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Coltivare l’umano. La missione educativa di Gariwo

di Amedeo Vigorelli

Proprio nei giorni in cui Gariwo si accingeva a celebrare, senza trionfalismo, ma con una accresciuta consapevolezza del proprio compito civile, il ventennale della fondazione del Giardino dei Giusti del Monte Stella, l’opinione pubblica italiana è stata percorsa da un’onda (non sappiamo quanto profonda e duratura) di indignazione e di pietà per l’ennesimo episodio di incuria e di colpevole inerzia delle autorità preposte alla salvaguardia delle vite dei migranti e dei rifugiati, che da decenni percorrono le rotte marine e terrestri di un arrischiato cammino di sopravvivenza, sfidando il muro della nostra indifferenza e cinismo, tipico di persone tutto sommato privilegiate e fortunate. Non dobbiamo sottovalutare queste manifestazioni di condivisione e di empatia, derubricandole a fenomeni emozionali, a effetti indotti e amplificati del sistema informativo e mediatico. Dobbiamo semmai cercare di approfondirle, in funzione di quella coltivazione dell’umano che è stata opportunamente richiamata nella tematica ispiratrice di questa ultima Giornata dei Giusti (Salvare l’umano nell’uomo. I Giusti e la responsabilità personale”). È quello che il Presidente di Gariwo ci sollecita a fare nel suo ultimo editoriale (Gabriele Nissim, Il metodo Gariwo, 15/03/2023), con un richiamo specifico alla responsabilità degli uomini di cultura.

Egli ricorda i casi di due protagonisti della vita intellettuale del Novecento, il fisico teorico Ettore Majorana, e il filosofo tedesco Martin Heidegger, ascrivendoli al novero di un fallimento sul piano etico, per la condivisa acquiescenza al Nazionalsocialismo, da cui non li preservò l’indubbia genialità e vastità di conoscenze: “La conoscenza vera – scrive Nissim – è infatti quella che ci trasforma e determina il nostro agire. Una conoscenza senza impegno e attività non è vera conoscenza” (art. cit.). Al confronto, può capitare “che un uomo umile, meno attrezzato intellettualmente, si faccia trascinare da un impeto di bontà insensata di fronte a un sopruso. Egli non è solo un attore di giustizia in questo mondo, ma dimostra di sapere praticare fino in fondo la conoscenza di cui è portatore; a differenza di certi intellettuali narcisisti e indifferenti che avrebbero gli strumenti per agire ma pensano solo al proprio ego” (art. cit.). È – tra i molti altri – il caso di Lorenzo Perrone, la cui biografia ci è stata di recente riproposta da Carlo Greppi (Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo, Laterza, Bari-Roma 2023). A commento di casi come questo, potremmo citare le parole di un altro intellettuale novecentesco, il filosofo Piero Martinetti, che scrive nel suo Breviario spirituale: “vi è nello spirito del giusto che soffre una secreta convinzione che il suo sacrificio non sia per essere invano: e vi è nella bontà degli uomini la tacita persuasione che nella verità profonda delle cose la loro opera oscura abbia un valore più alto che gli splendori e le grandezze del mondo” (P. Martinetti, Breviario spirituale, Utet, Torino 2006, p.158). Martinetti scriveva queste parole nel 1923, un anno dopo l’ascesa al potere di Mussolini, nei cui confronti manterrà un atteggiamento di intransigenza morale, che gli costerà l’allontanamento dall’insegnamento universitario. Anche per questo gesto lo ritroviamo oggi tra i Giusti onorati al Monte Stella. Lorenzo Perrone e Piero Martinetti, entrambi piemontesi, il muratore semianalfabeta che salvò la vita di Primo Levi e il professore universitario che fu tra i pochissimi a rifiutare il giuramento di fedeltà al Fascismo. Questo affratellamento nella memoria mi sembra un buon esempio di quello che Nissim teorizza come il metodo Gariwo: un metodo che intende abbattere i confini artificiosi tra l’alto e il basso della società, tra il privilegio intellettuale e l’umile fatica del quotidiano, che vuole fare incontrare il senso di responsabilità che deve guidare la trasmissione delle conoscenze e la spontanea empatia che, specialmente nelle giovani generazioni, può ergersi a barriera contro il conformismo e l’indifferenza delle generazioni adulte.

Coltivare l’umano – abbiamo scritto – come compito educativo e come missione della nostra associazione. E la metafora agricola non è scelta a caso. Ho un ricordo personale, legato a una vecchia fotografia in bianco e nero (così diversa dalla pratica odierna del selfie digitale), che conservo da qualche parte nella casa della mia infanzia. È stata scattata in occasione della Festa degli alberi, che anche a quel tempo ricorreva alle soglie della primavera. Ritrae due ragazzini della scuola elementare, uno robusto e uno smilzo, intenti a scavare una buca dove alloggiare un arbusto sottile, destinato (come loro) a crescere e finalmente a confondersi in una foresta vegetale. È una felice metafora del segreto lavorio della natura, che produce risultati imprevisti e crea, da piccoli inizi, grandi risultati. Educare non è allevare, e tanto meno imporre una regola, uniformare. L’autentica educazione è una semina: occorre che i semi siano buoni e radicati in profondità, l’esito non è mai nelle nostre mani. Come Senofonte (che di educazione era un esperto) fa dire a Socrate nei suoi Memorabili: “né chi ha ben coltivato un campo sa con certezza chi coglierà i frutti, né chi ha ben costruito una casa sa chi la abiterà, né il generale sa se porterà benefici il suo comando, né il politico sa se porterà benefici la sua guida dello Stato” (Memorabili, I, 1, 8). Questo modello socratico di educazione andrebbe ripreso, se vogliamo evitare che da buoni semi risultino frutti adulterati, come avviene nei paesi totalitari e nelle democrazie tecnocratiche. Bene ha fatto Gabriele Nissim a proporre – come modello educativo – quello della comunicazione indiretta, che non propone modelli o stili di comportamento conformistici e massificati; ma che sollecita alla creatività e alla libertà; non alla competizione performativa ma alla emulazione virtuosa, anche mediante la narrazione e il ripensamento personale di esperienze reali, di concreti conflitti morali, di storie esemplari non per la loro unicità, ma per la loro universalità e comune imperfezione: “la persuasione indiretta che attiva la libertà della scelta individuale è il presupposto di una comunicazione non totalitaria” (art. cit.).

Ma, se queste sono le premesse, come valutare i risultati del processo educativo messo in atto dalla società e dal sistema politico, in un ventennio (quello del secolo in corso) che ha visto riproporsi i segni inequivocabili di quelle tendenze al pregiudizio, all’odio e alla discriminazione non solo in zone remote di un mondo sempre più unificato, ma al confine e fino nel cuore della civile Europa? Non suonano tali manifestazioni a clamorosa sconfessione dei generosi sforzi dei singoli e dei gruppi alla umanizzazione delle relazioni intercomunitarie, fino a relegare nello spazio di un nobile donchisciottismo quello che da alcuni di noi è avvertita come una missione inderogabile? Lo ha riconosciuto, con grande schiettezza, nelle stesse pagine di Gariwo, Giovanni Cominelli. In una lucida disamina del disordine mondiale contemporaneo (Il surf sulle onde della paura, 4/11/2022), lo scrittore milanese ha saputo ricondurre – sulla scorte delle analisi di Edgar Morin – le cause profonde dell’ondata di insicurezza e di paura che sembra costituire il mood delle nostre società opulente, e che alimenta discriminazioni e pregiudizi tra vecchie e nuove generazioni, nella crisi del modello monoculturale che ha governato per secoli la dinamica economica e socio-politica degli stati nazionali: “la globalizzazione ha scosso il mondo come non mai, ha fatto saltare confini e culture nazionali, ha messo in movimento milioni di persone, ha trasformato le persone concrete, radicate in tradizioni, territori, reti sociali in cittadini astratti universali, in potenziali apolidi cosmopoliti. La globalizzazione ha proposto una nuova forma di alienazione più profonda e omnipervasiva di quella classica denunciata da Marx. Abbiamo perso il controllo delle nostre vite, che paiono decise da forze potenti e oscure dell’economia, della finanza, del clima. Perciò, la reazione di chi è travolto dai flutti è attaccarsi alla zattera più vicina…” (art. cit.).

È difficile misurare quanto in profondità certi processi di ordine strutturale e strutturante siano in grado di penetrare nella psiche individuale, approfondendo quella che, con linguaggio marxiano, l’autore continua a chiamare (in assenza di un termine migliore) alienazione. Ma un luogo abbastanza plausibile di verificazione è offerto proprio da quei processi educativi e di apprendimento, alla cui analisi siamo interessati. Dobbiamo sbarazzarci qui della retorica giovanilistica, con cui si occultano le ferite (Nissim le chiama fragilità) che ogni processo di apprendimento morale e cognitivo comporta. L’animo umano non è una tabula rasa (fondamentalmente buona o meglio neutra) su cui l’esperienza inciderebbe un tracciato personale indelebile, per quanto aperto in più direzioni e su più sbocchi. Senza necessità di ricorrere a miti o speculazioni teologico-religiose (come l’idea di peccato originale), basterebbe ricostruire la ontogenesi e la filogenesi inconscia, che ha segnato gli anni formativi decisivi per la vita personale di ciascuno di noi, per privarci dell’illusione narcisistica di una onnipotenza e di una libertà di scelta priva di condizionamenti. Per questo è giusto ricordare (come Nissim suggerisce attraverso le parole di Etty Hillesum) la possibilità reale e niente affatto mostruosa delle peggiori condotte morali individuali (in situazioni di necessità, reale o indotta). È ipocrita dire ai giovani che il futuro sono loro e che per questo gli affidiamo dei compiti, che le precedenti generazioni hanno largamente disatteso. Il futuro, per un giovane, è molto più oscuro di quanto non sia per un vecchio (che, se non altro, si approssima a un esito scontato). Nostro compito è piuttosto quello di vigilare per cogliere al loro primo manifestarsi i prodromi di quella chiusura e separazione, fintamente identitaria, che costringe l’io singolare o il gruppo di riferimento a immaginarsi e progettarsi non in relazione, bensì contro e in opposizione agli altri.

Conosciamo bene, ammaestrati dalla storia, i passi necessari di quella disumanizzazione e restrizione dell’orizzonte esistenziale, che favorisce e fomenta l’impoverimento della vita personale e l’aliena ai miti della forza, della razza, del collettivo massificato e asservito al discorso e ai simulacri della propaganda e del consumo. Dapprima lo stigma colpisce ogni manifestazione di debolezza e inferiorità. Uno stigma che un tempo era limitato alle più grossolane differenze tra le classi, le tradizioni familiari o etniche, le culture, le ideologie. Ma che oggi, comandato da logiche di consumo e modelli comportamentali sempre più standardizzati e uniformi, tende a colonizzare l’intero spettro delle scelte di vita e la riproduzione dei corpi. Non è da un altro pianeta, ma dalle torri e dai ripetitori elettrici che abbiamo eretto a emblema del progresso di cui andiamo fieri, che provengono i comandi e gli imperativi dell’essere e del fare, che un tempo venivano con difficoltà e non senza resistenze tramandati all’interno della famiglia, dei gruppi infra-generazionali, delle agenzie informative e della scuola. E che ora precedono, senza mediazione ed elaborazione, l’accesso comunicativo alla parola e al discorso socialmente condiviso. Si fa della facile ironia sui pericoli (che ci si immagina futuri, ma sono ormai in atto e difficilmente reversibili) sull’homo informaticus, che prenderà il posto del faber e del sapiens. Si spendono fiumi di inchiostro (pardon, di silicio) per stigmatizzare il brutto tratto estetico di una massa antropica mediamente ben vestita e tecnicamente iperdotata, ma semi-analfabeta; intenta a decifrare immagini e stimoli visivi (autentiche esche del desiderio) di manufatti digitali, su cui hanno uno scarsissimo controllo, e da cui dipende ormai quasi ogni riempimento del vuoto temporale di esistenze trascorse tra noia e consumo, ansia motoria e oblio catalettico. Ma non c’è bisogno di scomodare il Platone del mito della caverna e della identificazione tra il Bello e il Buono, per riconoscere in questi paesaggi urbani quel magnifico futuro, che – come ci viene ripetuto ad ogni commemorazione politica pubblica – è per definizione dei giovani.

L’unica risposta pare essere quella di una medicalizzazione integrale della vita. Il terrore del diverso (o, come si dice nel linguaggio comicamente politically correct, diversamente abile) ossessiona i genitori ancor prima della nascita (e in misura crescente col processo della scolarizzazione) dei loro figli. L’incapacità pedagogica di molti insegnanti fa ricorso alle più fantasiose classificazioni docimologiche e burocratiche, per avviare le delicate membra loro affidate (o sarebbe forse più sincero dire: delegate) a un modello di normalità e conformità progettato per le macchine o (come si diceva un tempo) i bruti, che per gli uomini. L’istinto di difesa e di sopravvivenza dei giovani adolescenti finisce con l’introiettare i modelli o, incapace di autentica affermazione di sé e sana ribellione, col riconfermarli in forma rovesciata e autodistruttiva. Di qui il ritardo nella crescita, o la sua accelerazione parossistica, la fobia delle scelte irrevocabili, l’accontentamento di una qualunque-vita (come scriveva Carlo Michelstaedter) in cambio di una promessa di sicurezza garantita, che non sempre corrisponderà al vero. Oppure, in alternativa, per i nostalgici di una gioventù maschia e virile, devota ai dettati d’ordine e d’autorità, preda dell’eros priapesco del Capo, fedele ai Valori e alla Tradizione, si ripropone la via del ribadire le differenze, scambiate per meriti, dell’inserirsi organico in comunità mitiche religiose (nei casi migliori) o razziali (in quelli peggiori), del difendere e del proteggere, contro l’altro e l’ostile, ciò che è nostro e di casa. Qualcuno dirà che lo scrivente esagera nel grottesco o si sta divertendo, mentre batte sui tasti del computer. Può essere vero. Ma ritengo che sia dovere anzitutto di chi sta proponendo un modello di pedagogia sociale alternativo, quello di non rendersi troppo facile il compito, addolcendo la realtà. Da Socrate in poi (si pensi ad Alcibiade) la storia della pedagogia è costellata in misura, senza paragone maggiore, da una storia di fallimenti spesso clamorosi, che da una storia di successi edificanti. Anche per questo – io ritengo – Gabriele Nissim ha preferito parlare di un metodo Gariwo, anziché di una pedagogia o di una organica filosofia. Quello che può avere di mira il nostro lavoro quotidiano, a servizio della memoria e del bene possibile, non può andare al di là di un quotidiano prendersi cura dell’umano colto in prossimità e vicinanza, senza atteggiamenti di retorica superiorità e senza idealizzazioni, con una fedeltà al presente della storia e del tempo che insieme ci limita nella apertura e nell’efficacia, ma ci lega a un dovere cui non vogliamo (perché non possiamo) sottrarci.

Amedeo Vigorelli

Analisi di Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale Unimi

24 marzo 2023

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