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Come nasce un jihadista

di Anna Migotto

"Lo Stato Islamico pensa in 140 caratteri, e non in 140 pagine". È la definizione migliore di quello che è stato, e forse è ancora, il cuore del potere di attrazione dello Stato Islamico. Questa sintesi è di un ricercatore del Centro Studi sulla Radicalizzazione del King’s College di Londra, Shiraz Maher. Centoquaranta caratteri sono un tweet, centoquaranta pagine possono essere invece un trattato filosofico o religioso.

Ma i giovani reclutati dallo Stato Islamico sono stati sedotti da un pensiero veloce, moderno, divisivo, binario, non da ragionamenti complessi, non da discussioni teologiche. Ce lo ha spiegato molto bene un giovane tunisino che si è pericolosamente avvicinato alla scelta jihadista e poi se n'è allontanato salvandosi da solo, un ragazzo che oggi è laureato in teologia e sta prendendo una seconda laurea in antropologia.

Ci ha raccontato che i reclutatori parlavano fondamentalmente a "teste vuote", ragazzi poco o male scolarizzati, cresciuti nell’illusione di realizzarsi un giorno in un lavoro che era solo una promessa vuota mai mantenuta. Ecco, a questi ragazzi il Corano veniva presentato come un manuale di informatica, quasi si trattasse di far funzionare bene una macchina.

Ogni lettura - le poche sure ultilizzate dai reclutatori - era ripulita delle metafore, della poesia di ogni testo sacro e diventava quasi un libretto di istruzioni per la propria vita incerta. Ma prima sul Corano il lavoro era sul ragazzo, sulle sue debolezze, la sua rabbia, il suo disorientamento

Le tecniche psicologiche miravano a suscitare un senso di colpa nel possibile reclutato, un senso di fallimento, nato dal voler diventare qualcuno. "Le cose ti vanno male, ecco, ti sei troppo allontanato dalla tradizione, da ciò che è giusto, la tua famiglia è troppo secolarizzata, tuo padre un debole, tu sarai forte, la tua vita è senza scopo: bene noi ti diamo uno scopo, ti offriamo un modello, dove tu, giovane musulmano, puoi essere qualcuno, ti proponiamo uno stile di vita che ti salverà e una prospettiva eroica di morte, ben più desiderabile di una vita nel peccato e vuota". 

La propaganda dello Stato Islamico si è basata sempre su parole e immagini emotive, capaci di spingere a fare scelte semplificatorie, consolatorie anche.

Ragionamenti che hanno funzionato benissimo sui giovani, perché di questo parliamo: di un'intera generazione di ventenni che per loro natura sono esseri in bilico, alla ricerca di una identità. Ventenni che magari avevano sognato di essere ragazzi "globali", che avevano sognato l’Europa e che invece sono finiti dentro un'immagine arcaica narrata con le seduzioni della contemporaneità. "Ventenni che non sapevano chi erano , per i quali il califfato è stato come una calamita", come esprimono le parole usate da un membro dello Stato Islamico, per spiegare la sua adesione. 

Quale più grande seduzione poteva esserci se non quella di diventare soldati di un Califfo, che prometteva certezze, una vita semplificata (uno stipendio, una casa, un'auto, una moglie), una battaglia tra bene e male, tra fedeli e infedeli e, infine, un'identità forte e soprattutto collettiva?

Nell’estate del 2016, mentre Gariwo compiva un passo importantissimo della sua missione, il Giardino dei Giusti a Tunisi - primo in un Paese musulmano - noi, la collega Stefania Miretti ed io, lavoravamo in Tunisia alle ultime fasi di una ricerca sul campo iniziata due anni prima: che sarebbe diventata un libro sul vissuto, storie dei foreign fighters tunisini. Sulla loro vita prima di abbandonare tutto e gettarsi in una avventura folle. Ci interessava allora capire i meccanismi capaci di attrarre giovani di tutti i tipi, studenti laureati, ragazzi e ragazze, di famiglie modeste, della classe media o ricche. Ci interessava capirlo lì, in Tunisia, il più vicino all'Europa dei Paesi musulmani.

Al di là delle narrazioni frettolose volevamo comprendere che cosa poteva, quasi improvvisamente, trasformare ventenni normali - un po’ frustrati e disillusi - in fanatici, in combattenti, in persone che rinnegavano tutto, lasciavano tutto alle spalle per buttarsi a combattere una guerra che non era mai stata la loro. Volevamo ascoltare le famiglie di questi giovani, spesso considerate colpevoli o complici, volevamo sentire le voci dei loro coetanei, quelle di chi magari era tornato indietro, per paura o perché arrestato.

Abbiamo capito che non esiste un unico elemento che costruisce un foreign fighter, che ci sono sempre le storie individuali, che la religione può essere utilizzata, e lo è stata, per riempire il vuoto delle promesse della vita reale, che si può indurre un ventenne a pensare che morire sia meglio che vivere.

Abbiamo poi compreso che ci sono ovviamente ragioni sociali, economiche e politiche dietro a tutto questo. E in un Paese come la Tunisia ce ne sono molte: un senso di ingiustizie subite, sul quale i reclutatori lavorano - trasformando il sentirsi vittime, in ragione di vendetta.

La grande migrazione verso le terre del Califfato è stata anche una rivolta generazionale, a differenza del nostro Sessantotto però, la rivolta non è contro un padre autoritario ma contro un padre accusato di non avere autorevolezza, una rivolta che ha nel cuore uomini adulti musulmani considerati incapaci di ribellarsi alle guerre decise dall’Occidente, alle ingiustizie, alle dittature, ai nuovi dittatori imposti dopo le rivoluzioni. Ci sono fatti che per noi sono superati ma che non lo sono per chi li ha subiti. E questi fatti - l’invasione dell’Iraq o i fatti di Abu Ghraib per esempio - entrano nella costruzione di un jihadista e sono ancora oggi dirompenti.

Abbiamo riscontrato che i social - sui quali avviene il reclutamento prima che nelle moschee - creano una bolla dalla quale è molto difficile uscire. Se sei in quella "bolla" anche i teologi della grande Università di al-Azhar, al Cairo, sono per te miscredenti, se sei in quella "bolla" quando lo Stato Islamico rivendica come proprio soldato l’assassino di Las Vegas tu ci credi. Il fondamentalismo islamico usa il linguaggio populista e demagogico che sentiamo risuonare anche altrove, e la chiamata all’identitarismo non è una parola pericolosa solo nei Paesi musulmani. Non è attraente solo per un giovane arabo o maghrebino. Basta vedere le numerose formazioni europee o americane che fanno dell’identitarismo la propria bandiera.

Quasi tutti i foreign fighters che abbiamo raccontato nel nostro libro sono morti in Siria, in Iraq, in Libia, uccisi in combattimento o in attentati terroristici. Erano una minuscola parte di migliaia di giovani. La Tunisia è il Paese che ha visto partire il più alto numero di combattenti stranieri verso il Califfato. Oggi le stime dicono che nel momento più fortunato dello Stato Islamico ci siano stati circa 35/40 mila combattenti stranieri nei suoi ranghi. Almeno 5000 erano europei e 19mila quelli schedati dall’Interpol. Francesi, belgi, inglesi, svedesi, italiani: 110 sono i Paesi da cui sono partiti. 

Nel corso degli anni ci sono stati dei ritorni, globalmente secondo l’ultimo report del centro studi americano Soufan group, i foreign fighters di ritorno sono 5600, da 33 Paesi diversi, di cui gli europei sono quasi 1500. La maggior parte dei rientri ha toccato i Paesi arabi a prevalenza musulmana o confinanti con il Califfato. In Tunisia la cifra si aggira attorno ai 1000. Tra i Paesi europei a contare il maggior numero dei rientrati ci sono la Danimarca, la Finlandia e l’Inghilterra.

Ma in questa fase è difficile tracciare una mappa. Durante la battaglia di Raqqa è stato consentito a diverse decine di combattenti dello Stato Islamico, dopo una lunga trattativa, di lasciare la città, e tra loro c’erano anche gli stranieri. Sappiamo che sono oltre un centinaio i foreign fighters nelle carceri dell'Iraq, Paese dove è in vigore la pena di morte. In Siria ci sono anche moltissime donne arrestate con i figli, donne con bambini nati sotto il Califfato o arrivati in Siria con i genitori. La prossima emergenza saranno loro, e come trattare questi bambini: recuperarli dovrebbe essere compito prioritario. 

Sono 2000 i minori che hanno studiato nelle scuole dello Stato Islamico o che hanno già frequentato i campi di addestramento. Tanti combattenti stranieri sono stati uccisi sul campo e in passato chi tentava di fuggire veniva eliminato come traditore. Più di un Paese europeo ha dichiarato di preferire che chi è partito non ritorni. Il Ministro della Difesa francese Florence Parly ha dichiarato «Se ci sono degli jihadisti che muoiono in questi combattimenti, tanto meglio. E se invece finiscono nelle mani delle forze siriane, dipenderanno dalla giurisdizione siriana». Una linea, questa, condivisa dalla Gran Bretagna. Da mesi ormai sono in corso operazioni dei servizi segreti di mezzo mondo per eliminare chi ancora si trova in Siria e potrebbe avere l’intenzione di tornare. Il possibile ritorno dei jihadisti è considerata una delle principali emergenze dei prossimi anni in campo di sicurezza interna ed è un problema anche etico.

Non tutti quelli che sono partiti hanno avuto gli stessi ruoli, lo stesso Soufan group divide i foreign fighters in diverse categorie, con diverse gradazioni di pericolosità. Dunque sarebbe necessario pensare a procedimenti giudiziari equi, e pene commisurate alle responsabilità individuali.

Difficile parlare di deradicalizzazione, chi ci sta provando racconta la difficoltà di riportare indietro le persone radicalizzate, chiuse in una "bolla", per certi versi irraggiungibili: anche la stessa Tunisia sta investendo risorse per farlo. Il passaggio doveroso in carcere di chi rientra, rischia di diventare un altro momento di radicalizzazione se si guarda ai dati europei che ci dicono che è quello il luogo dove più si trasmette il virus fondamentalista.

Le radicalizzazioni, come ci raccontano le cronache recenti - pensiamo alla strage di New York - stanno avvenendo sempre di più in solitudine; lontane dai campi di battaglia persone che non hanno mai pensato veramente di raggiungere il Califfato oggi - dopo essere state arrestate - chiedono di esporre la bandiera dello Stato Islamico nella loro stanza d’ospedale.

Questa è la vera grande sfida che nessuna misura esclusivamente securitaria potrà vincere.

Il Califfato sul campo non esiste più, quello che resta dello Stato Islamico, chi è riuscito a sfuggire allo scontro finale, si è già riorganizzato. Si pensa che l’ipotesi della sconfitta fosse stata presa in considerazione già da molto tempo, periodo sufficiente per ridisegnare la propria esistenza in clandestinità.

La fine della sua forma statuale non significa assolutamente la morte di quelle idee, che ancora hanno un forte potere di attrazione. Raqqa e Mosul libere non hanno segnato la fine del rischio di un nuovo contagio, di un possibile potenziale risorgere in altre forme e in altri luoghi. 

Anna Migotto, giornalista

Analisi di

16 novembre 2017

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