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Così Putin sta manipolando (anche) il nostro istinto di sopravvivenza

di Gabriele Nissim

Riprendiamo di seguito la riflessione del presidente di Gariwo Gabriele Nissim apparsa su Il Foglio in data 8/10/22

Il ricatto e la minaccia nucleare vogliono costringerci alla resa. La lezione di István Bibó, grande intellettuale ungherese

Non nascondiamoci. Oggi tante persone nel panorama politico italiano e internazionale si dimostrano riluttanti nel prendere una posizione netta a sostegno della resistenza militare ucraina perché hanno paura che si possa scatenare una guerra in Europa e che, prima o poi, il dittatore russo Vladimir Putin possa lanciare le armi nucleari tattiche con conseguenze difficili da prevedere. Il timore per il futuro affievolisce la capacità di giudizio e porta persone intelligenti persino a colpevolizzare l’operato di Volodymyr Zelensky, accusandolo di estremismo e di condurre una resistenza che non lascia una via d’uscita ai russi.

Anche il Papa ha pungolato il presidente ucraino invitandolo a ricercare il prima possibile una via diplomatica, come se in questo conflitto si manifestassero due torti contrapposti.

Un grande intellettuale ungherese, il giurista e politologo István Bibó, negli anni Sessanta aveva colto in modo lucido il rapporto complesso tra paura, ragione e responsabilità di fronte ai regimi totalitari. Per chi non lo conoscesse, aveva provato grande vergogna per le leggi razziali promulgate dall’Ungheria prima dell’occupazione tedesca e per il comportamento di suo suocero, il vescovo più importante della chiesa calvinista, che le aveva avvallate pubblicamente.

Per questo, affranto per la morte tragica del suo migliore amico, il giurista ebreo Reutzer, costretto ad arruolarsi, come tanti ebrei, durante la campagna di Russia nelle truppe di lavoro forzato che venivano impiegate per la ricerca delle mine in operazioni suicide, non solo si prese cura di sua madre come se ne fosse diventato improvvisamente il figlio, ma in qualità di funzionario del ministero della Giustizia, si adoperò per distribuire centinaia di certificati falsi agli ebrei per nascondere la loro identità.

Arrestato dalla Gestapo, al momento dell’occupazione tedesca dell’Ungheria, riuscì a salvarsi soltanto per caso, per la confusione che regnava nel Paese.

Dopo la guerra, fu l’unico intellettuale che pubblicamente chiese agli ungheresi di assumersi la colpa per la persecuzione degli ebrei e di non scaricarla in modo opportunistico sui tedeschi. In uno scritto sulla questione ebraica formulò la sua accusa, unica nell’Europa centrale dopo la sconfitta del nazismo:

“Interroghiamoci unicamente sulla parte di responsabilità che ci compete nella persecuzione e nello sterminio degli ebrei e sul modo in cui la società ungherese e i suoi diversi organismi amministrativi e sociali hanno assistito alla persecuzione, alla deportazione, e all’assassinio degli ebrei”.

Quando poi scoppiò la rivolta del 1956, fu eletto come ministro nel nuovo governo di Imre Nagy e fu l’unico tra i deputati che decise di presiedere da solo i banchi del Parlamento con un atto di straordinario coraggio morale di fronte all’invasione dei carri armati russi. Arrestato, finì nella lista dei condannati a morte e, dopo un processo segreto nell’agosto del 1958, sfuggì alla pena capitale per un intervento a suo favore del presidente indiano Nehru. Fu condannato all’ergastolo e trasferito in un campo di lavoro sul Danubio dove per cinque anni scaricò il carbone dalle navi.

Al momento dell’amnistia nel 1963, che portò alla liberazione dei prigionieri, nonostante la sua salute precaria, a differenza della maggior parte degli intellettuali, non accettò di venire a patti con il regime di Janos Kadar e decise di rimanere coerente con il suo pensiero democratico. Ancora una volta, non volle prendere scorciatoie e cercare compromessi con la sua coscienza morale.

Come il Paese doveva chiedere senza ambiguità perdono agli ebrei, così non doveva tradire i combattenti per la libertà del ’56. Il male non si doveva amnistiare ed era necessario che l’intera nazione facesse un serio esame di coscienza per guardare al futuro. Per questa sua determinazione pagò un prezzo pesante e svolse un lavoro anonimo fino alla morte in una piccola biblioteca lontano dalle università e da ogni incarico pubblico.

Eppure, così risoluto nel difendere senza ambiguità la sua libertà interiore, Bibó ragionò nei sui libri sui meccanismi di un potere totalitario che portano gli uomini a cedere e ad arrendersi. È la paura della morte e il sentimento di fragilità di ogni essere umano che le dittature portano all’esasperazione con costrizioni psicologiche e fisiche per condizionare il pensiero degli individui. Una persona cambia, si rifiuta di porsi delle domande, fino al punto di mentire a sé stesso, per il meccanismo del terrore che i regimi totalitari veicolano sulla vita quotidiana delle persone.

L’istinto di sopravvivenza, su cui ragiona Baruch Spinoza (con il termine conatus), è la molla che spinge le persone alla vita e alla propria autoaffermazione, ma che nei regimi dispotici e polizieschi diventa il grimaldello per spezzare l’istinto alla libertà degli individui. “Se vuoi vivere devi tacere e sottometterti” è il messaggio del totalitarismo. Ecco da dove nasce la paura che porta al silenzio.

Bibó stesso racconta di avere sempre avuto paura in ogni circostanza dove si era ritrovato a prendere una decisione. “Mi aveva raccontato con ironia”, ricorda il suo amico György Litván incarcerato nella sua stessa prigione nel 1956, “che quando si trovava da solo in Parlamento aveva avuto una terribile diarrea, tanto grande era la sua paura, e per questo era più seduto in bagno che sulla sedia di deputato. Altro che gesto di resistenza. Se la faceva addosso in attesa dell’arrivo delle truppe sovietiche. Per questo si sentiva un vile pauroso, piuttosto che un eroe della libertà. Ogni momento gli veniva la tentazione di trovare una via di fuga e di tornarsene a casa, dimenticandosi di quello che stava succedendo. Ma poi, guardandosi attorno e vedendo che tutti i deputati erano scappati, aveva sentito il dovere di presidiare da solo il Parlamento. Aveva ritrovato il coraggio immaginando così di fare la cosa più giusta per il suo Paese”.

Bibó in quelle ore aveva trovato una terapia contro la paura. Pensando a una ideale di giustizia superiore che veniva cancellata dall’arrivo dei carri armati russi, non soltanto aveva preservato la sua capacità di giudizio indipendente e non si era fatto condizionare dagli avvenimenti come sarebbe capitato a tanti suoi amici che chinarono la testa, ma aveva trovato dentro di sé la forza per resistere. La paura non l’aveva avuta vinta, nel suo pensare e nel suo agire Bibó non si era fatto condizionare dalla paura della morte. Come aveva scritto Karl Jaspers di Spinoza (come ricorda Vito Mancuso in “La forza di essere migliori”), non volle altro che “vivere e pensare il vero” e preservare dentro di sé la verità. Così si sentiva più forte, nonostante il terrore.

L’idea di giustizia e di un altro mondo possibile è la strada che ci porta al coraggio, anche per chi non ne è particolarmente dotato. È quanto temono i dittatori quando vedono attorno a sé degli uomini che non si fanno condizionare dalla paura che loro cercano di manipolare. Sanno che gli uomini che sfuggono al loro ricatto e mantengono inalterata la ragione possono creare un meccanismo di emulazione che li può mettere all’angolo, perché sprona la società a non avere paura. A quel punto, l’istinto di sopravvivenza da loro manipolato ritrova la sua forza creatrice e si ritorce contro il loro potere.

Quanto aveva vissuto ed elaborato István Bibó ci fa pensare ai nostri giorni. Putin in questi mesi ha ricattato l’Europa cercando di farci credere che il nostro aiuto all’Ucraina ci avrebbe portato a una nuova guerra mondiale. Ora, con l’annessione del Donbass, ci terrorizza facendoci credere che qualsiasi tentativo di liberazione di quelle terre segnerà l’inizio di una guerra atomica, perché la Russia per difendere la sua sovranità sarà prima o poi costretta a usare le armi nucleari tattiche portandoci tutti nel baratro. Il suo obbiettivo è quello di costringerci ad una resa morale e ad un cambiamento di giudizio. Cerca di manipolare il nostro istinto di sopravvivenza come è accaduto nei regimi totalitari.

È lecito naturalmente ragionare sulle possibili conseguenze di una possibile escalation nucleare, ma non dobbiamo farci prendere da un sentimento di paura che annebbi la nostra capacità di distinguere le responsabilità sulla guerra in Ucraina. Come ci ha insegnato Itsván Bibó se saremo in grado di continuare a pensare il vero, troveremo la forza di avere meno paura.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

10 ottobre 2022

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