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Da Herat, storia di Giusti del nostro tempo

​di Barbara Bonura

Reyhaneh Jabbari

Reyhaneh Jabbari

Una coppia di musulmani ad Herat ha tenuto nascosta nella propria casa una donna cristiana di 60 anni per proteggerla dalla persecuzione dei terroristi dell’Isis. È notizia recente, dell’oggi cioè, e proviene da una parte di mondo insanguinato che sembra trovarsi ad una distanza siderale da noi, mentre è soltanto la dimensione della mente che spesso ce la tiene lontana, anche solo per schermarsi dall’eventualità di dover soffrire. Si tratta di una azione semplice da apprendere, titanica da realizzare: la cronaca ci riporta un fatto che riguarda due persone, una coppia di religione musulmana, ovvero due Giusti che hanno sentito il bisogno irrinunciabile – mettendo a rischio se stessi – di proteggere e salvare un’altra vita, quella di una donna la cui unica colpa era di essere cristiana, dunque avversata dall’esaltazione terroristica. Eppure, la mano tesa a cui la donna ha potuto aggrapparsi apparteneva a persone di fede musulmana, un altro “credo” dunque, che non ha impedito in questo caso il compimento di un’azione giusta.

Se si mantiene questo sguardo sulle cose si può leggere con la stessa lente la storia passata e presente senza timore, ma con la consapevolezza anzi che si possa proseguire un cammino di tolleranza e giustizia contro il gelo dei diritti umani. A ridosso della Giornata della Memoria della Shoah, gli eventi sembrano comporsi nella cornice di un quadro: ciò che è accaduto oggi ad Herat potrebbe paradossalmente essere paragonato a ciò che accadeva ieri, nei giorni bui della persecuzione antisemita quando centinaia di migliaia di ebrei venivano deportati dai nazisti nei campi di sterminio. Anche allora ci fu chi – in luoghi, tempi e modi diversi - mise a rischio la propria vita per salvare i fratelli ingiustamente e crudelmente perseguitati. Studiando la storia e l’attualità con questo spirito, l’operazione della memoria si compie da sé: il tema non è professare una religione piuttosto che un’altra, bensì essere consapevoli che non vi è religione che possa impedire l’esercizio del bene. È così che i Giusti del nostro tempo sono già testimoni della continuità: essi ereditano e agguantano la staffetta di chi li ha preceduti senza smettere di essere tali, al di là di ogni steccato.

Finché ai bambini di ogni generazione e provenienza potranno essere raccontate storie come quella di Herat, potremo essere certi che essi non dubiteranno dell’uomo e il loro percorso nella crescita sarà illuminato dalla consapevolezza che la giustizia nutre l’anima. Finché i Giusti sperimenteranno il bene come questa coppia musulmana ha fatto, si apriranno sentieri che diventeranno strade per la più vasta solidarietà.

Da Herat a Venezia, un’altra notizia rimbalza sulle cronache degli ultimi giorni, rivelando come sia sottile la soglia tra gli opposti nella storia dell’uomo: si è appreso dai titoli della stampa che un ragazzo del Gambia, privato del suo patrimonio affettivo, solo in una terra non sua, migrante e reietto, si è tuffato nel Canal Grande probabilmente per farla finita. Il giovane non sapeva nuotare ed ha annaspato tra i flutti, è stato avvistato dai passeggeri di un vaporetto che avanzava nella stessa direzione ma anche dai visitatori e dai cittadini sulla terraferma. Oltre a registrare l’evento con qualche scatto del cellulare ed a lanciare insulti contro il migrante, nessuno ha pensato di aiutare il gambiano. Solo quando ormai il suo dimenarsi si faceva più lento, qualcuno dall’imbarcazione ha pensato di lanciargli un salvagente. Ma era ormai troppo tardi e il ragazzo non ce l’ha fatta. Non è un caso che nel corso dell’incontro organizzato da Gariwo alla Camera, “Dalla memoria della Shoah ai giusti del nostro tempo”, l’on. Emanuele Fiano, che era tra i relatori, abbia citato proprio questo episodio tanto drammatico quanto surreale, per porre l’accento sull’aspetto devastante del giudizio e dell’indifferenza di coloro che in quel momento non avevano saputo spingersi oltre il proprio individualismo.

Rispetto alla storia di Herat che ci fa da paradigma, nella vicenda di Venezia il rapporto è totalmente rovesciato: nessuna disponibilità ad aiutare, solo una disumana ed agghiacciante indifferenza ha provocato la perdita di una vita. Quella stessa indifferenza ha fatto volgere altrove lo sguardo di molti di fronte all’eccidio degli ebrei durante la persecuzione nazista, sempre l’indifferenza ha provocato immobilismo o avversione nei confronti dei diritti dei migranti, o ancora, ha permesso e permette che si perpetuino violenze e soprusi nei più svariati contesti: in famiglia, a scuola, in coppia, nella società. Sul terreno della giustizia invece fioriscono i frutti più belli.

“Nessuno deve rinunciare al desiderio di essere libero”, è il monito che anche i padri francescani diffondono quali fabbricatori di pace. E perché ciò avvenga vi è bisogno di una società sana, dunque giusta. La libertà è come un canto, lo stesso canto che teneva in vita la speranza della ventiseienne Reyhaneh Jabbari, impiccata un paio di anni fa in Iran per aver ucciso un uomo che accusava di tentato stupro. “Cara madre – ha scritto Reyhaneh dal suo isolamento prima dell’esecuzione - Il mondo non ci ama. Non ha voluto che si compisse il mio destino. E ora mi arrendo a lui e abbraccio la morte. Perché di fronte al tribunale di Dio io accuserò gli inquirenti, accuserò il giudice e i giudici della Corte Suprema che mi hanno picchiato mentre ero sveglia e non hanno smesso di minacciarmi. Nel tribunale del creatore accuserò tutti coloro che per ignoranza e con le loro bugie mi hanno fatto del male e calpestato i miei diritti e non si sono accorti che la realtà, a volte, non è ciò che appare. Cara Sholeh dal cuore tenero, nell’altro mondo gli accusatori saremmo tu ed io, mentre gli altri saranno gli imputati. Vediamo cosa vuole Dio”

Le parole di Reyhaneh, ordinate quasi in forma di testamento in una straziante lettera alla madre, tornano alla mente, vive come non mai. Stralciandone un passaggio si ha l’illusione o la più concreta speranza che anch’esse possano suggerire la strada per un futuro più giusto.

Analisi di Barbara Bonura, giornalista

30 gennaio 2017

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