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​Coronavirus: il mondo del calcio davanti all'(ir)responsabilità globale

di Joshua Evangelista

Ma è proprio vero che lo show deve andare avanti, sempre e comunque? Alla fine tutto il dibattito gira intorno a questa semplice domanda.

Quando il 29 maggio 1985 39 persone morirono schiacciate allo stadio Heysel di Bruxelles, poco prima dell'inizio della finale di Coppa dei Campioni di calcio tra Juventus e Liverpool, si decise di giocare lo stesso. Qualcosa di simile accadde l’11 settembre 2001: il mondo per come lo intendevamo noi stava collassando insieme alle Torri, dagli Stati Uniti continuavano ad arrivare informazioni sempre più drammatiche, eppure l’Uefa decise di non modificare lo svolgimento delle partite in programma, al netto di una fascetta nera al braccio dei calciatori in campo e di un retorico minuto di silenzio prima dei calci d’inizio.

E oggi, alle prese con il Coronavirus e con un invito globale alla responsabilità individuale e collettiva, siamo sempre allo stesso punto.

Il decreto del governo ferma tutto lo sport. Piccolo paragrafo di un blocco totale, di misure estreme di fronte a una problematica globale, che esige risposte corali.

Come ha scritto Riccardo Bocca su Repubblica, fermare il calcio al tempo del Coronavirus andrebbe fatto non solo per motivi tecnici e sanitari. C’è una dimensione simbolica estremamente fondamentale, si tratta di un messaggio inequivocabile per decine di milioni di italiani. Se l’invito è quello di restare a casa, dev’essere valido per tutti. Eppure, quello che dovrebbe essere banale, tanto ovvio non lo è.

Basti pensare a tutto l’odio che è stato riversato contro Damiano Tommasi in questi ultimi giorni. L’ex mediano della Roma, da nove anni presidente dell’Associazione calciatori è stato preso di mira sui social perché, quasi in solitaria, si è battuto affinché si fermasse tutto. "La situazione è grave e seria, oggi non si può giocare a calcio in Italia. È un'amara constatazione, e gli insulti nei miei confronti lo confermano – ha spiegato durante un’intervista rilasciata alla Rai - Il Paese deve cambiare abitudini. Il messaggio è cambiamo vita: in più posti d'Italia la gente si ritrova a vedere le partite nei locali. Abbiamo già casi di contagio nelle squadre professionistiche, serve più attenzione. Non si può giocare a calcio in questo Paese, i giocatori non si possono toccare".

Le accuse verso Tommasi sono state di due tipi. Da una parte quelle dei tifosi, che rispecchiano l'estraniamento di parte della società civile di fronte a una richiesta che sposta il focus dai piaceri individuali (come il gusto di guardare una partita di calcio e tifare per la squadra del cuore) a risposte collettive a cui sono chiamati tutti, anche i “ricchi e viziati” calciatori di Serie A (per usare i soliti luoghi comuni). Dall’altra ci sono i signori della politica calcistica italiana, padroni di un sistema economico che tra valore della produzione diretta e impatto socio-economico derivato genera solo nel nostro Paese quasi sette miliardi di euro l’anno.

In attesa di capire cosa sarà del campionato italiano, in Regno Unito si continua a giocare regolarmente con gli spettatori sugli spalti, in barba a tutti i discorsi sulla responsabilità globale. Forse anche loro avrebbero bisogno di un Tommasi che spieghi ai capi della Premier League che “tutti noi nelle prossime settimane dobbiamo condurre una vita diversa, abbiamo bisogno di un messaggio di questo tipo, non di altri messaggi che mettono in dubbio quello che dice la comunità scientifica".

Per ora non ci resta che aspettare che questo momento passi, sperando che nel mondo del calcio sempre più persone facciano propri gli esempi di coraggio di cui la storia dello sport è piena. Come il “mediano di Mauthausen” Vittorio Staccione (di cui abbiamo raccontato di recente la storia), che ebbe il coraggio negli anni Trenta di andare controcorrente ed essere antifascista, perdendo per questo motivo la possibilità di fare carriera ai vertici del calcio italiano di allora. O il rugby sudafricano ai tempi di Nelson Mandela, al quale è dedicato un cippo al Giardino dei Giusti di Milano che proprio Tommasi ha visitato di recente con una delegazione di Gariwo.

Joshua Evangelista

Analisi di Joshua Evangelista, Responsabile comunicazione Gariwo

10 marzo 2020

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