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Che cos'è Auschwitz oggi. Considerazioni sui viaggi della memoria nel campo di sterminio

di Francesco M. Cataluccio

Venerdì 19 maggio, al Salone del libro di Torino, nella SALA AZZURRA (Pad. 3), dalle 13,15 alle 14,15, in occasione dell'uscita del libro di Yeuda Bauer, Ebrei un popolo in disaccordo (Gariwo/Cafoscarina 2023), il direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau Piotr M. A. Cywiński, il giornalista e saggista Wlodek Goldkorn e Gabriele Nissim, fondatore e presidente di Gariwo, discuteranno del tema della memoria e dell'uso didattico che viene fatto delle visite ad Auschwitz.
Pubblichiamo come introduzione una riflessione di Francesco M. Cataluccio, scrittore, saggista e responsabile editoriale della Fondazione Gariwo, che parteciperà al dibattito. 

In relazione alla Shoah, le carenze, le contraddizioni e le difficoltà del nostro atteggiamento nei confronti della memoria e i nostri modelli di comportamento di fronte al luogo e al simbolo di tale memoria vengono alla luce in modo molto evidente. Lo sterminio degli ebrei è stato infatti un avvenimento di una tale enormità da essere difficilmente descrivibile e raccontabile. Per questo la questione della sua memoria è così complessa e suscita sempre molte discussione (unicità/non unicità; uso politico e nazionale; valore delle testimonianze delle vittime e dei luoghi storici come documenti). Come ha scritto Simone De Simoni (Sulle tracce della memoria. Il memoriale della Shoah di Berlino, "Rivista di Estetica", n. 45, 2010) la memoria pubblica della Shoah, tassello fondamentale per la formazione di un’identità condivisa europea, assume un profilo sempre più incerto: instabile dal punto di vista epistemologico, ambiguo sul versante politico.

Piotr Cywiński, direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau, nel suo libro Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz (Bollati Boringhieri, 2017) ricorda che Auschwitz è un simbolo potente. Ogni anno viene visitato da più di un milione di visitatori, decine di migliaia dei quali provengono dall’Italia. C’è un’intera generazione ormai figlia del profondo significato che quel luogo ha assunto nel nostro tempo, figlia dei viaggi della memoria. Che cosa cercano quei ragazzi ad Auschwitz, che cosa cerchiamo tutti noi? Che storia ci racconta? Settant’anni dopo la fine della guerra, Auschwitz ormai parla ai nipoti e ai bisnipoti di chi visse quell’immane tragedia, di chi la vide o non la volle vedere, di chi la mise in atto. Ed è diventata anche un simbolo, il luogo dove si cristallizzano le domande irrisolte che la Shoah porta con sé.

Primo Levi raccontando la genesi del suo Se questo è un uomo (nel capitolo Cromo de Il sistema periodico), ha scritto che la memoria, intesa come fatto sociale, condivisibile e trasmissibile, esige una presa di distanza, l’interposizione di un diaframma, innanzitutto temporale, tra l’evento traumatico e il presente del resoconto. Il ricordo, infatti, deve fare i conti tanto con il mutare delle condizioni materiali di fissazione e trasmissione, quanto con un’esibizione pubblica eccessivamente ritualizzata che tende a smorzarne il contenuto reale. Appare dunque necessario individuare strategie efficaci per sbloccare una pratica di memoria satura e abusata e garantire, al contempo, il passaggio dalla “memoria viva” alla “memoria culturale”. Questo riguarda sopratutto l’immaginario di giovani che non hanno vissuto l’evento in prima persona e che, pertanto, ne possiedono un ricordo interamente mediato.

Tutto ciò va considerato a partire dall'uso che viene fatto di un luogo simbolo come Auschwitz-Birkenau e il museo ad esso legato, da parte dei visitatori e soprattutto dei giovani in viaggio di studio. Alcuni recenti episodi legati ai selfie sullo sfondo i luoghi dello sterminio o comportamenti inadeguati, come episodi di gioco tra ragazzi, debbono far ripensare all'uso che viene fatto di questo come di altri luoghi di morte e dolore. Gli studenti che vanno ad Auschwitz con i "treni della memoria" non sono turisti per caso. Sono stati istruiti dai loro insegnanti. Hanno letto i libri di Primo Levi (Liliana Segre: "Ho sempre ritenuto che Primo Levi sia l'unico sopravvissuto italiano che abbia scritto e detto le cose come stavano, senza aggiungere una parola retorica, un aggettivo non necessario"). Conoscono le testimonianze di sopravvissuti come, appunto, Liliana Segre, Nedo Fiano, Sami Modiano, Piero Terracina, Shlomo Venezia, Edith Bruck. Le guide polacche che accompagnano i visitatori sono molto preparate e parlano bene le lingue. Hanno l'input di non battere troppo sull'aspetto emotivo di ciò che mostrano, ma dare molte informazioni di carattere tecnico: misure degli edifici, capienza delle camere a gas, numero di treni giornalieri in arrivo, funzionamento delle varie strutture del campo... Perché, come spiegano: "Le emozioni passano, la comprensione resta".

Gli studenti dei "viaggi della memoria" sono ragazzi che assieme vivono un'esperienza spiazzante, inimmaginabile, opprimente. Le loro reazioni (tra le quali rientra, a volte, anche il pianto) vanno considerate alla luce di questo fatto. Nessuno è pronto a passare alcune ore in quel buco nero della storia dell'umanità. Tantomeno dei giovani che possono esser portati a illudersi che i libri, i documentari, i film, e persino il racconto di un sopravvissuto venuto a testimoniare nella loro scuola, costituiscano una sufficiente "barriera di protezione" per quello che andranno a vedere e ascoltare.

Le guide dicono che la cosa più difficile con i visitatori (soprattutto più giovani) è convincerli a non farsi ovunque i selfie. Ormai le persone si fotografano ovunque si trovino. È giusto dissuaderli, ma sarebbe meglio invitarli a osservare e riflettere sul comportamento degli altri visitatori e sul modo in cui affrontiamo la memoria in generale. Le persone scattano foto ricordo: la foto viene usata come prova, come prova che ero lì. La pretesa di fare i conti con la storia e l'impotenza di fronte alla mostruosità del genocidio si scontrano in queste "prove materiali del ricordo". Ad Auschwitz questo modello di comportamento assume dimensioni assurde. Si sgretola di fronte allo "sfondo di Auschwitz". La prova "sono stato ad Auschwitz", una dichiarazione più che ambivalente, si blocca in una posa inappagabile.

Il fotografo Joachim Seinfeld, quando nel 1994-1995 si recò ad Auschwitz-Birkenau col compito di esaminare tutto il materiale visivo (fotografie, disegni, film e opere d'arte) osservò che tutti i tipi di persone si facevano fotografare sotto il cancello del campo, con la scritta "Arbeit macht frei":" Ho iniziato quindi a fotografare le persone che si fotografavano a vicenda. Non ho cercato altri contatti con loro. In occasione della mostra Auschwitz-Prozess alla Haus Gallus di Francoforte sul Meno e al Martin-Gropius-Bau di Berlino nel 2004 e 2005, le fotografie dei visitatori costituivano solo una parte dell'intero lavoro. La seconda parte consisteva in un'installazione fotografica: davanti a una grande stampa a colori (300x250 cm) raffigurante il cancello con la scritta "Il lavoro rende liberi", una macchina fotografica Polaroid si trovava a una distanza tale da fare in modo che i visitatori in posa potessero farsi fotografare davanti allo sfondo. Chiedevo ai visitatori di scrivere i loro commenti intorno al bordo della Polaroid. Attraverso l'offerta provocatoria di lasciarsi fotografare davanti a uno sfondo che simboleggia la "soluzione della questione ebraica" e l'ondata di terrore e distruzione causata dalla Germania nazista che ha attraversato l'Europa ed è diventata un'icona del male, i visitatori sarebbero stati incoraggiati a riflettere sulla propria risposta riflessiva e indiscussa al ricordo. Le reazioni sono state sorprendentemente positive, tranne una, in cui il mio lavoro artistico è stato paragonato alla perversione di Mengele. Non solo le persone si facevano fotografare e scrivevano sul margine della Polaroid, ma i loro commenti erano estremamente sensibili e riflessivi. Ho avuto l'impressione che ci fosse il bisogno di esprimersi sull'argomento e di affrontare il modo in cui ricordiamo tali orrori". (J. Seinfeld, Souvenir Photograph. Photographic tourist, in: "pl.it rassegna italiana di argomenti polacchi", n. 9, 2018).

Il documentarista ucraino Serhij Volodymyrovyč Loznycja, con il film Austerlitz (2017), ci ha mostrato implacabilmente come un lager (in questo caso quello di Sachsenhausen) possa essere ancora un luogo dell'orrore, anche se in un altro senso, e senza morti. La muta macchina da presa mostra, in una calda giornata estiva, la sfilata di turisti annoiati, che pesticciano il terreno con le loro infradito colorate e magliette con slogan come "Just Don’t Care”. Si fotografano in posa, con perfetta nonchalance e senza il disturbo di alcun dubbio etico, nelle camere a gas o sui pali dove i prigionieri venivano impiccati. Quasi nessuno dei visitatori adulti immortalati ha un’espressione sofferente in volto, che tradisca una minima comprensione del luogo in cui si trova. Il pessimismo di fronte alla deriva intrapresa dall’umanità nel suo complesso è totale e Loznitsa ci obbliga a interrogarci sul senso stesso di questi luoghi. È giusto che i campi di concentramento siano diventati musei? Che cosa intendono esibire al pubblico? Perché, in fondo, il comportamento tenuto dai visitatori a Sachsenhausen è quello che questi abitualmente riservano, nell’era degli smartphone, a qualsiasi attrazione turistica: nessun segno di interesse a parte l’azione meccanica e compulsiva di fotografare tutto quel che si può immortalare, misto a un generico senso di visita effettuata per dovere, o per decisione altrui. Trasformare il luogo della memoria in un canonico percorso museale, con contorno di comitive e pranzi al sacco, significa automaticamente uccidere il difficile percorso introspettivo personale, che dovrebbe accompagnare la riflessione in un luogo simile. Come ha notato Emanuele Sacchi (in: Mymovies.it, 9/9/2016) Loznitsa non condanna i turisti né li osserva dall’alto verso il basso, si limita a fotografare uno stato di cose che potrebbe rappresentare un inquietante campanello d’allarme sulla coscienza collettiva e su come ci relazioniamo oggi con la Storia e con i suoi orrori.

Il dibattito mai risolto su quale tipo di memoria conservare, come farlo, in nome di chi e a quale scopo, chiama in causa direttamente Auschwitz. Il rischio è che un giorno l'unica cosa che rimarrà in piedi sarà il "turista della memoria". Per questo bisogna far capire agli studenti che Auschwitz, che soltanto dagli anni Ottanta si è trasformata in sinonimo della Shoah, è una realtà talmente complessa, e sovente strumentalizzata, da rischiare di trasmette messaggi contraddittori. Wlodek Goldkorn, i cui parenti sono stati ammazzati ad Auschwitz, ha scritto del suo profondo disagio difronte a un luogo che "sembra una fantasmagorica costruzione posticcia (...), un luogo postmoderno, inventato per rappresentare gli orrori del Novecento e per esserne il simbolo". (W. Goldkorn, Il bambino nella neve, Feltrinelli, 2016).

A proposito di strumentalizzazione basti pensare a quanti romanzi, rielaborazioni edulcorate di storie vere, sono stati pubblicati negli ultimi anni, usando Auschwitz come titolo che attrae e che nulla hanno a che vedere con la realtà o la memoria: Heather Mossis, Il tatuatore di Auschwitz (Garzanti, 2019) e Tre sorelle di Auschwitz (Newton Compton 2023); Otto Gabriella Saab, La ragazza che giocava a scacchi ad Auschwitz (Newton Compton, 2022) e poi: La bambina di Auschwitz; Il maestro di Auschwitz, Le gemelle di Auschwitz; La libraia di Auschwitz...

In tutta questa manipolazione, che disorienta soprattutto i giovani, si finisce per mettere in secondo piano alcuni aspetti molto importanti:

a) quel luogo non è la fine definitiva di quel dramma che ha portato alla Shoah (quel "mai più" che risuonò nell'aula del Processo di Norimberga): i sopravvissuti continuarono per diversi anni ancora a essere vittime di linciaggi e violenze, e in seguito, fino a oggi, di volgari negazionismi e attacchi antisemiti. Navigando in rete è facile accorgersi subito che su Auschwitz circolano non soltanto cretine tesi negazioniste ma anche fantasiose ipotesi paranoiche come quella che scambia una lunga vasca d'acqua in funzione antincendio, tra la prima e la seconda barriera di filo spinato, per "una piscina dove i prigionieri d'estate facevano il bagno";

b) il diffuso senso di morte di quel luogo, dove milioni di persone furono stritolate e cancellate, fa dimenticare che essi avevano una vita. Per le strade della vicina Cracovia, si possono cogliere ancora delle tracce della vita della comunità ebraica e immaginare cosa accadesse nella piazza della macelleria rituale, sotto gli alberi della Via Larga (Szeroka), nelle casette dietro la barocca Sinagoga Kupa, o nei bei palazzi ottocenteschi che costeggiano la via del Ponte (Mostowa). Ma è piuttosto difficile perché il quartiere ebraico Kazimierz si è molto trasformato negli ultimi trent'anni: pieno di locali e ristoranti falsoebraici e negozietti per turisti. Il contrasto tra questa pacottiglia e il campo di sterminio è molto stridente. Si rischia di scambiare come vera soltanto la morte;

c) Auschwitz, come altri luoghi e situazioni dove furono sterminati gli ebrei, sono responsabilità dei tedeschi. Ma non furono soli. I treni che portavano là gli ebrei erano stati organizzati con la complicità di altri popoli. Gli studenti italiani non devono dimenticare che, ad esempio, Primo Levi fu catturato dai fascisti italiani e consegnato ai tedeschi per essere trasferito poi ad Auschwitz, come sosteneva un'altro dei pochi sopravvissuti, Pietro Terracina: "Auschwitz non è solo colpa della Germania. Anche altri governi furono carnefici di questo male. Il governo francese dopo l'armistizio ha consegnato tanti ebrei ai nazisti. Eppure in altri paesi come la Danimarca questo non è successo. Il Re si oppose alla deportazione. Si mise anche lui la stella che contrassegnava gli ebrei, fece pressioni sul popolo e questo bloccò la deportazione degli ebrei danesi.

Perché questo in Italia non accadde? Anche in Bulgaria gli ebrei furono salvati dallo sterminio. Perché questo in Italia non accadde? Se qualcuno che poteva si fosse opposto non ci sarebbe stata nessuna deportazione. In Italia gli ebrei sono presenti da circa 2300 anni. Eppure questa civiltà fu negata. Agli ebrei era vietato non solo l'avere ma anche essere." (Claudio Verniani, Testimonianza di Piero Terracina "Io, deportato ad Auschwitz", su Triangolo Viola, 7/11/2002).

Il problema che sta a monte di tutto questo è ovviamente più complesso e ha a che fare con la diffusa identificazione degli ebrei con lo sterminio di milioni di essi. Lo studioso israeliano dell'Olocausto Yehuda Bauer, nel recente libro Ebrei. Un popolo in disaccordo, (Cafoscarina/Gariwo, 2023), ha affermato chiaramente: "La storia del popolo ebraico non è la storia dell’antisemitismo". E invece Auschwitz intrappola gli ebrei nella morte: li identifica con il loro sterminio. Per Yehuda Bauer è importante abituare gli educatori, gli storici, gli studenti al metodo della comparazione, non solo per cogliere comunanze e diversità in ogni contesto, ma per creare una coscienza globale e universale nei confronti di tutti i genocidi. La Shoah è il genocidio paradigmatico del Novecento, un male estremo che ci permette di cogliere il punto più terribile dove può arrivare la distruzione dell’umanità sul nostro pianeta. Come ha ricordato Gabriele Nissim, anche nel suo ultimo libro Auschwitz non finisce mai (Rizzoli 2023), lo studio e la memoria della Shoah sono una lente di ingrandimento che ci permette di cogliere la genesi del male in ogni situazione, come le differenze tra la Shoah e gli altri genocidi come del resto le differenze tra ogni genocidio che presentano sempre delle caratteristiche diverse che devono essere riconosciute. Non bisogna mai dimenticare che non c’è differenza tra la sofferenza degli ebrei, dei tutsi, dei russi e dei cinesi, dei congolesi o di qualsiasi popolo che si sia trovato in un omicidio di massa genocidario. Come ha scritto Bauer: "Non esiste una gradazione nella sofferenza, non esiste una tortura migliore di un’altra tortura, un omicidio migliore di un altro omicidio di bambini, uno stupro di massa migliore di un altro e non esiste dunque alcun genocidio migliore di un altro. L’idea di competizione non è solo ripugnante, ma totalmente illogica”.

La responsabilità della trasmissione del messaggio di Auschwitz al mondo è enorme e va pensata con cura, perché Auschwitz come abbiamo visto è molte cose, non una sola, e non appartiene solo a qualcuno, ma all’umanità intera. Non è solo lo sterminio sistematico degli ebrei d’Europa, non è solo l’attuazione di un’aberrante teoria razzista: Auschwitz ormai trascende la sua storia e parla direttamente a noi, ora e qui, proprio nel mondo in cui viviamo, perché in quel luogo, come scrive Cywiński, "l’Europa perse sé stessa". Auschwitz è un monito che viene dal passato, e il suo messaggio, per quanto complesso e doloroso, è più che mai necessario per pensare al nostro futuro. Auschwitz non dovrebbe più essere soltanto un'icona del Male, ma un prisma attraverso il quale vedere l'Europa e la sua storia: uno strumento per prepararsi ad agire nel mondo di oggi e di quello a venire.

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

16 maggio 2023

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