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Assad e la lezione di Auschwitz

editoriale di Gabriele Nissim

Si poteva bombardare Auschwitz e distruggere la macchina dello sterminio nazista? – si è chiesto ripetutamente Yehuda Bauer, il grande studioso della Shoah. Nel 1942 era un’impresa impossibile perché gli americani non possedevano degli aerei in grado di coprire una distanza così grande e allora nessuno si immaginava quanto stava accadendo; poi a partire dal 1944 era molto probabile che un bombardamento sui binari che portavano i treni ad Auschwitz avrebbe avuto scarsi risultati, perché i tedeschi li avrebbero facilmente ricostruiti; secondariamente se si fossero lanciate delle bombe sui lager ci sarebbero state centinaia di vittime ebraiche. Eppure, sostiene Bauer, la questione non era di ordine militare, ma di ordine squisitamente morale. Sarebbe stato impossibile salvare gli ebrei, ma si sarebbe potuto lanciare un messaggio di solidarietà alle vittime. Il mancato bombardamento di Auschwitz è stato dunque prima di tutto un fallimento morale, più che un’opzione militare tecnicamente possibile e non portata a termine.

Lo stesso dilemma morale lo sta affrontando in questi giorni il presidente americano Obama di fronte all’uso di armi chimiche da parte dell’esercito siriano di Assad, anche se le proporzioni delle vittime non sono comparabili a quelle dell’Olocausto.

Voltare la testa dall’altra parte, per ragioni di realpolitik, significherebbe non comprendere come l’uso del gas nervino non rappresenti soltanto un atto di barbarie in più nella guerra che da due anni il dittatore siriano sta conducendo contro il suo popolo e che è costata fino ad oggi 110 mila vittime e due milioni di rifugiati, ma un salto qualitativo con delle conseguenze imprevedibili.

Assad infatti ha usato il gas perché si è reso conto che per continuare a governare il Paese e piegare la resistenza ha bisogno di utilizzare armi di distruzioni di massa che possano seminare il terrore.

Oggi se vuole mantenere il suo potere non gli è più sufficiente bombardare i ribelli con bombe ed armi convenzionali, come quando Saddam Hussein usò il gas perché non aveva altro modo per fermare la resistenza dei curdi.

Se la sua azione non venisse bloccata dalla comunità internazionale non soltanto il dittatore non avrebbe più limiti, ma l’uso di armi non convenzionali potrebbe diventare una tentazione per altri attori della crisi mediorientale.

Ma anche un intervento unilaterale americano, nella forma fino ad oggi molto confusa che si sta delineando, rischia di non portare da nessuna parte e di dare spazio a tutte le forze peggiori che si muovono nello scacchiere, dai gruppi di Al Qaeda che cercano di sostituirsi al potere di Assad, agli Hezbollah che lanceranno missili ad Israele, all’Iran che fomenterà i terroristi sciiti in Iraq e in Libano.

Questa crisi mostra ancora una volta l’impotenza della comunità internazionale nella prevenzione e nella punizione dei crimini contro l’umanità.

Cosa fare dunque quando le Nazioni Unite non sono in grado di porre termine al “democidio” di Assad con l’imposizione di una forza internazionale che ponga fine ai massacri e porti ad una conferenza di pace che metta fuori dal gioco i gruppi terroristi?

Come ci suggerisce Yehuda Bauer, dalla lezione di Auschwitz, ci vorrebbe un grande atto simbolico che condanni l’uso di armi chimiche e mostri alle vittime come il mondo non possa rimanere in silenzio di fronte a questo crimine.

Allora sarebbe stato importante bombardare i binari, oggi forse bisognerebbe cominciare una campagna mediatica contro Assad e chiedere la sua incriminazione davanti ad un tribunale internazionale.

Non esiste solo la forza delle bombe, ma anche quella del giudizio e della condanna morale di cui ha parlato Papa Francesco e che tutti i social network e gli strumenti mediatici potrebbero amplificare con la mobilitazione di tutti gli stati democratici.

Tutto questo forse potrebbe scuotere le diplomazie per dei nuovi possibili scenari. Purtroppo, come sembra, rischiamo di assistere ad un intervento americano senza alcuna prospettiva politica.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

4 settembre 2013

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