Come prevedibile, il sipario mediatico è calato sul Caucaso meridionale. Presto dimenticata è la pulizia etnica degli armeni del Karabakh. Ma è importante ricordare una cosa: la guerra non è finita. Dal 1994 ad oggi non si è raggiunto più di un cessate il fuoco, e i giovani soldati azerbaigiani e armeni continuano a morire, così come i civili. Non solo: le rivendicazioni territoriali del regime di Baku non sono esaurite, ma vengono anzi ossessivamente reiterate dai media nazionali. Manca inoltre del tutto un equilibrio militare e diplomatico tra Azerbaijan e Armenia: in questa fase, l’unico modo per evitare una recrudescenza del conflitto è quello di frenare le ambizioni della famiglia Aliyev, che si guarda bene dal chiudere una partita che la vede vincente ininterrottamente dal 2020.
Non è una questione di chi sostenere, ma se la comunità internazionale abbandona l’Armenia – sull’orlo del collasso – al suo destino, il rischio reale è quello di una nuova pulizia etnica. Questa volta in territorio armeno. “Il fatto che l’orribile esodo di massa di 120.000 armeni dal Nagorno-Karabakh abbia ricevuto così poca attenzione da parte dei media internazionali e della diplomazia dice tutto ciò che c’è da sapere sullo stato del mondo in questo momento,” scrive Andrew Stroehlein, direttore editoriale e dei media europei di Human Rights Watch. Difficile dargli torto. Eppure, non mancano alcuni segnali di moderato ottimismo, nonostante la situazione rischi di esplodere da un momento all’altro. Francia e Germania hanno dato segni tangibili di un supporto a Yerevan che ha irritato non poco Baku, mentre Blinken ha informato un numero ristretto di deputati americani su di una nuova possibile aggressione, facendo trapelare la notizia sulle pagine di Politico. Le minacce di sanzioni, in caso di un nuovo attacco, si moltiplicano nei parlamenti di diversi paesi europei. Ma potrà bastare?
La realtà è che il fronte dei vicini, oggi più che mai, pare compattarsi contro Yerevan. A Mosca il razzismo nei confronti degli armeni ha ormai invaso i media di stato, mentre la spinta ideologia a cancellare la “rivoluzione colorata” del 2018 non è mai venuta meno, trasformando la figura di un Pashinyan sconfitto militarmente in un trofeo e un monito, per chi in futuro cercasse di imboccare la via democratica. C’è poi l’Iran che, ridimensionando il suo tradizionale appoggio all’Armenia, guarda ora a Mosca con rinnovata fiducia, grazie a una collaborazione sempre più ampia che dalla Siria all’Ucraina a Israele li vede sempre più uniti.
Per l’Azerbaijan e, sullo sfondo, la Turchia, la questione è ancor più centrale. L’armenofobia è fattore fondante del giovane nazionalismo azerbaigiano, rinato alla fine dell’Urss nutrendosi del sentimento di vendetta nei confronti della sconfitta contro l’Armenia e della perdita del Karabakh. Si è così strutturato come una spina dorsale della dittatura, che ha trovato legittimazione e consenso nella promessa (mantenuta) di farla pagare agli armeni per la prima guerra persa in Karabakh. Ma ora la dinastia Aliyev è pronta per la pace e la normalizzazione? Per quanto risulterà spendibile il capitale di questa vittoria, per quanto travolgente ne sia stato l’esito? Difficile dirlo, ma i segnali sono quelli indiscutibili che, al momento, indicano una precisa volontà di proseguire rivendicazioni e tensioni, nella volontà di sfruttare – sia da un punto di vista interno che internazionale – l’onda di sangue dei conflitti che, dall’autunno 2020 ad oggi, continuano a riesplodere a cadenza costante. Anche qui, c’è poi una doppia componente ideologica da considerare, tanto per Baku che per Ankara. Il vecchio sogno di un neo-ottomanesimo che, alla pari del nazionalismo russo, non ha mai concepito il Caucaso meridionale che come un giardino di casa, di cui disporre a piacimento negandone ogni impulso indipendente. Questo, paradossalmente, si coniuga assai bene oggi anche con il panturchismo, che vede nella piccola Armenia un ostacolo da spazzare via per rimettere in comunicazione vitale il mondo di lingua e cultura turca dalla Cina (Xinjiang) fino al Mediterraneo.
Last but not least, come è sempre più evidente anche nel conflitto contro l’Ucraina e in quello israelo-palestinese, a far da collante per le dittature di cui sopra è un sentimento di rivalsa – insieme simbolico e assai concreto – che vuole cancellare in modo sistematico l’esperienza delle democrazie, che continuano a rappresentare una minaccia per le varie realtà dittatoriali che, grazie anche all’appoggio della Cina, si inebriano di vivere una grande stagione di affermazione a livello planetario. Ed ecco allora che, dietro alle rivendicazioni della famiglia Aliyev – tanto cara al governo Meloni e al Vaticano, che ha intascato milioni di euro da questa, ufficialmente per progetti “culturali” – si nascondono pulsioni profonde e forse ineludibili, in una situazione esplosiva come quella presente. Si accampano così richieste ossessive che vorrebbero rimettere in discussione l’integrità territoriale dell’Armenia a Sud ed a Oriente, ma anche spingendosi a invocare una conquista integrale dell’Armenia tutta che, nella retorica dei falchi di Baku, ora viene significativamente chiamata “Azerbaijan occidentale”. Abbiamo visto il tripudio indecente di Mosca dopo il pogrom del 7 ottobre, capace di infliggere in un solo colpo un attacco formidabile al mito dell’invincibilità di Israele (e dell’Occidente) e, insieme, di alleggerire la pressione nella guerra in Ucraina. Ora, è così difficile vedere come un’apertura del fronte armeno e la conseguente cancellazione della sua fragile democrazia possano rappresentare un obiettivo facile da raggiungere e assai proficuo, da un punto di vista simbolico? La diplomazia europea sarà in grado di trovare una sintesi non solo retorica su questo punto?
L’ottimismo è poco, e trent’anni di fallimenti diplomatici difficili da dimenticare. Ma è certo che serve – e subito – ridare nuova linfa alle giovani democrazie della regione, Armenia e Georgia, per salvarle, ma anche per sperare che un giorno possano contagiare i vicini. Perché uno dei grandi rimossi di questo conflitto resta l’opposizione azerbaigiana, sempre più ignorata dai media e dalle cancellerie internazionali, ma anche sempre più vessata all’interno man mano che la dittatura si rafforza e vince. Eppure, rappresenta una fra le pagine più belle della storia del Caucaso meridionale degli ultimi decenni. Salvare queste piccole isole in un oceano di autocrazie non è più solo una questione morale. È una questione di sopravvivenza per il futuro della democrazia nello spazio post-sovietico e, in prospettiva, nel cuore dell’Europa stessa. Perché, se non saremo in grado di invertire il trend di minacce e pressioni che ci incalzano dalle frontiere del continente, presto – il pericolo è questo – il sipario calerà su di noi.

Analisi di Simone Zoppellaro, giornalista