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“Auschwitz non finisce mai” secondo Marcello Flores

La relazione dello storico alla Casa della memoria

Riprendiamo la relazione dello storico Marcello Flores sul libro di Gabriele Nissim “Auschwitz non finisce mai” (Rizzoli, 2022) in occasione della presentazione del 15 settembre 2022 presso la Casa della memoria di Milano.

Il dibattito storiografico, e anche di altra natura, che è stato fatto a proposito della Shoah negli ultimi decenni ha come punto centrale il rifiuto della sua sacralità e della sua sacralizzazione. Si tratta di un rifiuto consapevole perché il compito che ci si ripropone è quello di riportare la Shoah nella storia, sottraendola quindi a visioni religiose o metafisiche.

Nel frattempo come salvaguardare la sua memoria che, per essere tale, deve essere una memoria non solo per gli ebrei ma per tutti? Del resto ad uno storico fa un po’ ridere la storia dell’unicità della Shoah perché tutti gli eventi storici sono unici. Dire che la Shoah è unica è una tautologia che vale per la Rivoluzione francese, per il Genocidio degli armeni, per la guerra che Putin ha scatenato contro l’Ucraina. Quindi il problema non è l’unicità ma il valore unico che si vuole dare alla Shoah, inserendola quindi in una sorta di categoria religiosa.

In questo libro Gabriele racconta bene la natura religiosa, che c’è stata soprattutto in Israele, di questo tipo di ragionamento, che nasce negli anni 60’ e si sviluppa negli anni.

La questione principale è che la Shoah ha un aspetto che la differenzia da tanti altri genocidi ma anche momenti di tragedie e massacri che il mondo contemporaneo ha conosciuto in abbondanza. Si tratta del fatto che il termine, la parola e il concetto di genocidio nascono nel momento in cui si sta compiendo la Shoah.

Questo è, dal punto di vista storico, ciò che ci permette di capire la mente di Raphael Lemkin, di cui Gabriele ci dà un ampissimo resoconto biografico. Sin dagli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, quando studiava legge all’università, Lemkin aveva cercato un termine per identificare un crimine di massa. Nella sua autobiografia racconta la discussione con il suo professore in seguito a quando il giovane armeno che uccide nel 1921 a Berlino Mehmed Tal'at Pascià viene assolto dal giudice di Weimar che lo processa.

La discussione tra il giovane studente e il professore è sul fatto che non esistesse uno strumento giuridico per portare Tal'at Pascià di fronte ad un tribunale. C’è l’omicidio plurimo, l’omicidio aggravato, ma non c’è uno strumento giuridico per colpire questi atti. Da lì Lemkin ci pensa a lungo.

Quando è stato il momento in cui ha la possibilità di identificare un concetto e quindi un termine per quello che aveva in mente? Quando questo fenomeno avviene in modo esplicito e netto, perché possiamo dire che la Shoah è il genocidio più esplicito, più coerente e più completo, da un certo punto di vista, che accade nella storia. Questo è il significato storico della Shoah: ci fa comprendere una cosa che fino a quel momento era rubricata in vari modi, sotto termini come: violenze, massacri etc.

Successivamente Lemkin riuscirà - anche se non completamente - a far approvare nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio che ciò che caratterizza il genocidio; sono sostanzialmente due: l’intenzione di distruggere un gruppo etnico, nazionale e religioso -anche politico secondo Lemkin; l’intenzione di distruggere un gruppo in quanto tale, affinché non esista più. L’intenzione, fondamentale, è diversa dai massacri che avvengono nelle occupazioni, nelle guerre, nelle conquiste di territori, nella demolizione di popoli interi.

Non è facile riscontrare questi elementi nella storia dei massacri. La discussione a questo proposito tra gli storici è molto ampia. In gran parte questi ultimi utilizzano la parola genocidio in modo più ampio rispetto alla sua definizione nella storia della convenzione. In alcuni casi è condivisibile, ad esempio nel caso dei popoli americani durante la conquista spagnola: quei popoli sono stati distrutti e cancellati completamente. Tuttavia, in questo caso non c’era l’intenzione da parte degli spagnoli di distruggere la popolazione americana. Quindi, basandosi strettamente sulla Convenzione, non rientrerebbe nella definizione di genocidio.

L’importanza dell’introduzione della parola genocidio e la novità che Lemkin individua in questo termine è che, anche se pronunciata in modo diverso, la parola “genocidio” è identica in tutte le lingue del mondo. Non sono un linguista, ma non credo che ci siano altri termini che sono identici in tutte le lingue. Questo perché è un termine nuovo che rappresenta quel qualcosa che appartiene intrinsecamente alla modernità e che continua a illuminare quell’aspetto tragico che è stato più volte ricordato sulla modernità.

Come fa Gabriele a raccontarci tutto questo? Fa parlare i problemi di cui discute -l’unicità, la memoria, la rappresentazione- attraverso dei personaggi. Questo è anche la grande forza narrativa di questo libro: attraverso Simone Veil, Primo Levi, Wiese e Grossman ricorda alcuni episodi, anche personali – quello della suora di Auschwitz, ad esempio, mi fa capire la questione della fede e di Dio che è stata richiamata nella teodicea. Attraverso Yehuda Bauer, che rappresenta una svolta nella storia della consapevolezza in Israele, ricorda l’idea di un genocidio senza precedenti, di un genocidio che diventa il paradigma, l’idealtipo dei genocidi a cui fa riferimento successivamente; oppure anche la discussione interessantissima e profonda che c’è in Israele sulla condanna a morte o meno di Eichmann. Alla fine, questa discussione trova una scelta evidentemente politica che non soddisfa le posizioni più morali nel mondo ebraico e israeliano.

Quello che Gabriele mette in evidenza, essendo anche protagonista di polemiche nel mondo ebraico italiano ed internazionale, è una divisione tra chi intende “Mai più” come “Mai più per gli ebrei” e chi invece lo intende come “Mai più per l’umanità”. La seconda è l’aspetto a cui lui sceglie di aderire, perché è l’unico modo per dare un senso storico pieno e compiuto all’evento storico della Shoah senza renderlo di natura religiosa, senza che appartenga soltanto al popolo ebraico.

Raccontato tutto questo, una buona metà del libro è il racconto della storia di Lemkin. Lemkin ha conosciuto una grande fortuna negli ultimi 15 anni, prima era stato a lungo dimenticato mentre adesso i suoi archivi sono disponibili, la sua autobiografia, e tutto il suo materiale. Tuttavia, è un personaggio che viene utilizzato da tutti perché ha scritto tanto e a volte in modo contraddittorio. Ad esempio, a volte sembra che la storia sia stata un grande insieme di genocidi; non a caso una corrente importante della storiografia sui genocidi lo utilizza per sostenere sostanzialmente che la Shoah è soltanto la punta di un genocidio che abbraccia tutta l’età del colonialismo. E quindi, in qualche modo, riduce la Shoah e gli altri genocidi a emergenze numericamente molto più gravi, ma le inserisce in un discorso in cui la condanna è al colonialismo e poi al capitalismo, dando -a mio avviso- una sorta di spiegazione di religione laica all’avvenimento e quindi rifiutando di comprendere davvero quello che è accaduto.

L’eredità di Lemkin, che è stata ripresa nelle discussioni sulle scelte e prese di posizioni delle Nazioni Unite su varie leggi negli ultimi anni, non riguarda i gruppi politici. I gruppi politici non furono inseriti nella Convenzione perché l’Unione sovietica era contraria per ovvi motivi. Tuttavia, come molti hanno sostenuto, l’appartenenza al gruppo politico è un’appartenenza mobile: si può cambiare dieci volte l’appartenenza politica nel corso della propria vita ed è difficile che questa identità sia forte. Al contrario, l’etnia, la nazione, la religione sono quell’elemento che caratterizza l’esistenza consolidata e permanente di un gruppo che come tale qualcuno può voler distruggere con un genocidio. L’eredità di Lemkin è ciò che ha lasciato scritto sul genocidio culturale: tutte le forme di distruzione non puramente fisiche -anche se in genere sono sempre accompagnate da distruzioni fisiche- di una determinata cultura, senza la quale un popolo non può evidentemente riuscire a sopravvivere. Durante la discussione della Convenzione il rappresentante danese, se non ricordo male, lo prese un po’ in giro, chiedendogli se volesse mettere sullo stesso piano la distruzione delle biblioteche con i campi di concentramento. Era un modo – questo – che dimostrava di non voler capire la profondità invece di quell’idea che invece voleva andare oltre l’elemento immediatamente riconoscibile della distruzione fisica che era avvenuta nel corso della guerra e andare a cercare i realismi di quello che sarebbe stato possibile con la distruzione dei patrimoni, dell’identità culturale, della lingua, e così via.

Credo che questo libro, proprio per la sua linearità e, per certi aspetti, anche per il fascino e insieme la semplicità della scrittura, dovrebbe essere discusso, dovrebbe essere fatto leggere molto anche ai giovani e ai ragazzi, perché è un modo per andare oltre nelle discussioni e problematiche che nel del mondo e all’interno dell’accademia di coloro che rappresentano le memorie e le identità spesso sono un po’ fisse, sclerotizzate. Qui invece c’è questo bisogno, afflato di comparazione per comprendere il modo presente, successivo alla Shoah e quello che il futuro può anche darci.

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