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Educare alla scelta: è possibile?

di Amedeo Vigorelli

Il filosofo Arthur Schopenhauer, a quell’epoca (1839) ancora in cerca di gloria letteraria, partecipò (risultando vincitore) ad un concorso indetto dalla Accademia delle scienze norvegese, con uno scritto su La libertà del volere umano. Per affrontare il difficile problema del libero arbitrio, mise in scena un dialoghetto tra l’uomo di buon senso e il filosofo, che inizia con questo scambio di battute:

Filosofo: “Tu pensi di essere libero?”
Benpensante: “Certo”.
Filosofo: “Perché lo pensi?”.
Benpensante: “Perché posso fare ciò che voglio. Se lo voglio”.
Filosofo: “D’accordo. Ma io non ti avevo domandato questo. Sei certamente libero di fare o non fare ciò che vuoi. Ma sei altrettanto sicuro di poter volere quello che vuoi?”

E qui il senso comune è costretto al silenzio, ed è il filosofo a prendere il sopravvento, sino a concludere che la libertà del volere è certa, ma la sua giustificazione ultima rimane un enigma, avvolto entro un mistero più grande: che cosa è volontà?

Da sempre il senso comune e la filosofia si contendono la spiegazione di quel fatto semplicissimo e misterioso che è la libertà, intesa come capacità di scegliere tra due alternative possibili, ciò che appare meglio per noi o più giusto.

Quello che per ognuno di noi è il sentimento oscuro e vago, ma inseparabile dalla nostra coscienza personale, della libertà, viene tradotto dai filosofi in modi diversi e spesso contraddittori, come capacità di giudizio, razionalità, forza di volontà, impulso passionale, motivazione inconscia, ecc., col risultato di rendere complicato ciò che ritenevamo semplice, e difficile quel che ci appariva facile ed evidente.

Qui ci viene in soccorso il moralista, ricordandoci che non esiste “Nessun maggiore segno d’essere poco filosofo e poco savio, che volere savia e filosofica tutta la vita” (G. Leopardi, Pensieri, XXVII). Vivere bisogna in ogni caso: e non c’è altro modo, per l’essere vivente, di sapersi e di sentirsi vivo, se non quello di agire, e dunque di scegliere ciò che appare, relativamente a noi, buono o migliore.

Ma è possibile educare alla scelta responsabile, rendere consapevole l’individuo di questa possibilità unica di manifestare il proprio sé autentico, di dichiarare in pubblico chi egli è veramente, e non chi gli altri ritengono o pretendono che egli sia? È nella scelta, imprevista e imprevedibile, sempre arrischiata, che l’io si espone all’altro senza maschera e finzione, ossia (come pensava Rousseau) in forma non alienata. I Greci antichi usavano il termine medico krisis per indicare l’atto finale e risolutivo della separazione degli elementi organici tra loro malamente mescolati e confusi, che determinano lo stato di malattia o di salute del corpo. E krisis deriva da krino: che significa giudico, distinguo, separo.

Non tutte le scelte che si compiono quotidianamente corrispondono a una decisione così radicale. Nelle società tradizionali (quelle che i sociologi chiamano società chiuse) quasi mai l’individuo è posto di fronte a questa radicalità di giudizio. L’educazione alla scelta, in queste società naturali, avviene per semplice imitazione dei modelli accettati e consolidati dalla tradizione e dall’esempio. Ancora Aristotele sosteneva che la scelta morale è un abito che si acquisisce per imitazione. Si diventa virtuosi, imitando l’esempio degli uomini migliori, riconosciuti come tali dal giudizio dei loro concittadini. Si agisce bene e rettamente, per la vergogna di essere giudicati male dai propri pari.

Nelle società moderne (quelle che rivendicano a sé una superiorità rispetto a quelle tradizionali in quanto aperte, ossia libere e democratiche) si afferma invece l’individualismo, e la coscienza isolata si trova sovente senza punti di riferimento assoluti o stabili, in preda al dubbio e all’incertezza. Qualcosa di simile avviene anche naturalmente, nello sviluppo organico delle persone: l’adolescenza, ossia la transizione difficile dall’infanzia alla maturità, è spesso caratterizzata come crisi, momento di passaggio aperto a possibilità opposte e imprevedibili. Naturalmente, ad aiutare l’individuo alla scelta responsabile e razionale, anche nella nostra società interviene il costume, l’insieme delle regole accettate e imposte dall’educazione, che prende il posto della semplice imitazione istintiva o tradizionale. Le ideologie, le forme codificate del credo religioso, i modelli culturali appresi e assimilati, offrono all’individuo un sostituto della mera obbedienza all’autorità, come criterio di scelta libera e responsabile.

Ma anche le società moderne ed aperte (queste anzi più delle altre) si trovano esposte al rischio della crisi. Il Novecento, ad esempio, il secolo della guerra e dei totalitarismi, è stata anche l’epoca che ha reso popolare e a tutti noto questo termine. Al Novecento appartiene (anche se le sue origini teoriche risalgono al secolo XIX) una forma culturale e una filosofia caratterizzata proprio come filosofia della crisi: l’esistenzialismo. Ora la crisi non è più intesa come fase adolescenziale, fase di crescita e di emancipazione dell’individualità, ma come crisi finale, totale negatività, crollo della civiltà e dei valori morali. È in epoche come questa che la fiducia nella possibilità di educare gli uomini alla scelta libera e responsabile viene meno, o è comunque esposta al dubbio e alla necessità di una verifica, che esclude la possibilità di trovare risposte retoriche o evasive. È in epoche come questa che l’individuo si trova abbandonato in solitudine di fronte alla propria coscienza: una coscienza che non appare più come trasparente specchio di virtù, ma come opaco e confuso caleidoscopio di possibilità di bene e di male, tra loro equivalenti, che si impongono sovente all’individuo che le sceglie come necessità, fatalità o casualità gratuite. Pensiamo solo al diverso e opposto comportamento che persone tra loro simili, col medesimo grado di educazione, con analoghi sentimenti e disposizioni, hanno rivelato di fronte alla disumanità delle guerre, delle stragi e dei genocidi, dei totalitarismi, dei lager e degli apparati dello sterminio, di cui la storia del secolo breve (come l’hanno, forse un po’ troppo scaramanticamente, chiamato gli storici a noi più vicini) è stata costellata.

Dobbiamo anzitutto chiedere: chi educa l’educatore? E la risposta non può essere che una: la comunità. L’educazione alla scelta non può essere svolta in solitudine, per semplice apprendimento intellettuale. Essa è fondamentalmente apertura all’altro, alla scoperta dialogica e relazionale della co-appartenenza dell’Ego al destino comune, di cui fa esperienza nei movimenti esistenziali della accoglienza (famiglia), della difesa (lavoro), della verità (cultura). Così il filosofo ceco Jan Patočka caratterizzava il radicarsi della civiltà nel mondo naturale o mondo della vita, da cui vanno attinte le autentiche possibilità di sviluppo e crescita morale, senza le quali nessun progresso civile può definirsi tale. L’elemento cruciale è qui rappresentato dal terzo momento, in cui la verità, ossia la vita responsabile, rischiarata da una chiara visione del nostro essere nel mondo, è caratterizzata non come statica contemplazione e definitivo possesso del mondo, ma come movimento, ossia come apertura all’incontro con l’essere altro e con l’essere proprio, come modo di relazionarsi alle cose e alle persone circostanti. La vita nel suo significato più profondo, cioè la vita morale, è un essere in cammino, un procedere da…verso il fine, progettato dall’intelletto e anticipato dal desiderio.

Educare alla scelta è una pratica di educazione della volontà, il cui principio direttivo non può che essere rappresentato dalla conoscenza. Ma, affinché questo processo non rimanga isolato su un livello teorico astratto, è necessaria una parallela educazione sentimentale, la sola capace di radicare nel carattere personale gli scopi e i fini razionali che il soggetto via via individua come propri e comuni (non necessariamente come universali). Quelli che un po’ retoricamente ci piace indicare e proporre come i Giusti, quasi mai (o solo eccezionalmente) sono uomini speciali, che sono vissuti nella luce dell’Universale. Nella maggioranza dei casi sono uomini ordinari, che si sono scontrati con una realtà di fatto per loro inaccettabile. Una realtà che non smentiva soltanto tutti i principi ordinatori del loro mondo intellettuale, che li poneva di fronte a dilemmi irresolubili, a verità incomprensibili, ma che, più semplicemente, impediva loro di proseguire nella vita in base al sentimento profondo, e radicato nell’intimo, della verità e del bene: che sono idee astratte e generali, ma concretissimi e necessari punti di orientamento, segnavia indispensabili per potersi riconoscere come protagonisti di una storia, autori di una narrazione, di cui poter dar conto.

Kant riassumeva l’imperativo morale della scelta nella formula: fa quel che devi, avvenga ciò che può. Nietzsche, il suo prosecutore moderno, lo riformula nel linguaggio dell’individualismo: diventa ciò che sei. Si tratta (dobbiamo riconoscerlo) di formule vuote, o comunque non all’altezza delle sfide morali di fronte alle quali l’umanità contemporanea appare sovente smarrita e le sue guide morali afone. Forse potremmo formularle diversamente, prendendo da ciascuna l’essenziale: fai ciò che ti è possibile fare, e in cui soltanto puoi riconoscere te stesso. Educare alla scelta significa avere cura di sé e dell’altra persona, quella persona a cui possiamo rivolgere sensatamente il tu, in assenza del quale nemmeno io posso riconoscere me stesso, per quanto diversa od imprevista, rispetto alle mie attese normali o convenzionali, essa si presenti. Non siamo uomini per tutte le occasioni, e non possiamo scegliere a quali prove ci sottoporrà la vita. Ma dobbiamo persuaderci che una scelta è sempre possibile, che non ci sono vie obbligate da seguire, ma solo occasioni in cui esercitare la nostra libertà. Come diceva Jean Paul Sartre: siamo condannati alla libertà

Amedeo Vigorelli

Analisi di Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale Unimi

4 novembre 2019

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