di più è quello di un personaggio de La tregua, il Moro di Verona: «nel petto del Moro, scheletrico eppure poderoso, ribolliva senza tregua una collera gigantesca ma indeterminata: una collera insensata contro tutti e tutto, contro i russi e i tedeschi, contro l’Italia e gli italiani, contro Dio e gli uomini, contro se stesso e contro noi, contro il giorno quando era giorno e contro la notte quando era notte, contro il destino e tutti i destini, contro il suo mestiere che pure aveva nel sangue. Era muratore: aveva posato mattoni per cinquant’anni, in Italia, in America, in Francia, poi di nuovo in Italia, infine in Germania, e ogni suo mattone era stato cementato con bestemmie: bestemmiava in continuazione, ma non macchinalmente; bestemmiava con metodo e con studio, acrimoniosamente, interrompendosi per cercare la parola giusta, correggendosi spesso, e arrovellandosi quando la parola giusta non si trovava: allora bestemmiava contro la bestemmia che non veniva» (op. cit., p. 25). Eppure, fu un uomo del genere a riportare un filo di umanità e di speranza nella esistenza del misero Häftling, a farlo riavere dal trauma subìto al suo primo ingresso nell’universo concentrazionario: quel mondo capovolto, in cui – come leggiamo ne I sommersi e i salvati – «si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi isolati, non c’erano; c’erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua» (op. cit., p. 102). Sarebbe stato naturale, per Lorenzo, accontentarsi del privilegio di chi, sia pure lavoratore coatto, non subiva la sorte degli schiavi condannati alla totale abiezione e alla morte, ma su quel privilegio egli ci sputò: «Lorenzo l’irascibile, il muradur dalla rissa facile, l’uomo che probabilmente bestemmiava il creato se ne aveva occasione, l’uomo che in fondo avrebbe avuto tutte le ragioni per voltarsi semplicemente dall’altra parte alla vista di due persone dotate fino a pochi mesi prima di una fortuna che lui non aveva neanche potuto sognare, non lo fece» (op.cit., p. 103). Fu quello l’inizio di una amicizia che durò sino alla fine, che portò Levi ad aggiungere il nome di Lorenzo a quello dei figli, che lo spinse a viaggiare da Torino a Fossano per le festività e i fine settimana, a conoscere la famiglia di Lorenzo, a prendersi cura della salute e del lavoro dell’amico, a cercare di salvarlo dalla sua disperazione, condividendo con lui il rito delle bevute all’osteria, in un ambiente così estraneo alla sua indole ed educazione. Primo, divenuto inaspettatamente loquace, dopo l’esperienza traumatica del Lager, in una sorta di frenesia di testimonianza. Lorenzo, che mai depose l’abito dell’uomo di poche parole, dei lunghi silenzi contemplativi, del rimuginare scontento, in cerca di un impossibile oblio e di un pacificato congedo dall’esistenza.

In fondo tra i due si realizzò una solidarietà di destino che giungerà fino alla morte. Se quello di Lorenzo fu un suicidio per calcolata autodistruzione, non diversa fu la scelta finale di Primo Levi, guidata probabilmente da una lucida consapevolezza della impossibilità di dimenticare e di perdonare l’ingiustizia subita. Come Jean Amery, come tanti sopravvissuti all’Olocausto, anche Levi preferirà una morte auto-inferta come supremo atto di libertà, alla accettazione auto-compassionevole di una esistenza avvertita come inaccettabile privilegio ed esito fortunato di un destino cieco. Non ci azzardiamo a pronunciare un giudizio moralistico su tali scelte, che non bastano in ogni caso ad offuscare la memoria di uomini grandi nel dolore e nella sventura. Ma soprattutto, per noi, grandi nell’amicizia: in un sentimento che si distacca dal generico amore filantropico dell’umanità e perfino dall’amore mistico e religioso, per il suo importo personale di scelta e di dedizione gratuita all’altro. Non un generico prossimo, ma questo insostituibile individuo, risultato di un incontro magari fortuito, ma al tempo stesso predestinato dalle vie insondabili e misteriose della vita. Una vita che deve essere anzitutto percorsa, in tutta la sua lunghezza e fatica, in un camminare non solo simbolico, ma effettivo, come nel caso di Lorenzo, in questo maestro indimenticato di Primo.

Amedeo Vigorelli

Analisi di Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale Unimi

14 marzo 2023

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