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Dostoevskij e l'Occidente

di Francesco M. Cataluccio

In memoria di Mauro Martini

Nell’estate del 1862 Fëdor M. Dostoevskij si recò in viaggio in Europa (Berlino, Parigi, Londra, Ginevra, Firenze, Venezia, Vienna…). L’anno successivo pubblicò, sulla rivista "Vremja" (Il tempo), da lui diretta assieme al fratello, uno strano resoconto, intitolato Note invernali su impressioni estive. Vi si parla quasi esclusivamente di Parigi, dove trascorse la maggior parte del tempo inseguendo una nobildonna russa che non lo voleva più. Non gli piacque nulla di quel mondo “dominato dagli ideali borghesi”. Anche le idee di “liberté, egalité, fraternité” gli appaiono vuote e impossibili, anche perché “adesso anche gli operai son diventati tutti dei proprietari, nell’anima: tutto il loro ideale sta nel divenire proprietari e nell’accumulare la maggior quantità di cose possibile: così è la loro natura”. Questo “barbaro nel giardino” (come direbbe ironicamente il poeta polacco Zbigniew Herbert) pensò che quel mondo non facesse per lui e per il suo popolo e che, anzi, a loro spettasse il compito di redimerlo, di riportare al centro della vita i valori spirituali che in Russia si erano preservati.

Le polemiche legate alla stupida cancellazione di un ciclo di lezioni su Dostoevskij, in concomitanza con l’invasione russa dell’Ucraina, hanno impedito che si affrontasse la questione irrisolta del rapporto tra il grande scrittore, una certa cultura russa e l’odio per l’Occidente. Se la grandezza e profondità di Dostoevskij come scrittore non può essere in discussione, è invece utile considerare il suo pensiero e le sue idiosincrasie per comprendere la natura reazionaria di una certa visione del mondo e della storia da parte di alcuni russi che come lui credevano nella missione che, dalla seconda metà del XV secolo, la Russia si era attribuita: quella di un baluardo di civiltà spirituale contro l’occidente corrotto. “Mosca come terza Roma” (dopo Roma e Bisanzio): l’idea che si sviluppò durante il regno di Ivan III il Grande (1440-1505), sposo di Sofia Paleologa, nipote di Costantino XI, ultimo Imperatore di Costantinopoli. Ivan reclamò l'eredità storica, religiosa e imperiale di quella città che si definiva “seconda Roma” sin dalla fondazione voluta dall'imperatore Costantino.

Deboluccio in filosofia (Archinto, 1997), è il buffo titolo di un importante studio del russista e boemista Gianlorenzo Pacini sul pensiero di Dostoevskij che, anche se non possedeva una preparazione specifica in filosofia, per tutta la vita se ne occupò: “Io sono deboluccio in filosofia (ma non nell’amore per essa, nell’amore per la filosofia sono forte” (lettera al critico Nikolaj Strachov, 28/05/1870). La sua filosofia e le sue concezioni politico-sociali, spiega Pacini, si fondano soprattutto sull’idea di un ruolo autonomo della Russia nella storia della civiltà, ruolo che escludeva ogni sua subordinazione all’Occidente e anzi le affidava il compito di risolvere i problemi essenziali di cui soffriva l’Occidente stesso e addirittura tutta l’umanità, additando la vera via per uscire dalla crisi nell’accettazione dell’autentico messaggio cristiano, dell’amore e del dialogo, che secondo lui era stato conservato nella sua purezza solo dal cristianesimo ortodosso: “Tradendo l’essenza del messaggio di Cristo, la chiesa cattolica occidentale ha spianato la via all’avvento dell’Anticristo, che nel mondo moderno si è concretizzato nell’idolatria della scienza e nell’ideologia socialista, che hanno imposto una concezione materialistica dell’uomo”.

Chi in Europa recepì le radicali idee di Dostoevskij fu Friedrich Nietzsche, suo lettore interessato e ammirato. Dostoevskij, che nulla sapeva del filosofo tedesco, ne anticipò temi e tesi fondamentali, facendoli oggetto della sua ricerca dialogico-romanzesca. Come ha scritto il russista Vittorio Strada (in Le veglie della ragione, Einaudi, 1986) è ormai appurato che proprio Tolstoj e Dostoevskij furono per Nietzsche la fonte prima della sua concezione del Dio cristiano e che con questi grandi russi l’autore dell’Anticristo intrattenne un dialogo sotterraneo, intessuto di illuminazioni e di ripulse. Basta, ad esempio, andarsi a leggere gli appunti di lettura dei Demonî di Dostoevskij che Nietzsche conobbe nella traduzione francese uscita a Parigi nel 1886. Il loro nichilismo è affine: Dostoevskij coglie perfettamente nei suoi romanzi la logica del nichilismo che non è semplicemente ateistico, bensí rigorosamente antiteistico, anche se per lui il nichilismo non è la conseguenza immanente dei valori tradizionali cristiani, ma una loro negazione nata in seno a una particolare versione storica (cattolica e protestante) di quei valori. Lo storico tedesco Dieter Groh, nel suo fondamentale La Russia e l’autocoscienza d’Europa (1961; Einaudi 1980) fa riferimento al rapporto di Nietzsche con la Russia. Nel Crepuscolo degli idoli (1889), Nietzsche considera la Russia “la volontà di tradizione, di autorità, di responsabilità sui secoli futuri (…). La Russia è l’unica potenza che abbia oggi in sé una durata, l’unica che possa aspettare, che possa ancora promettere qualche cosa: la Russia, l’idea antitetica alla miserabile politica degli staterelli e alla nervosità europea… L’intero Occidente non ha più questi istinti da cui crescono istituzioni, da cui nasce un avvenire…”. In Al di là del bene e del male (1885) auspicava “un tale aumento di minacciosità della Russia da far sì che l’Europa si sentisse costretta a decidere di diventare anch’essa egualmente minacciosa, mercé l’intervento di una nuova casta dominante”.

Dostoevskij, del resto, secondo il filosofo russo Nikolaj Berdiajev, che gli dedicò parecchie pagine della sua amara e preveggente analisi dei destini della rivoluzione bolscevica, Gli spiriti della rivoluzione russa (1921), ha colto perfettamente il nichilismo e la metafisica dei rivoluzionari russi. L’impulso rivoluzionario russo è infatti un fenomeno non politico-sociale, bensì metafisco-religioso: “Il russo è o apocalittico o nichilista. (…) Dostoevskij crede che attraverso la via della catastrofe interiore il male possa trasformarsi in bene”. Ma, ad esempio, il protagonista di Delitto e castigo, Raskol’nikov, non desidera affatto lottare per un ordine sociale ideale. Non crede nell’esistenza di un tale ordine.

Come notò uno dei miei maestri polacchi, Ryszard Przybylski (1928-2016), che soggiornò a lungo in Russia divenendo amico e traduttore di Anna Achmatova e Nadežda Mandel'štam, nel volume Dostoevskij e i “problemi maledetti” ("Dostojewski i "przeklęte problemy", 1964): “Raskol’nikov vuole solo introdurre un metodo nel costume di uccidere e fare del male. Metodo che poteva essere istaurato da una ragione libera dai residui della coscienza cristiana. Da una ragione che stabilirà chi ha diritto di essere Napoleone e chi soltanto un semplice pidocchio, chi ha diritto di fare il male e chi invece deve subirlo, chi può uccidere e chi invece si troverà tra gli uccisi. Una ragione che insegnerà agli uomini una coscienza nuova”. Przybylski rimase vittima del rapporto ambivalente che il regime comunista russo ebbe verso Dostoevskij: bollato come un reazionario, non si apprezzava però che fosse utilizzato come chiave per interpretare l’Unione sovietica e il suo regime oppressivo. Nel 1970 il saggio di Przybylski La morte di Stavrogin, pubblicato sulla rivista “Teksty Drugie”, provocò l'intervento dell'ambasciata dell'URSS e il divieto di pubblicazione, per molti anni, delle opere dell'autore, che aveva osato scrivere dello stravolgimento in Russia, anche a causa di Dostoevskij, delle idee europee e della nefanda convivenza di rivoluzione e nazionalismo (soltanto nel 1996 il testo potette essere rieditato in Polonia, nel volume Il caso Stavrogin).

Si possono quindi discutere le idee di Dostoevskij, anche alla luce di certe posizioni ideologiche e politiche dell’Unione sovietica prima e della Repubblica Russa poi? Nel 1985, lo scrittore ceco, ormai emigrato e integrato a Parigi, Milan Kundera e il poeta russo Iosif A. Brodskij, emigrato negli Stati Uniti, litigarono proprio su Dostoevskij. Sulle pagine del “New York Times Book Rewiew” (nel numero del 6/01/1985), Kundera ricordò che nel 1968, dopo che le truppe del Patto di Varsavia avevano invaso la Cecoslovacchia, il direttore di un teatro gli chiese di metter in scena L’idiota. I libri di Kundera erano proibiti, non aveva di che campare. Eppure, scrive Kundera: “Lo rilessi, crepavo di fame, ma nulla. Non ci riuscivo. Era un mondo di gesti gonfiati, profondità sporche, sentimenti aggressivi. Mi faceva provare nostalgia per Diderot. (…) Perché? Era forse un trauma di un ceco verso i Russi sovietici? No. Amavo ancora Čechov. Dubbi sull’arte? No, troppo improvvisa come cosa, senza oggettività. Ciò che mi irritava di Dostoevskij era il clima dei suoi romanzi: un universo dove tutto si trasforma in sentimento; in altre parole, dove i sentimenti sono promossi al rango di valore e di verità. (…) Di fronte all'eternità della notte russa, avevo sperimentato a Praga la fine violenta della cultura occidentale così come era stata concepita all'alba dell’età moderna, basata sull’individuo e sulla sua ragione, sul pluralismo di pensiero e sulla tolleranza. In un piccolo paese occidentale ho vissuto la fine dell'Occidente. Questo è stato il grande addio (…) Quando questo peso di irrazionalità razionale si è abbattuto sul mio paese, ho sentito un bisogno istintivo di respirare profondamente lo spirito dell'Occidente post-rinascimentale. E questo spirito sembrava in nessun luogo più concentrato che nella festa di intelligenza, umorismo e fantasia che è Jacques le Fataliste”.

La risposta di Brodskij, sempre sulle pagine del “New York Times Book Rewiew” (del 17/02/1985) fu molto piccata: “L’Occidente si basa sul sacrificio. Sull’uomo che muore per i suoi sbagli. L’Occidente sa battere i suoi avversari, anche quando sono interni. L’ultima guerra è stata una guerra civile. Spargere sangue non dà gioia. Non ci rende simili a Cristo. E finché si muore per un ideale, e questi ideali vivono, anche la civiltà si mantiene in salute. (…) È troppo presto per dire addio alla civiltà occidentale. Almeno non ora, non per Jan Palach, lo studente che dandosi fuoco si è immolato nel 1969 contro i russi invasori. La notte in cui è piombata la Cecoslovacchia da allora è la stessa oscurità di quando Jan Masaryk è stato defenestrato dal Servizio sovietico nel 1948. La civiltà occidentale ha aiutato Kundera a sopravvivere in queste circostanze. In questa oscurità lui si è messo a ridere con Diderot e il canonico Sterne. Risate di un letterato che legge letterati: quella risata che è privilegio di uomini liberi, come lo sono le tristezze di Dostoevskij. (…) Kundera su Dostoevskij è quindi semplicemente ridondante. Non va a fondo. Se la letteratura ha un merito sociale questo è il parametro ottimale che ci mostra, il maximum spirituale. E qui l’uomo metafisico di Dostoevskij vale di più del razionalista ferito, di Kundera, per quanto questi sia moderno e comune.. (…) Quella di Dostoevskij è una battaglia tra fede e utilitarismo, oscillare tra abisso del bene e del male. Qui c’è dello sporco per Kundera. Un’esagerazione, sostiene. Ma Dostoevskij non è miope come vuole Kundera. Più complesso. Meno gestibile. Kundera sente poco o nulla di ciò. Dostoevskij sorge contro gli agnostici stile Kundera. È prodotto da loro, da questi riduzionisti”.

Dostoevskij ha avuto un “erede spirituale” nel Novecento: Aleksandr Isaevič Solženicyn. La studiosa di Dostoevskij, Lyudmila Saraskina, autrice di una monumentale biografia dello scrittore premio Nobel (Solženicyn, Edizioni San Paolo, 2010) sostiene che c’è continuità tra loro: “Solženicyn ha tracciato nel XX secolo la medesima linea di indagine artistica e pubblicistica della vita russa, delineata nel XIX secolo da Dostoevskij. Parlando in senso metaforico, i personaggi de I fratelli Karamazov (che hanno rispettivamente 20, 24 e 28 anni) nella maturità sarebbero finiti sotto la ‘Ruota rossa’ della rivoluzione, e ciascuno avrebbe dovuto fare la propria scelta di vita. La vicenda di Solženicyn mi è apparsa estremamente interessante, perché vi ho scorto lo stesso potenziale di esperienza esistenziale e letteraria che possedeva Dostoevskij. I due scrittori sono molto simili nello sviluppo della propria concezione del mondo, nelle proprie ricerche e tensioni spirituali” (Solženicyn, l'erede di Dostoevskij, in: “La nuova Bussola”, 11/12/2010). Solženicyn, nel suo celebre discorso di Harvard (8/06/1978; in: Discorsi americani, Mondadori, 1976), colloca il punto di partenza dell'attuale crisi dell'Occidente nel Rinascimento: “Ha fatto un uomo su misura di tutte le cose sulla terra: uomo imperfetto, che non è mai libero da orgoglio, interesse personale, invidia, vanità e da dozzine di altri difetti. Ora stiamo pagando gli errori che non si sono valutati correttamente all'inizio del viaggio. Dal Rinascimento ai nostri giorni abbiamo arricchito la nostra esperienza, ma abbiamo perso il concetto di un'entità completa suprema che ha trattenuto le nostre passioni e la nostra irresponsabilità”. Come ha notato Kundera: “È la Russia, la Russia come civiltà separata, che viene spiegata e rivelata dalla valutazione di Solženicyn, perché secondo lui la storia della Russia differisce dalla storia dell'Occidente proprio per la mancanza di un Rinascimento e dello spirito che ne è derivato. (…) Questo è il motivo per cui la mentalità russa mantiene un diverso equilibrio (o squilibrio) tra razionalità e sentimento: in esso troviamo il famoso mistero dell' “anima russa” (la sua profondità come la sua brutalità)”. E anche Iosif Brodskij, nel suo saggio Catastrofi nell’aria (1984; in: Il canto del pendolo, Adelphi 1987), dopo aver affermato che Dostoevskij, anche per il suo tempo, fu un fenomeno isolato e autonomo, senza eredi in Russia, dice che Solženicyn mentre è stato un eroe nel palesare le brutalità del comunismo sovietico, non è riuscito a vedere la probabilità che i crimini storici che lui ha portato alla luce siano la conseguenza del carattere autoritario ereditato dalla vecchia Russia e dello "spirito severo dell'Ortodossia" (da lui idolatrato), e non imputabili quindi solo all'ideologia politica.

Per noi occidentali, anche quando amiamo molto la cultura russa, non è facile capire a fondo certi aspetti del contorto pensiero russofilo di Dostoevskij e Solženicyn. Ci stupisce il fatto che, seppur perseguitati entrambi dal Potere per le loro idee e i loro scritti e passati ambedue per i campi di lavoro forzato, siano così profondamente nazionalisti e antioccidentali. Nel 1994 Solženicyn ritornò a vivere in Russia, accolto con tutti gli onori e accentuò la sua critica, già espressa nella Lettera ai capi dell’URSS (1973). La sua irriconoscibile Russia lo faceva star male per “il degrado e la selvaggia sottomissione all’Occidente, la sua disgregazione economica e spirituale, la televisione e l’orrenda musica”. Apprezzò però sin da subito Vladimir Putin riconoscendogli di essere in grado di ricostituire un Paese forte e con una salda identità nazionale. Il presidente russo lo andò varie volte a trovare e si trovarono molto d’accordo. Solženicyn criticava le politiche di confine del governo sovietico e sosteneva una “Unione russa” che comprendesse Ucraina, Bielorussia, Russia e le parti etniche russe del Kazakistan. Era convinto della necessità dell’unità di fondo dei popoli bielorusso, ucraino e russo, tre rami storicamente separati “dall’invasione mongola e dalla colonizzazione polacca”: “Siamo emersi tutti insieme dalla preziosa Kiev, da cui è iniziata la terra russa, secondo l’antica Cronaca di Nestore”. Nel saggio Ricostruire la Russia (1990) Solženicyn riconosce la sofferenza degli ucraini sotto i sovietici, ma afferma che non c’è motivo di “tagliare fuori l’Ucraina” e, soprattutto, “quelle parti che non facevano parte della vecchia Ucraina… Novorossia o Crimea o Donbass e aree praticamente fino al Mar Caspio”. Prefigurando la retorica russa odierna, Solženicyn afferma che, se l’Ucraina vuole essere indipendente, allora quelle regioni dovrebbero avere “l’autodeterminazione”. L’11 dicembre 2018, Putin inaugurò un monumento in onore dello scrittore russo affermando che “Solženicyn, nel suo esilio, non ha mai permesso a nessuno di parlare male o con sufficienza della sua madrepatria”. È persino ovvio affermare che l’Occidente non è certo in guerra contro due grandi scrittori come Dostoevskij e Solženicyn, ma i loro scritti ci aiutano a capire perché la Russia si senta, da quasi un paio di secoli, non solo per ragioni geopolitiche, contro l’Occidente.

Pubblicato in: AA VV, Il mondo dopo Putin. Storie e ritratti, a cura di Paola Peduzzi e Matteo Matzuzzi, Edizioni de Il Foglio, aprile 2022

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

19 maggio 2022

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