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​Costruite ponti, non alzate muri

di Amedeo Vigorelli

Denis Mukwege con Anna Pozzi al Giardino di Milano

Denis Mukwege con Anna Pozzi al Giardino di Milano

Ieri mattina sul Monte Stella splendeva un tiepido sole di tarda primavera, dopo tanti giorni uggiosi e umidi. Sulle gradinate ancora fresche di calce sedeva una folla gioiosa e intenta di bambini dei primi cicli scolastici, delle più varie provenienze geografiche, ma indistinguibili e affratellati tra loro. Gruppi di anziani adulti, immancabili presenze della Milano aperta e solidale, qualche politico in voluto anonimato, curiosi, giornalisti, telereporter: tutti in ansiosa attesa di conoscere di persona Denis Mukwege, il medico congolese, fondatore del Panzi Hospital di Bukavu, che si è preso cura di migliaia di donne del suo Paese, vittime di violenza ad opera dei gruppi armati foraggiati dalla corruzione politica interna e protetti dal silenzio omertoso delle grandi potenze mondiali. Una attesa che non è andata delusa, ma si è trasformata in un grande evento collettivo.

Dopo la appassionata introduzione di Gabriele Nissim, che ha rinunciato a leggere la sua allocuzione, per lasciare spazio all’ospite di eccezione, la voce forte e limpida del Giusto, accompagnata dalla naturalezza del gesto e dalla franchezza del dire, ha immediatamente instaurato una comunicazione diretta e un clima di familiarità e amicizia. La sua prima preoccupazione è stata per i piccoli italiani presenti, figli più fortunati e fratelli dei bambini sfruttati e ridotti in schiavitù del suo sfortunato paese. "Amate il vostro Paese, la sua bellezza e le sue tradizioni di umanità, e non sarete mai estranei alla più larga fraternità dei popoli". Costruite ponti, non alzate muri: era il refrain di questa celebrazione collettiva.

Più fluiva il discorso, più si annullavano le distanze geografiche e morali tra l’ospite famoso, l’eroico premio Nobel e ambasciatore del suo Paese alle Nazioni Unite, e la piccola folla riunita per acclamarlo. Più il clima si faceva quotidiano e spontaneo, più la fresca copertura vegetale del Giardino dei Giusti poteva ricordare (nonostante le differenze botaniche) la radura ombreggiata di un villaggio africano, dove un saggio maestro istruisce il popolo semplice e intento. "Ricordatevi di questo giorno e non rimuovetelo dalla vostra memoria di adulti. Coltivate le tradizioni di generosità e accoglienza del vostro popolo. Voi italiani non siete del tutto consapevoli della vostra grande forza e importanza tra le nazioni civili. Ricordate che la vostra democrazia è un patrimonio civile universale, ma non è un acquisto garantito per sempre. Esso va rinnovato e difeso dall’usura del tempo e dalla stanchezza che si accompagna al benessere". Costruite ponti, non alzate muri.

Che cosa sappiamo della Repubblica Democratica del Congo, della guerra intestina che ne arresta lo sviluppo e ne divora le immense risorse materiali e umane? Poco più di qualche trafiletto di giornale, destinato a perdersi nel distratto clamore di una informazione inflazionata e suggestionabile. Forse noi non riusciamo a capire, ma lui, l’ospite illustre, il Nobel africano, ne conosce certamente le cause, le origini, le risposte. Ma è proprio Denis, col suo sorriso disarmante, a toglierci l’illusione. "Noi siamo i primi a non comprendere il perché di questa assurda guerra, che ci travaglia da decenni e ci consuma dal di dentro. Non è un conflitto tribale. Non è una guerra di religione. Non è neppure una guerra dichiarata. Proprio per questo non può portare a una pace qualunque". È una guerra di rapina, lo sappiamo, è una guerra economica, o piuttosto un gioco di scacchi che anonimi giocatori intavolano con pedine locali. "La vostra Italia potrebbe instaurare una sana competizione economica, che aiuti lo sviluppo dell’Africa. Perché non accade? Perché si preferisce pagare con una banana dei bambini analfabeti, che estraggono il coltan dei vostri telefoni cellulari, anziché impiegare la forza lavoro adulta, che sarebbe comunque vantaggiosa per le ragioni di scambio del mercato mondiale?" La risposta verrebbe spontanea: è per egoismo. Ma la responsabilità di un tale egoismo si perde nell’anonimato degli intrecci economici, politici, corruttivi, che finiscono col farci sentire innocenti o non coinvolti in prima persona nell’affare. Costruite ponti, non alzate muri.

Perché le donne? Perché la violenza e lo stupro etnico come arma di guerra? Perché la schiavitù sessuale e l’espulsione dal nucleo tribale d’origine, come destino imposto alle giovani in età fertile? "Perché la donna è la colonna su cui poggia l’edificio delle società africane. Perché umiliando la donna e rendendone schiava la discendenza, si assicura la sopravvivenza di un potere maschile violento, che si crede eterno e onnipotente. Non incolpate il tradizionalismo o l’oscurantismo religioso del nostro paese, perché anche in Europa conoscete bene questo pericolo". E qui un gelo sottile colpisce alla schiena il pubblico milanese: molti dei presenti hanno creduto, nei loro vent’anni, nella rivoluzione e nella liberazione sessuale, mentre assistono basiti allo stillicidio quotidiano della cronaca familiare e criminale, fatta di stupri, umiliazioni, ricatti, prostituzione, inquinamento dei sentimenti e delle emozioni, entro e fuori le mura domestiche. Costruite ponti, non alzate muri.

Ciò che colpisce maggiormente in questo personaggio venuto da lontano, ma a noi talmente prossimo da affrontare con naturalezza otto ore di volo aereo solo per guardarci negli occhi, parlarci come un fratello, incoraggiarci come un membro di famiglia, è la speranza che – come sottolinea Gabriele Nissim – è in lui il risultato di una discesa consapevole nell’abisso del male e non di una retorica consolatoria. La speranza che nasce dalla fede nell’umano e nel potere di infinito rinnovamento della vita. Una speranza che contagia anche gli scettici e gli smagati rappresentanti di una generazione fortunata e protetta, che non ha forse saputo restituire adeguatamente il bene generosamente ricevuto dalla generazione dei padri. Nelle parole di Nissim: "non possiamo lasciare questa piazza senza promettere di impegnarci alla morte nella difesa del bene possibile a ognuno di noi. Non possiamo lasciare che i testimoni dei genocidi e degli stupri etnici siano abbandonati soli nella loro disperata rivendicazione di giustizia. Dobbiamo impegnarci perché i governi europei rimuovano gli impedimenti che le grandi potenze oppongono al riconoscimento della verità. Dobbiamo batterci instancabilmente per ottenere l’istituzione di un tribunale internazionale per i crimini perpetrati nella Repubblica Centro-africana". A questo impegno ci richiama l’ossessivo refrain che, come un tam tam delle coscienze, accompagna questa mattinata di sole: Costruite ponti, non alzate muri. Costruite ponti, non alzate muri. Costruite ponti, non alzate muri…

Amedeo Vigorelli

Analisi di Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale Unimi

24 maggio 2019

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