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Domande sulla memoria

di Gabriele Nissim

Gabriele Nissim durante la Giornata della Memoria 2019 al Teatro Pime

Gabriele Nissim durante la Giornata della Memoria 2019 al Teatro Pime

Forse mai come quest’anno, sono emersi molti interrogativi sul senso della Giornata della Memoria. Per alcuni, si respira un’aria di stanchezza e di retorica, come se la Giornata fosse vissuta come un’imposizione della società. Altri temono che la memoria del passato non sia un antidoto sufficiente per scardinare i pregiudizi contro gli ebrei di fronte all’aggravarsi dei fenomeni di antisemitismo. Altri ancora vedono uno scarto profondo tra il ricordo delle persecuzioni del nazismo e i nuovi comportamenti politici, che stanno riproponendo meccanismi di odio e d’intolleranza. La condanna del passato sembra così non sufficiente per affrontare le nuove responsabilità del nostro tempo. Ci sono poi coloro che ritengono che qualsiasi comparazione della Shoah con gli altri genocidi, o con le contraddizioni della nostra epoca, possa intaccare la memoria di quel male assoluto, che ha colpito in particolare gli ebrei - il pericolo sarebbe dunque la messa in discussione dell’unicità della Shoah.

Si tratta di una problematica ampia e complessa, con una varietà di posizioni da affrontare con coraggio, se non vogliamo che si assista ad un progressivo svuotamento morale della Giornata. Ci troviamo, per certi versi, di fronte ad un bivio, anche a seguito della progressiva scomparsa dei testimoni diretti della Shoah e della lontananza che le nuove generazioni sentono nei confronti del passato: ricordare è più difficile quando vengono meno le memorie familiari della guerra e del fascismo. Così, l’effetto terapeutico della memoria vede affievolirsi il suo impatto. La relativa vicinanza alle macerie della Seconda guerra mondiale scuoteva le coscienze, indipendentemente dai rispettivi punti di vista, perché era un passato tragico che si riversava quasi immediatamente sul presente - ricordando le stragi degli ebrei si provava un disgusto immediato per ogni forma di razzismo o per chi riproponeva sotto nuove forme l’ideologia fascista. La lontananza invece da quegli avvenimenti non solo rende più difficile la comprensione del passato, la cui gravità può venire così attenuata, ma rende anche più problematico il confronto con il presente. In questo modo, quando si manifestano nuovi meccanismi di odio e fenomeni di chiusura etnica e nazionalista, molti ritengono che non abbiano nulla a che vedere con i tempi bui del passato fascista e nazista. Ogni legame tra passato e presente si perde, come fossero su due pianeti differenti.

Di fronte a questi interrogativi, insieme a 700 ragazzi e ai loro insegnanti che si sono ritrovati al Teatro Pime di Milano per celebrare la Giornata della Memoria, ho deciso di fare un piccolo esperimento. Non ho raccontato delle storie come faccio di solito quando parlo dei Giusti e della responsabilità, non li ho incalzati con racconti sulla solitudine delle vittime e sull’indifferenza della società, ma ho ritenuto che fosse importante far conoscere loro il dibattito sulla memoria. Mi sono detto che, se non si spiega agli studenti il senso di questa Giornata, il bombardamento di immagini, di bei discorsi, diventa per loro soltanto un rito e un obbligo, il cui effetto si esaurisce nel giro di poche ore. I ragazzi sanno perché devono studiare economia, storia, filosofia o matematica. Si impegnano con fatica perché sono consapevoli che serviranno nella loro vite e professioni. Ma quanti hanno spiegato ai giovani che la memoria è una materia utile per la società e che quindi anch’essa richiede una conoscenza specifica sul piano storico e teorico?

La memoria è una disciplina che è stata elaborata da maestri del pensiero, come Primo Levi, Hannah Arendt, Elie Wiesel e che oggi richiederebbe nuovi interpreti e approfondimenti. Ma cos’è allora questa nuova disciplina? La memoria, prima di tutto, non è una semplice trasmissione delle storie delle ingiustizie del passato, ma il suo scopo è quello di promuovere nuovi comportamenti etici nella società. Non basta ricordare, ma si tratta di decidere come rendere viva la memoria per migliorare la responsabilità dei cittadini nel mondo attuale. Dunque, non esiste una memoria neutra, ma deve essere finalizzata alla promozione della cittadinanza. Esistono, attorno a questo tema, buone e cattive gestioni della Giornata della Memoria, che nascono anche da teorie contrapposte. Ci sono coloro, come ha sostenuto Tzvetan Todorov, che hanno una visione archeologica della memoria e si esimono dal fare riferimenti al presente per paura di banalizzare il passato. Sono quelli che hanno timore di comparare la Shoah con gli altri genocidi e che si allontanano così dall’insegnamento di Primo Levi, il quale sosteneva che la memoria del male peggiore è una lente d’ingrandimento per mettere a fuoco ogni nuova forma di male che si manifesta nella società. Se uno pensa alla zona grigia infatti, che ha reso possibile i campi di concentramento, diventa molto più sensibile ai meccanismi di indifferenza che si manifestano nella nostra società. C’è chi invece promuove una memoria esemplare, che cerca nel passato degli insegnamenti che possano essere utili per il tempo presente. Non si deve per forza ricordare tutto, ma scegliere con attenzione tutto ciò che permette di rendere la nostra società più responsabile. È questa l’arte della memoria che stimola le coscienze. Può sembrare paradossale ma la memoria, per poter servire al suo scopo, deve creare anche un certo distacco dal passato, fino addirittura a sviluppare forme di oblio produttive. E cosa significa? Non bisogna concentrarsi esclusivamente sulla responsabilità verso le vittime e le loro sofferenze, ma pensare che il loro riscatto può avvenire occupandoci dei vivi. Ai morti, dovremmo ridare sepoltura, la dignità perduta, per loro, dovremmo chiedere giustizia, ma il percorso può considerarsi compiuto solo se creeremo un mondo nuovo dove non si possano riproporre le stesse sofferenze e si creino degli antidoti effettivi nei confronti di ogni forma di prevaricazione.

Il tema diventa ancor più complesso se pensiamo che molti sopravvissuti alla Shoah si sono sentiti in colpa per essere sfuggiti alla barbarie nazista al posto di altri, per essersi salvati per caso o per una aiuto ricevuto, oppure per avere superato la sfida più dura per un essere umano, la concorrenza per la vita in un campo di concentramento. Quando qualcuno che amiamo muore, proviamo un senso di smarrimento, magari perché ci accorgiamo di non avere fatto, quando era in vita, tutto il possibile per lui. Ci accorgiamo improvvisamente dei nostri limiti, delle nostre mancanze che con la sua scomparsa non potremo mai più colmare. Ecco perché, per riscattarci, lo vogliamo portare sempre con noi nella nostra memoria: ci sentiamo inadempienti, viviamo con un senso di colpa e di inquietudine e, se non lo ricordiamo almeno nei nostri pensieri, ci sentiamo male e a disagio. Proviamo allora a pensare a quanti sono sopravvissuti al posto degli altri ad Auschwitz. Essi hanno sentito il dovere di dedicare la loro vita al ricordo dei morti per espiare la “colpa della loro sopravvivenza”. Questo meccanismo, ha spinto molti sopravvissuti a raccontare con dedizione quel tempo terribile, ma qualche volta li ha allontanati dalla realtà e li ha costretti a rifugiarsi, con grande pessimismo, in un passato non riscattabile.

Un grande scrittore israeliano, Yishai Sarid, in un libro dal titolo molto significativo, Il mostro della memoria - raccontando la storia di una guida di Yad Vashem esperta nei viaggi nei campi di concentramento in Polonia, ci invita a riflettere su un rischio possibile: l’immedesimarsi in modo assoluto nella storia dell’abbandono degli ebrei e nella sofferenza calcolata e disumana creata dai nazisti nei campi di concentramento può portare ad incattivirsi e a diventare insensibili. “Forse nel futuro per salvarci dovremmo comportarci come i tedeschi”, fa dire Sarid al protagonista del libro. Lo sguardo rivolto esclusivamente al passato può quindi provocare le più pericolose distorsioni della memoria, perché si abbandona qualsiasi speranza nel futuro fino ad arrivare a convincersi che il mondo sarà sempre quello di Auschwitz.

Per poter uscire da questo cerchio infernale, diventa necessario recuperare le piccolissime luci di umanità che ci furono nonostante quella distruzione terribile e dar loro più valore. È dunque una scelta esistenziale, che per rimuovere alcune cose terribili ne valorizza altre più positive, per tornare a sperare. Può sembrare paradossale ma, per ricominciare nel mondo, alcuni sopravvissuti hanno dovuto dimenticare qualcosa; non è stata una rimozione colpevole, ma un atto di responsabilità per trovare la forza di andare avanti e costruire ancora. Hanno così riscattato i morti cercando di dar vita a qualcosa di nuovo, come del resto fecero molti di quelli che si trasferirono in Israele. Non sono stati guardiani del passato e dei cimiteri, ma hanno riscoperto la loro dignità e quella degli scomparsi impegnandosi in un’opera di ricostruzione. La responsabilità verso i morti si è trasformata in un’opera di riscatto nel mondo esistente.

E poi c’è una novità importante nel meccanismo della memoria: la sua trasmissione è diventata una parte della storia dei Paesi usciti dalla Seconda guerra mondiale e, a in questo senso, possiamo osservare esperienze diverse, con pregi e limiti. In Germania, per esempio, la memoria pubblica dello sterminio degli ebrei è diventata un percorso che ha portato alla piena assunzione delle responsabilità. Ai giovani tedeschi, si è spiegato come lo Stato e la maggioranza della popolazione sono stati colpevoli, senza attenuanti, per la scomparsa degli ebrei. Averlo detto con coraggio ha significato trasmettere un concetto importante anche per altri Paesi. Era questo l’unico modo per recuperare nel tempo il debito immenso nei confronti degli ebrei. La maturità di una nazione si riconosce dalla piena assunzione delle sue responsabilità. Altri Paesi, come la Polonia e l’Ungheria, hanno scaricato tutte le colpe sulla Germania. Raccontano le sofferenze degli ebrei, si dimostrano amici di Israele, ma poi, volutamente, tacciono sulle loro responsabilità durante il nazismo, per preservare la propria innocenza. Affermano che i nazisti sono stati colpevoli mentre loro si sono solamente fatti trascinare in quell'inferno.

Ma oggi la memoria pubblica affronta nuove sfide, come si è visto di recente in Italia. Si parla del passato nazista cercando però di separarlo dalla storia attuale del Paese. Ci si può dimostrare amici degli ebrei e nello stesso tempo lasciarsi trascinare da una visione nazionalista e antieuropeista, giustificando una politica contro l’accoglienza, sostenendo che le storie dei migranti non hanno nulla a che fare con il destino degli ebrei. A tutto questo, ha dato una risposta Liliana Segre, quando ha ricordato che non si possono paragonare le leggi razziali a quanto accade oggi ma che i meccanismi dell’indifferenza sono molto simili. La Senatrice ha parlato con lo spirito di Primo Levi: si dimentica e si rimuove quando non si guarda il presente.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

6 febbraio 2019

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