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​Considerazioni sulla memoria "inutile"

Il bambino nella neve di Wlodek Goldkorn

Ne Il bambino nella neve, Goldkorn racconta la storia della sua famiglia rimasta in Polonia dopo la Shoah e ci illumina sui nuovi traumi che patirono gli ebrei sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale. 
Il libro non è solo un racconto, ma fa anche delle considerazioni controcorrente sulla memoria che meritano di essere discusse.

I genitori di Wlodek si salvano perché nel 1939 fuggono a Leopoli, occupata dai sovietici in virtù del patto Ribbentrop - Molotov che sancì la divisione del Paese tra russi e tedeschi. Al loro ritorno in Polonia decidono di trasferirsi in Israele, come capitò a tanti sopravvissuti dell’Europa orientale. Non è una scelta politica, anche se il padre è un comunista e fa parte del Comitato centrale ebraico. C’è una ragione più profonda.
Non vogliono abbandonare il grande cimitero degli ebrei, spiega Goldkorn. Non è giusto lasciare il Paese dove viveva la più importante comunità ebraica. “L’unica vita che potesse assomigliare ad una vita vera, l’unica forma di vita onesta e decente era in mezzo ai morti e ai fantasmi. La colpa di essere sopravvissuti andava espiata sul luogo”.
È un patto tra i vivi e i morti, perché erano stati risparmiati.
A differenza dell’Italia, i sopravvissuti non sono infatti accolti e compresi, ma guardati con grande fastidio perché i polacchi non vogliono restituire i beni e le case sottratte agli ebrei.
“Molti ebrei furono uccisi per non dovere restituire un piumone”, racconta a Wlodek un’amica di famiglia che ha visto una vicina di casa felice di sbattere sulla finestra la piuma d’oca sottratta a sua madre.
È questa la logica del pogrom di Kielce, il 4 luglio del 1946. Quaranta ebrei sono massacrati perché la gente del paese non tollera che duecento superstiti dei lager riprendano le loro case. Così, per aizzare la folla, gli antisemiti fanno credere che Henio Blaszczyk, un bambino polacco, sia stato rapito dagli ebrei per usare il suo sangue nelle azzime. Il bambino poi racconterà che lo avevano convinto a mentire.
Gli ebrei sopravvissuti, negli anni Cinquanta, sono poi accusati di essere i responsabili del comunismo, perché alcuni dirigenti del partito sono di origine ebraica. Nasce così il mito di un potere ebraico comunista, la giudeocomune, un pregiudizio per giustificare il vecchio e nuovo antisemitismo. Poi nel ‘68 c’è il colpo finale. Gomułka, il segretario del partito, lancia una sorta di rivoluzione culturale contro gli ebrei, questa volta colpevoli di essere responsabili di un “complotto sionista” ai danni della nazione polacca. Migliaia di ebrei sono messi all’indice. Il padre di Wlodeck decide di arrendersi e di portare la famiglia in Israele.

Hanno sbagliato i Goldkorn a non partire prima? Aveva senso rimanere in Polonia per custodire le tombe dei morti? Quegli ebrei che hanno deciso di rimanere lo hanno fatto per un senso di responsabilità verso le vittime, ma in questo modo hanno posto una questione morale ineludibile per i non ebrei di questi Paesi che erano rimasti indifferenti allo sterminio.
Per essere migliori, i popoli dell’Europa centro orientale sono costretti a fare i conti con il dolore ebraico e con una storia che non riguarda un “corpo estraneo”, come pensavano gli antisemiti, ma la loro stessa identità.
Così i custodi delle tombe hanno dato un contributo per migliorare il mondo, nonostante tutte le gravi sconfitte che hanno subito.

Se oggi, seppur con tutti i limiti, è cominciata una riflessione autocritica sul passato in Polonia, Romania e Ungheria, lo dobbiamo a persone come i Goldkorn. Uno dei limiti dell’impresa sionista è stato quello di concentrare la resurrezione ebraica dopo la Shoah esclusivamente in Israele, dimenticandosi che non solo la storia ebraica doveva essere preservata prima di tutto nei Paesi dove si era compiuto lo sterminio, ma che bisognava anche guardare al futuro di un mondo condiviso, un mondo di ebrei e di non ebrei.

Wlodek, in questo libro che ci racconta anche l’evoluzione del suo pensiero, rifiuta con forza l’idea di presentarsi al mondo con l’aureola della vittima. Mai cercare l’illusione di questo privilegio, per cercare conforto nel mondo. Prima di tutto perché ogni essere umano, di fronte a un male che lo riguarda, deve immediatamente reagire e rifiutare la passività - come gli ha insegnato suo padre.
Poi perché le uniche vittime sono quelle finite nei campi. Se i figli e i discendenti vivono la loro vita pensando che gli altri sono in debito con loro, sfuggono alla responsabilità.

Il dolore passato non rende le persone migliori e non può essere alibi per giustificare il proprio egoismo. Una persona è sempre chiamata a scegliere nel corso della vita, e solo in base alle sue scelte può essere giudicata.
Wlodek così introduce la sua polemica contro una memoria fine a se stessa. La memoria è vivente non quando si inveisce contro i carnefici del passato, ma quando ci si mette in gioco nel tempo presente. Troppo facile essere dalla parte delle vittime di crimini passati, molto più complicato è invece provare empatia verso chi soffre nel mondo in cui viviamo. Non basta essere buoni ex post, perché vivere soltanto nella memoria significa ritagliarsi degli alibi per giustificare la propria passività. Ognuno nella sua vita è chiamato a sconfiggere il male che si può annidare dentro di sé e a diventare un portatore di bene nei confronti del prossimo. Così la memoria della Shoah, tanto popolare oggi in Europa, è totalmente inutile se non scuote le coscienze di fronte al dramma della Siria, come è stato ieri per la Cambogia, la Bosnia o il Ruanda.
Come parlare dell’abbandono degli ebrei in Europa e ricordare la rivolta del ghetto di Varsavia - quando i polacchi stettero a guardare - e poi voltare le spalle ai disperati che muoiono in mare? Si compie così un vero e proprio esercizio di menzogna. Ci si dimentica di dire che era faticoso, impopolare e rischioso, essere dalla parte degli ebrei, allo stesso modo in cui oggi è faticoso, impopolare e rischioso accogliere i migranti.

Wlodek affronta con disincanto il tema della responsabilità, da cui ogni volta gli uomini sfuggono, ripetendo gli errori di sempre. Per questo si è poi rifiutato di vivere in Israele, perché per lui non era tollerabile la mancanza di sensibilità nei confronti del dramma palestinese. Quando era soldato nei territori occupati, dopo che la sua famiglia si era alla fine trasferita a Tel Aviv, si rifiutò di puntare un’arma a un bambino palestinese, come gli aveva richiesto il suo superiore. Per lui era insopportabile che la memoria della Shoah si dimostrasse del tutto inutile per gli ebrei di Israele.
Eppure, nelle più belle pagine del libro, affronta il tema del bene possibile, contrapposto a un bene eroico e totalmente disumano.
Glielo ha insegnato Marek Edelman, il vice comandante della rivolta del ghetto di Varsavia, raccontandogli due episodi della sua vita.
Quando nel ghetto vide una banda di ucraini violentare una ragazza, non ebbe la forza di reagire. “Cosa avrei potuto fare? Non ci si butta a mani nude addosso a gente armata pronta ad ucciderti.” Si vergognava per la sua mancanza, ma per lui c’era un limite umano invalicabile. Sarebbe stato un atto di eroismo inutile che lo avrebbe portato a una morte inutile. Non aveva la stoffa dell’eroe.
Con lo stesso argomento si oppose alla filosofia di Mordechai Anielewitz, il comandante della rivolta, tanto celebrato in Israele.
Con grande coraggio, infatti, chiese le sue dimissioni perché uccidendo due tedeschi durante la rivolta aveva fatto un’azione inutile che era costata una terribile rappresaglia. Quando Edelman chiese il perché di quell'azione, si sentì rispondere che ciò che contava era l’azione eroica, poiché comunque quegli ebrei fucilati erano gente destinata a morire prima o poi. 
Anielewitz, osservò Edelman, non si rendeva conto di quanto per la nostra gente fosse importante ogni giorno di vita. “Il nostro compito non era quello di morire eroicamente, ma di difendere ogni giorno la vita di un ebreo.”

Ma da questa distinzione tra un bene possibile e un bene sovraumano bisogna trarre le conseguenze. È disumano pretendere la santità e un eroismo che va contro lo spirito di sopravvivenza, ma è doppiamente colpevole chi sfugge alla responsabilità di un bene possibile.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

14 settembre 2016

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