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Angelo Del Boca e la cattiva memoria degli “italiani brava gente”

di Francesco M. Cataluccio

Uno storico, scrittore e giornalista che ha avuto il coraggio di denunciare le atrocità compiute dalle truppe italiane in Libia ed Etiopia: “La vera differenza fra noi e gli altri Paesi che hanno avuto imperi coloniali è la nostra pervicace volontà di rimuovere questo passato dalla memoria collettiva”. Per capire l’importanza morale e civile del lavoro di Del Boca, che può essere considerato a pieno diritto un “Giusto della Memoria”, occorre ricordare che la conquista dell’Etiopia aveva segnato il culmine della popolarità del regime fascista, che aveva esaltato quell’impresa in modo enfatico. Poi, dopo il 1945, per vent’anni, su quel conflitto era calato il silenzio (persino nei manuali di storia) e una parte assai consistente degli italiani continuava a coltivare una memoria positiva (accompagnata, fino a pochi anni fa, da targhe commemorative, nomi di piazze e vie, come, ad esempio, via Ambaradan: luogo di uno dei più feroci massacri compiuti dall’esercito italiano).

Originario di Novara, Del Boca, giovanissimo, visse un’esperienza terribile che lo segnò per tutta la vita. Per evitare l’arresto del padre fu costretto ad arruolarsi nella Repubblica Sociale Italiana. Venne inviato in Germania e assegnato alla 4°divisione alpina Monterosa, ma riuscì a disertare e rientrare in Italia, attraverso varie peripezie, nell’estate del 1944. Allora si arruolò nella 7°brigata alpina Piacenza legata a Giustizia e Libertà, vicina al Partito d’Azione. Con la sincerità che lo ha sempre contraddistinto, Del Boca confessò che a spingerlo a fare il partigiano fu “il desiderio di rivedere mia madre” (cfr. l’autobiografia: La scelta, Feltrinelli, Milano 1963).

Con i suoi studi, le inchieste giornalistiche e i libri, Del Boca ha avuto il merito di far conoscere i diversi crimini di cui si era macchiata l'Italia, come quelli commessi durante riconquista della Libia, a cavallo del 1930, la strage di civili nella capitale Addis Abeba a seguito della rappresaglia scatenata dagli italiani dopo l'attentato al generale Rodolfo Graziani, del febbraio 1937, il massacro di più di 2.000 persone (la metà delle quali erano preti, monaci copti e diaconi) nella città-convento di Debra Libanòs, nel maggio del 1937, - diretto dal generale Pietro Maletti ma voluto e rivendicato dallo stesso Graziani - e le famigerate operazioni di "polizia coloniale" con cui si cercò di pacificare con la repressione e il terrorismo le diverse regioni dell'Etiopia.

La pubblicazione completa dell'opera in quattro volumi Gli italiani in Africa orientale (1976-1984), nel quale si documentavano i massacri compiuti dalle truppe italiane, facendo anche ricorso a bombardamenti aerei terroristici su centri abitati e talora persino all'impiego di armi chimiche (come iprite, fosgene e arsina) contro le truppe combattenti e la popolazione civile, e si sfatava il mito degli “italiani brava gente”, suscitò molte polemiche non soltanto nel mondo della storiografia, ma anche della politica e dell’opinione pubblica italiana. Del Boca successivamente dichiarò ad Antonio Carioti: “Lo ammetto, nelle mie ricostruzioni sulla guerra in Africa orientale mi sono schierato dalla parte degli etiopi. Sono da sempre un nemico del colonialismo e mi sembrava giusto sottolineare soprattutto le nostre responsabilità di Paese cosiddetto civile rispetto a popolazioni che avevamo aggredito con estrema violenza” (“Corriere della Sera”, 6/1/2011). Nel 1982 l'Associazione nazionale reduci d'Africa dichiarò di voler portare Del Boca in tribunale a causa dei suoi scritti e per la “tutela morale del sacrificio compiuto dagli Italiani in Africa” e, sempre in quell'anno, la rivista “Il reduce d'Africa” dedicò a Del Boca un articolo pieno di invettive, dove si invitavano i reduci “a recarsi dai Del Boca vari e provvedere da solo, a propria difesa, a difesa di ciò che fu e fece”.

Lo attaccò per anni anche il giornalista Indro Montanelli, che era andato, nel 1935, volontario in Etiopia, partecipando alle operazioni di guerra come sottotenente e comandante di un battaglione coloniale di àscari (XX Battaglione Eritreo). Montanelli, che si era anche là comprato una moglie dodicenne, allora scriveva: “Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà” (“Civiltà Fascista”, 1936). Nella polemica con Del Boca, Montanelli sostenne ostinatamente l'opinione secondo cui quello italiano fu un colonialismo mite e bonario, portato avanti grazie all'azione di un esercito cavalleresco, incapace di compiere brutalità, rispettoso del nemico e delle popolazioni indigene. Nei suoi numerosi interventi pubblici negò ripetutamente l'impiego sistematico di armi chimiche. Quando però, nel 1996, l’archivio Storico dell’Esercito confermò le affermazioni di Del Boca, Indro Montanelli dovette ammettere pubblicamente di aver sbagliato.

Prima di diventare docente di Storia Contemporanea all’Università di Torino, Del Boca ha avuto una brillante carriera di giornalista (inizialmente redattore capo del settimanale socialista “Il Lavoratore di Novara”, poi inviato speciale della “Gazzetta del Popolo” e infine del “Giorno”) che lo ha portato a incontrare, a giro per il mondo, i personaggi più vari. Come ha raccontato il suo collega Gian Antonio Stella: “In quasi settant’anni di (grande) giornalismo, Angelo Del Boca ha incontrato peregrinando per il mondo principesse e imperatori, despoti e statisti, santi e guerriglieri che hanno segnato il secolo (…) Erano da spavento alcuni uomini che Del Boca ha incrociato in decenni da inviato. Come il fanatico Akao Bin, che scatenava i suoi adepti armati di pugnale contro i leader della sinistra giapponese e accolse il giornalista, tutto solo perché persino l’interprete si era rifiutata di partecipare all’incontro, dichiarando la sua fede nazifascista sotto i ritratti di Cristo, Confucio, Maometto e Buddha. O come Adolf Eichmann, il pianificatore dell’Olocausto, che aveva l’aria di ‘un pallido signore, con gli occhiali dalla montatura pesante e una calvizie da intellettuale‘ e seguiva il processo che l’avrebbe condannato a morte torcendosi le mani. O ancora il dittatore vietnamita Jean Baptiste Ngo Dinh Diem che aveva sistemato in tutti i posti chiave moglie e fratelli e parenti. O vari satrapi africani dai profili inquietanti” ("Corriere della Sera", 29/11/2012).

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

7 luglio 2021

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