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Cosmopolitismo: filosofia, rifugio, destino

di Agnes Heller

The Ball on Shipboard, James Tissot

The Ball on Shipboard, James Tissot

Pubblichiamo di seguito la lezione magistrale tenuta dalla filosofa ungherese Agnes Heller all'Università Statale di Milano il 24 ottobre 2018. All'interno di un progetto curato da Laura Boella, docente di Filosofia morale all'Università degli Studi di Milano.

Dove siamo a casa? Nel luogo in cui siamo nati? O dove stiamo diventando adulti? O dove abbiamo trovato rifugio? O forse ovunque o da nessuna parte? Quando diciamo “casa”, a che cosa ci riferiamo?

A un villaggio o a una città, a una casa, a una strada, alla nostra prima scuola, ai nostri primi amici, a una lingua, a qualche abitudine? A luoghi e a persone che ci sono familiari, dove capiamo gli accenni senza spiegazioni e note a piè di pagina? Il “calore” del cuore, è questo il significato di casa? Memorie, belle e brutte?

Cosa intendo quando dico. Sto andando a casa? Intendo la mia strada, la mia casa o il ritorno al mio paese, alla città in cui sono nata, un luogo o memorie condivise? Cosa significa “essere esiliati”? Lasciare la terra natale, la mia “matrigna”, fuggire la carestia, la persecuzione, la discriminazione come molti migranti che negli ultimi 200 anni hanno cercato la fortuna in America? O essere puniti con l’esilio, banditi dalla città amata, abbandonare la speranza del ritorno, come Ovidio, quando fu esiliato da Roma? O essere esiliati da una città, da una patria amata che non esiste più, come gli Ebrei che furono esiliati dalla città santa di Gerusalemme per quasi duemila anni, restando spesso alieni, stranieri nella loro terra natale? La nostra casa è a terra in cui i nostri avi sono vissuti e che conosciamo a malapena, il luogo delle nostre origini?

La maggioranza delle persone hanno conservato questo sentimento originario, persino “arcaico”, di “casa” anche nell’epoca della globalizzazione. Si può cambiare habitat molte volte, ma il luogo dell’”origine”, delle prime esperienze, del primo amore, non ci lascia andare. Il primo dolore è altrettanto importante del primo piacere, la prima paura altrettanto importante della prima speranza.

Tutti i bambini nascono stranieri e ci vuole tempo e sforzo per familiarizzarsi con le norme e le regole dell’ambiente, con le consuetudini e la lingua quanto basti per capire ed essere capiti, anche mai interamente. Questa prima esperienza viene ripetuta ogni volta che si cambia habitat. La ragazza di campagna che arriva per la prima volta in una grande città si sente a disagio, non sa come comportarsi, come parlare. Lo stesso vale per chiunque lasci il paese natale per un altro, qualunque sia la ragione. Egli è uno straniero per gli altri e per se stesso, impegnato nel duro sforzo di comprendere gli usi linguistici, le azioni, le abitudini, gli altri abitanti di un mondo che sfida.

Per le persone che non condividono la vita quotidiana con la popolazione media di un luogo, di un paese o di una città, ma vivono in comunità o condividono un mondo spirituale con pochi altri, il luogo, l’habitat della loro dimora diventa sempre meno importante. Questa fu l’esperienza di alcuni nell’epoca dell’Ellenismo, quando alcuni costumi greci furono condivisi dalle classi superiori. Persone nate in luoghi diversi, figli di gente molto diversa, si sentivano “a casa” molto lontano gli uni dagli altri, parlavano tutti greco e quindi si sentivano familiari, visitavano i templi degli stessi dei, frequentavano gli stessi anfiteatri e i bagni comuni dei maschi, come tutti nell’impero ellenistico e romano. Alcuni di essi appartenevano a specifiche scuole filosofiche, tra cui quelle dei filosofi stoici. Essi avevano in comune la saggezza fondata sulla convinzione che la cosa migliore sia vivere in accordo con la natura. La Natura, il Cosmo sono gli stessi ovunque si metta piede. Perciò essi potevano vivere allo stesso modo in accordo con la natura ovunque. Essi non erano a casa in una città o in un’altra, ma nella natura, nel Cosmo. Si chiamavano infatti cittadini del Cosmo: cosmopoliti.

Il cosmopolitismo moderno affonda le radici in una visione del mondo completamente diversa, nell’universalismo filosofico, una visione che non venne neppure in mente agli antichi cosmopoliti.

Gli Illuministi non si pensavano come cittadini del Cosmo, bensì del “genere umano”. Non volevano condividere una cultura (bagni, templi, anfiteatri, lingua), ma un’”essenza”, la “natura umana”. La loro identità poggiava sull’essere “esseri umani”. Essere un essere umano era considerata una qualità superiore in nobiltà rispetto a ogni cultura, costume, lingua e posto occupato nel mondo. Sarastro nel Flauto magico dice di Tamino: “egli è più di un principe, è un Uomo”. In accordo con l’Inno alla gioia, scritto da Schiller e messo in musica nella Nona sinfonia di Beethoven, dovremmo abbracciare milioni di persone, baciare il mondo intero.

La maggior parte delle Costituzioni elaborate nell’epoca dell’Illuminismo, a cominciare dalla Dichiarazione d’Indipendenza americana, affermavano che tutti gli uomini sono nati ugualmente liberi e che tutti sono dotati di ragione e coscienza. Perciò tutti hanno un eguale diritto alla vita e alla libertà e a perseguire la felicità nel modo a loro peculiare.

L’universalismo si fondava sul concetto di “legge naturale” e di “diritto naturale”, su due finzioni. L’idea era che si dovesse accettare tali finzioni come verità e metterle all’opera: esse sono vere solo per coloro che fanno assegnamento su di esse. Fu peraltro immediatamente evidente che, come disse Rousseau, tutti gli uomini nascono liberi, ma ovunque sono in catene.

L’idea del “genere umano universale”, ossia l’idea di istituzionalizzare la nozione universale di “genere umano”, corrisponde all’idea di un Commonwealth in cui il testo delle dichiarazioni (tutti gli uomini nascono liberi) è lex lata (legge promulgata), ossia è la legge di un paese, forse persino la legge di tutti i paesi. La prima (lex lata di un paese) è l’idea repubblicana, la seconda (lex lata di tutti i paesi) è l’idea cosmopolitica. I cosmopoliti sono perciò i cittadini di una città non ancora esistente, immaginaria. Essi si comportano come se la città universalmente umana esistesse, si pensano come i cittadini della città immaginaria. Essi sono i cosiddetti “Weltbürger” (cittadini del mondo).

Nella filosofia di Kant il concetto universale di “genere umano” è duplice. In primo luogo, corrisponde al “genere umano in noi”, alla libertà trascendentale da cui deriva l’imperativo categorico e come tale è eterna (atemporale). In secondo luogo, si riferisce al genere umano empirico, ossia alla natura umana. Siamo autorizzati a presupporre che la natura umana si sviluppi verso la libertà, per il fine nascosto di un Commonwealth cosmopolitico, il sovra-Stato federale di tutte le repubbliche. Kant ricostruisce pertanto la storia da un “punto di vista cosmopolitico”.

L’affermazione “sono un essere umano” e “sono un cittadino di un universo cosmopolitico” sono filosoficamente collegate, anche in formulazioni diverse. Solo in un contesto politico e sociale esse possono convergere e dichiarare la stessa cosa: essere un essere umano è la suprema identità, rispetto alla quale tutte le latre identità sono secondarie, come il particolare rispetto all’universale.

Dapprima, nel ‘700, prima della nascita del nazionalismo europeo, l’affermazione “sono un essere umano” significava che lo status e posizione sociale di una persona, paragonata all’”essere un essere umano”, aveva un’importanza secondaria, o anche nulla. Uno nasce accidentalmente principe o schiavo, aristocratico o borghese, ma tutti apparteniamo al genere umano, siamo innanzitutto esseri umani. Si nasce accidentalmente in una famiglia cattolica o protestante, ma essenzialmente si è esseri umani. Siamo tutti esseri umani.

La negazione delle determinazioni particolaristiche (religione, status sociale, famiglia) comparve praticamente prima dell’Illuminismo, come mostra la storia di Romeo e giulietta che diedero la priorità alla natura contro le determinazioni sociali. Eppure essi e altri implicati in analoghi conflitti non fecero mai riferimento al “genere umano”, ma al loro corpo, alla loro personalità, soprattutto al loro amore. La loro casa era il loro amore. Nemmeno Spinoza si identificava con il “genere umano”, bensì con i liberi pensatori, con la comunità dei filosofi, studiosi come lui. Essere un “umanista” significò all’inizio essere istruiti nel pensiero e nella poesia latina antica, leggere Cicerone e avere di conseguenza una sorta di distanza nei confronti delle consuetudini, dei doveri e degli obblighi dell’ambiente che veniva sentito come “innaturale”. L’uguaglianza di tutti i membri della specie homo sapiens non era un’opzione.

Il concetto di nazione (la nation) nacque nella Rivoluzione francese insieme all’istituzionalizzazione dell’universalismo nella Costituzione francese. Il posto delle determinazioni particolaristiche (padrone/schiavo, aristocratico/borghese, Cattolico/Luterano/Calvinista), inizialmente negate dall’affermazione universale “tutti gli uomini nascono liberi”, fu lentamente rimpiazzato, cioè occupato, da una nuova determinazione particolaristica, quella della nazione.

L’ideologia della nazione, il nazionalismo divenne pressoché dominante in Europa all’inizio dell’800 e ottenne la sua definitiva vittoria nella Prima guerra mondiale. Da questo momento, almeno in Europa, la risposta alla domanda: “che cosa sei innnanzitutto”, non fu più “sono calvinista”, “sono ebreo”, e neppure “sono un essere umano”, bensì “sono francese, tedesco, ungherese ecc.”.

Il contenuto sociale del cosmopolitismo cambiò radicalmente con l’avvento dei nazionalismi, benché la sua funzione sia rimasta la stessa, cioè la negazione di un’identità particolaristica. Nel ‘700 ciò aveva significato la negazione del primato di un’identità sociale particolaristica (non è un principe, ma qualcosa di più: un uomo), sebbene nessuno fosse costretto a sceglierne solo una tra di esse. Si poteva dire. Sono nato nobile, apprezzo l’eredità della mia famiglia, ma sono innanzitutto un essere umano come tutti altri. Oppure sono nato scozzese e questo è importante per me, ma come filosofo sono interessato a questioni universali, non alla Scozia.

A partire dall’800 e sempre più velocemente le persone furono tuttavia costrette a scegliere l’identità nazionale come superiore a tutte le altre, soprattutto in Europa. Gli individui furono messi sotto pressione allo scopo di scegliere la loro identità nazionale come identità esclusiva e comprendente tutte le altre identità, in particolare dopo l’unificazione dello Stato italiano e di quello tedesco.

Prima gli Ebrei europei dovevano essere battezzati per venire accettati, sia pure a certe condizioni, dalla nazione ospite. Adesso essi devono identificarsi con le nazioni ospiti. A partire dall’800 gli ebrei non poterono più integrarsi in una nazione senza assimilarsi. L’assimilazione, ossia l’accettazione del nazionalismo della nazione ospite, divenne l’unica via per l’integrazione. Per quanto riguarda l’Ungheria l’assimilazione fu un obbligo non solo per gli Ebrei, ma anche per i Tedeschi e le altre nazionalità che vivevano sotto la corona Austroungarica. Si trattava di un aut-aut. O sei ungherese o sei ebreo, o sei ungherese o sei tedesco, non puoi essere entrambi.

Il cosmopolitismo offrì una via di fuga. Se uno non poteva o non voleva rispondere alla domanda scegliendo questa piuttosto che quella identità nazionale, c’era un’altra possibilità: né questo né quello oppure entrambi, ma ciò non è essenziale per me: io sono solo un essere umano. Sono nato In Germania, parlo tedesco… Sono nato ebreo accidentalmente e austriaco, ma prima di tutto e soprattutto sono nato come essere umano. Scelgo me stesso come essere umano, questo è ciò essenzialmente mi definisce, in quanto la mia essenza (essere umano) non è accidentale come lo è l’essere nato ebreo e austriaco. Posso rifiutare tutte le mie determinazioni particolari, che rappresentano ciò che non sono. Io sono universale. Voi Austriaci siete quindi esseri umani come me, poiché la nostra essenza è la stessa. Perciò non ho bisogno di “assimilarmi”.

Devo aggiungere che nelle società di classe l’assimilazione a una nazione significava sempre assimilazione a una classe particolare. Gli Ebrei ungheresi e tedeschi che decisero di assimilarsi lo fecero assimilandosi alla classe borghese o ai cosiddetti “latini” lateiners), il ceto degli intellettuali di professione. La “classe operaia” inglese si assimilò alla borghesia. Invece del cockney cercarono di parlare l’inglese del Re.

Nell’epoca della nascita delle nazioni e del nazionalismo, ancora prima della Prima guerra mondiale, il cosmopolitismo diventò una delle idee dominanti di una parte della borghesia europea, i cui interessi nel commercio con ogni possibile partner era molto più importante dell’interesse nazionale. Il pensiero cosmopolitico si diffuse anche tra gli intellettuali liberamente fluttuanti (vedi Karl Mannheim), perlopiù “lateiners” provenienti dalle città, che credevano nella “letteratura mondiale”, nell’universalità della cultua europea. Aderire al movimento dell’esperanto fu una delle preferenze cosmopolitiche.

Altri trovarono un’altra via per sfuggire all’assimilazione a una nazione: l’adesione all’internazionalismo. L’internazionalismo fu una versione proletaria del cosmopolitismo almeno tra i lavoratori manuali socialisti, per quanto fu favorita anche dagli intellettuali. Gli internazionalisti non potevano, né dovevano, assimilarsi a una nazione. Il loro compito era assimilarsi al proletariato mondiale, imparando da Marx che il proletariato non ha patria. Una terza via per sfuggire all’assimilazione a una nazione fu l’emigrazione verso un mondo nuovo, prima di tutto l’America, uno Stato dove il “popolo” non era diventato una “nazione”.

La Prima guerra mondiale, il peccato originale dell’Europa, fu la vittoria dello Stato nazione contro il cosmopolitismo borghese e l’internazionalismo proletario. E’ troppo nota la catastrofe che ne derivò. Dopo Auschwitz, il simbolo del ventesimo secolo, nessuno potè più proclamare orgogliosamente “sono un essere umano e nient’altro, perché gli “esseri umani” finirono per compiere il male sulla scala più grande in tutta la storia umana. L’universalismo umanistico ha perso il suo potere di attrazione nei campi di concentramento.

Chi abbai letto il romanzo autobiografico di Stefan Zweig Abschied von gestern (Il mondo di ieri?) avrà un’idea del destino dei cosmopoliti tra le due guerre. Zweig era un ebreo che pensava che fosse possibile evitare la scelta tra essere ebreo e assimilarsi alla nazione austriaca mediante l’adesione a istituzioni cosmopolitiche e la partecipazione a conferenze cosmopolitiche, alcune delle quali si tenevano nell’Inghilterra in cui egli fu sempre il benvenuto. Dopo l’Anschluss, quando tutti gli ebrei persero la cittadinanza austriaca, egli cercò di fuggire in Inghilterra. La sua domanda d’ingresso fu rifiutata. Finché ebbi un passaporto austriaco valido, egli scrive, ero considerato un cosmopolita. Dopo averlo perso, non ero più un cosmopolita benvenuto, ma un rifugiato non benvenuto. La storia finisce qui.

L’universalismo in filosofia oggi non è più chiamato “cosmopolitico”. Per “genere umano” non intendiamo più tutti gli Europei più il Nuovo Mondo, né lo consideriamo un’astrazione che felicemente possiamo abbracciare e baciare o il dovere universale insito nella ragione e nella coscienza di tutti noi. “Genere umano” sono diventate tutte le persone empiriche, nonché le culture con cui condividiamo il globo, sia che simpatizziamo o no con esse, sia che esse condividano il nostro universalismo o lo rifiutino aggressivamente. Le utopie di una rivoluzione antropologica sono finite. Nessuno crede più nell’unificazione di libertà trascendentale e natura umana (Kant), nell’unità finale di “essenza generica” e esistenza individuale (Marx). La pace perpetua, la fine dell’alienazione e tutti sogni dell’eredità universalistica sono diventati obsoleti.

L’universalismo, la fonte del moderno cosmopolitismo, non è più considerato né un fatto (tutti gli uomini nascono liberi) né un sogno (la perfezione morale della razza umana), bensì un compito: aiutare chi ha bisogno (bisogno di cibo, di acqua, di servizi sanitari, di educazione) e aiutare la gente che si trova in guerra. Perché? Perché sono tutti umani come noi, per nessun’altra ragione.

Il cosmopolitismo ha perso il suo potere filosofico e il suo messaggio esattamente in contemporanea con la fine della sua funzione di sostegno per chi cercava di sfuggire all’assimilazione obbligatoria a uno stato nazione o era costretto a servire qualche tipo di fondamentalismo. Non basta più, per proteggersi dal fondamentalismo nazionalista o religioso dire: “Non sono questo o quello, ma qualcosa di superiore, un essere umano”.

Cessando di esistere come filosofia e perdendo la sua funzione di sostegno, il cosmopolitismo è diventato realtà.

Dove siamo a casa?

Chi vive ancora nel piccolo villaggio in cui è nato nel senso della sua famiglia e degli amici d’infanzia? Le persone sepolte nel cimitero del villaggio sono forse ancora i suoi avi, membri della famiglia, genitori o qualcuno degli amici e compagni di scuola? Ciò che i sociologi chiamano mobilità” mostra che siamo tutti en route, in cammino da un luogo all’altro, da un ambiente a un altro, da un paese all’altro, da un continente all’altro o almeno da un villaggio a una città e da una città a un’altra città. Le notizie che potrebbero raggiungerci più velocemente dell’umana velocità d’un tempo a piedi, a cavallo, in carrozza, in treno, sono diventate indipendenti dal trasporto umano e ci raggiungono per telegramma, telefono, televisione, internet: siamo arrivati alla simultaneità. Il cosmopolitismo in quanto realtà significa che siamo a casa in tutti i luoghi in cui soggiorniamo per un po’ di tempo. Siamo dunque a casa da nessuna parte, siamo ovunque stranieri.

Dove siamo a casa condividiamo storie con i nostri familiari, con gli amici e condividiamo la narrazione storica con il nostro popolo e la nostra nazione. Abbiamo un passato condiviso, o meglio, le storie condivise ci consentono di avere memorie comuni che ci permettono di condividere il passato.

Il passato condiviso viene comunemente definito memoria culturale. Tutte le culture hanno la loro memoria culturale, condivisa da altri oppure no. I popoli europei, per esempio, hanno memorie condivise e memorie che non lo sono. Le prime sono rappresentate normalmente da testi e istituzioni, insieme a tutte le interpretazioni e comprensioni che ne vengono date. I popoli europei condividono due narrazioni fondamentali: da un lato, la Bibbia e, dall’altro, la filosofia e le istituzioni greco-romane. Non è necessario mettere una nota a piè di pagina quando si nomina il giardino dell’Eden, l’arca di Noè, Gesù sulla croce per un verso e la democrazia, la repubblica o il senato per l’altro. Culture differenti hanno memorie culturali differenti. Il presente è intriso di memorie culturali, collettive o personali, e il passato è la quarta dimensione nella vita di qualsiasi gruppo di persone, di qualsiasi religione o nazione. Ogni nazionalista può raccontare la sua versione delle storie passate, ogni credente può raccontare la sua, ogni città, famiglia, villaggio ha la propria.

Allora, che ne è del cosmopolitismo? Che tipo di storia possiamo raccontare sul “genere umano in quanto tale”? Dopo Auschwitz e il Gulag non possiamo più credere nella storia, un tempo prediletta, del progresso della razza umana verso uno happy end. C’è solo una storia del globo condivisa, quella dei cosmopoliti.

La nostra è l’epoca di una pratica cosmopolita che ha abolito l’idea di cosmopolitismo. Potendo spostarci da un luogo all’altro e avere informazioni su persone che abitano molto lontano, potendo sapere qualcosa delle loro credenze e costumi solo accendendo la televisione o guardando su internet, noi pratichiamo il cosmopolitismo. Tuttavia, dato che l’informazione ha poco a che vedere con le forme di vita, non siamo cosmopoliti. I cosmopoliti dell’Ellenismo o dell’Impero Romano condividevano una cultura e fino a un certo punto ciò fu vero per i cosmopoliti dell’800, mentre coloro che praticano oggi il cosmopolitismo non ne condividono nessuna.

L’idea di universalismo sostituisce il cosmopolitismo con l’idea dei diritti umani. I “diritti umani” è l’idea trascendentale del cosmopolitismo condivisa come tale da tutte le culture con cui condividiamo la Terra/globo. È vero che l’idea di universalismo fu accettata e riconosciuta nella Dichiarazione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite e sottoscritta dalla maggioranza degli Stati sul nostro pianeta.

Tuttavia la tesi di Rousseau ha trovato una conferma, questa volta sulla scena globale: “tutti gli uomini nascono liberi, ma ovunque sono in catene”. Le nazioni, i paesi, le culture, le istituzioni politiche del genere umano empirico sono reciprocamente differenti come la loro memoria culturale e la loro pratica politica. L’idea trascendentale dei diritti umani e la realtà empirica delle culture, in particolare di quelle politiche si trovano molto spesso in rotta di collisione.

Ripeto: la maggioranza delle persone sul nostro pianeta sta praticando il cosmopolitismo senza cosmopolitismo. Dove sono a casa quelle persone? In due luoghi o due mondi: nel mondo delle loro esperienze personali e nel mondo delle idee.

Viviamo in un mondo in cui persone di differenti tradizioni, lingue differenti, religioni e costumi differenti possono condividere lo stesso habitat. Il Nuovo Mondo li aveva accolti tutti in una coesistenza definita erroneamente “multiculturalismo”, in quanto il termine suggerisce un’identità collettiva condivisa, che tuttavia non è tale. Gli Stati nazione europei – e non solo loro – si trovano davanti a una sfida, quella di praticare il cosmopolitismo. Persone di tradizioni, costumi, religioni, storie, idee differenti entrano in massa nel territorio europeo. Abbracciare l’intero genere umano nella poesia o comprendere l’imperativo del genere umano dentro di noi è più facile che inserire persone empiricamente differenti nel nostro habitat. Gli Europei si trovano oggi ad affrontare questa sfida.

Ho detto che l’idea dei diritti umani dichiarata dalle Nazioni Unite e sottoscritta da tutti i governi della terra opera come un’idea trascendentale, accettata, ma non ancora messa in pratica nella maggior parte dei Paesi della Terra. Essa può avvicinarsi alla realtà empirica, per quanto senza una totale legittimazione empirica, solo in Stati in cui i diritti dei cittadini vengono messi in pratica e non solo formalmente riconosciuti, cioè solo nelle democrazie liberali. Tuttavia, anche se riconosciuti, come possono essere praticati empiricamente? Uno de maggiori conflitti dell’Europa contemporanea consiste nella collisione tra diritti umani e diritti dei cittadini, una collisione tra un’idea trascendentale e una empirica che non può essere risolta, ma può essere gestita, tenuta in equilibrio. Non sappiamo ancora come l’Europa gestirà questa sfida.

Finora ho parlato delle cosiddette identità, narrazioni, idee e istituzioni collettive, siano esse religiose, nazionali, universali o locali. Ho detto però poco dell’identità personale in relazione alla storia del cosmopolitismo.

Ci sono due tipi di identità personale: una soggettiva e una oggettiva.

L’identità soggettiva non è altro che la memoria di una persona, la narrazione raccontata a se stessa e agli altri sulla propria vita, intrecciando in un modo o nell’altro molteplici lampi di memoria, ogni volta in modo diverso. Tutti noi abbiamo un accesso privilegiato alla nostra propria memoria, alla nostra identità soggettiva. Riveliamo qualcosa della nostra storia vissuta alle persone che vogliamo, in occasioni e circostanze che desideriamo.

Nessun universalismo può sostituire le esperienze singolari. Per esempio, l’adesione alle idee cosmopolitiche potrebbe trasformarsi nell’adesione ai “diritti umani”, ma ciò non cambierebbe le nostre precedenti illuminazioni della memoria, sebbene in generale possa cambiare la loro interpretazione. Questa casa soggettiva, la nostra memoria, è fortemente influenzata dalle credenze collettive condivise e dalle narrazioni culturali. Nonostante questo, essa resta unica e propria di ogni soggetto. Se uno vive in un mondo che accoglie differenti culture nello stesso habitat, l’esperienza vissuta soggettiva di un bambino introietterà questa differenza come “naturale”, come avvenne alla fine dell’800 nel villaggio ungherese dove visse mio padre.

Contrariamente all’identità soggettiva di una persona, l’identità oggettiva si costituisce attraverso lo sguardo degli altri. Dapprima attraverso il modo in cui vediamo il loro volto e comprendiamo il loro nome, poi attraverso l’esperienza che facciamo con loro. In un mondo molto tradizionale le due identità possono combaciare. Semplificando, ci si vede come ci vedono gli altri. Gli stranieri con una forte tendenza all’assimilazione tendono a nascondere la loro identità soggettiva per aderire all’immagine che lo sguardo degli altri accetta come migliore.

Nella situazione della pratica del cosmopolitismo una persona può scegliere (date le altre condizioni) un mondo in cui la sua identità soggettiva aderisca al meglio a quella oggettiva qualora sia facile per lei guardare bene negli occhi gli altri. Ciò è già oggi possibile solo nelle comunità professionali e a volte in quelle ideologiche (testo incompleto).

A un certo punto della sua vita un individuo moderno sceglie se stesso come persona coinvolta in un’idea o in un’altra, in una professione o in un’altra: diventare un pittore, uno scienziato, un filosofo, un cantante, un giudice, un commerciante, un agricoltore ecc., un socialista, un liberale, un conservatore ecc. Le professioni, gli interessi, la lingua condivisa garantiscono una reciproca comprensione.

Se si fa in contemporanea una conferenza filosofica a Tokio, a Teheran, a New York, a Parigi, a rio de Janeiro, a Gerusalemme, a Melbourne, le domande degli studenti saranno esattamente le stesse in tutto il mondo. Se si visita la Biennale a Venezia, sarebbe difficile indovinare, a meno di guardare la firma, se la tela sia stata dipinta in Argentina, in Colombia, in Sud Africa, negli Stati Uniti o a Berlino. I microbiologi si interessano a problemi molto simili contemporaneamente in tutto il globo. Cose analoghe si possono dire per l’intrattenimento. La stessa pop music è popolare in culture diverse, dove è permesso eseguirla (in caso contrario, la si esegue illegalmente).

Se la domanda “dove siamo a casa” può essere sostituita da un’altra “dove, in qual cerchia ci capiamo l’un l’altro senza note a margine?", dove condividiamo un linguaggio anche se non riusciamo a capire il linguaggio quotidiano altrui, dove è possibile una comprensione reciproca ignorando il retroterra dell’altro, dove nessuno è uno straniero? Ecco la risposta: l’artista nella comunità degli artisti e un certo tipo di storici, il filosofo nella comunità dei filosofi, gli scienziati nella comunità della loro scienza particolare, il musicista nella comunità degli esperti di musica, i tecnici di ogni genere con i tecnici di ogni genere. Lasciatemi aggiungere i tifosi del calcio con gli altri tifosi, quelli del cricket con altri tifosi del cricket ecc. ecc. Che cosa sei? Scienziato, filosofo, giocatore di cricket, padre di famiglia, femminista, pittore ecc. ecc.

L’universo cosmopolitico dell’alta cultura, delle religioni, dell’intrattenimento, compresi i programmi televisivi condivisi, internet, gli smart phones, che cosa ci ricordano? In prima istanza i cosmopoliti che frequentavano gli stessi teatri, assistevano alle stesse tragedie, potevano discutere di filosofia in greco, condividevano la nudità dei bagni e frequentavano templi simili. Essi erano a casa ovunque nel mondo, ma non erano in grado di produrre effetti, di influenzare il mondo empirico da nessuna parte.

Certo, i mondi sono sempre retti da identificazioni socio-politiche particolari, religiose, nazionali, culturali, politiche, “naturali”, che sono le condizioni delle nostre prime esperienze con le persone, con la distinzione di giusto e sbagliato, con la vista dei fiumi, delle montagne e del mare a cui eravamo abituati da piccoli, nonché con la memoria delle ninnananne, delle canzoni, del primo amore e della prima disperazione. Più tardi l’interpretazione di queste memorie può cambiare insieme ai nostri sentimenti, che rimangono in ogni caso lì.

Il sentimento di essere uno “straniero” nel mondo, in tutti i mondi, il sentimento che Freud ha definito il “disagio della civiltà”, è forse meno doloroso in un universo cosmopolitico di quanto lo sia in un mondo che esclude gli altri, ma può essere anche più forte. Ogni membro singolare del genere umano ha impronte digitali uniche e quindi memorie uniche. Per questo motivo molto si è potuto, si può e si potrà dire sul futuro. Il genere umano non ha però impronte digitali, né una memoria collettiva e va bene. Niente tuttavia può essere conosciuto e detto sul suo futuro

Traduzione di Laura Boella.

Agnes Heller, filosofa

Analisi di

25 ottobre 2018

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