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Essere Giusti: da Gino Bartali al Mar Mediterraneo

di Luigi Manconi

Un'immagine della conferenza online

Un'immagine della conferenza online

Il caso ha voluto che io apprendessi, tra i primi, dell’attività di soccorso nei confronti degli ebrei messa in atto da Gino Bartali. È stato un caso, perché ero amico del figlio di un rabbino toscano che durante il fascismo e gli anni della guerra era stato vicino a Gino Bartali e ne aveva conosciuto l’operato. La cosa mi colpì moltissimo, anche perché per ragioni culturali ero - e resto - un tifoso accanito dell’antagonista di Gino Bartali, Fausto Coppi, che rappresentava in qualche modo, sotto il profilo simbolico-culturale, l’alternativa che l’opinione pubblica italiana, come sempre amante dei conflitti a due, viveva in quell’antagonismo tra questi grandissimi campioni del ciclismo italiano e mondiale.
Scoprire quell’attività di Gino Bartali fu per me un’esplosione di curiosità, interesse e fascino, e quindi ne seguii le fasi successivi quando la vicenda divenne nota e fu conosciuto dall’opinione pubblica quanto Bartali avesse fatto.

Vorrei però innanzitutto fare una riflessione sul carattere di Gino Bartali. In vita, Bartali ridimensionò sempre con particolare determinazione quel suo ruolo avuto durante la dittatura e durante la guerra, lo ridusse a poca cosa, non ne volle mai parlare: si limitò a riconoscere di aver fatto quello che diceva essere stato “niente più che il suo dovere”. Addirittura arrivò in qualche intervista a sottrarsi e a ironizzare su questa immagine di eroe che gli si voleva assegnare.
Questo è il primo dato, il fatto che Gino Bartali, uomo indubbiamente di grande intelligenza, viveva con questa riservatezza e questa salutare tranquillità quell’attività davvero eroica da lui compiuta, riconducendola quindi a una sorta di atto doveroso proprio dell’essere persona sensibile e attenta alle relazioni con i suoi simili.
Il secondo elemento che voglio ricordare è che da poco è uscito un libro scritto da un sociologo che mette completamente in discussione quell’attività svolta da Gino Bartali. Io penso che questo libro sia sostanzialmente un’opera falsa, e tendo a riconoscere a Bartali i meriti che gli sono stati attribuiti. Quello che colpisce però è che ancora una volta sia in qualche modo irresistibile la tentazione di deturpare le statue, cioè di scalfire i monumenti, di sfregiare le figure che appaiono - meritatamente, nel caso di Bartali - come figure nobili.
Questo dimostra che l’essere Giusto è qualcosa di faticoso e di difficile, che porta con sé anche dolori e infamie.

Volevo partire da questo elemento perché mi sembra che la Giornata nazionale dei Giusti dell’umanità dev’essere in particolare la Giornata della giustizia, più e prima ancora che la Giornata dei Giusti. I Giusti sono coloro che hanno compiuto atti di giustizia, ma il fatto di aver compiuto tali atti non significa in alcun modo che si tratti di supereroi, né di santi.
Sono stati atti eccezionali compiuti in condizioni eccezionali, e in genere atti compiuti da persone ordinarie, da gente comune. Questo è un passaggio cruciale, è il senso stesso della Giornata dei Giusti, ne è il contenuto essenziale. Noi dobbiamo immaginare la Giornata nazionale dei Giusti dell’umanità come la Giornata nazionale delle persone comuni che compiono atti di giustizia, e che sono Giusti nel momento in cui compiono quell’atto. E, inoltre, dobbiamo immaginare che quell’atto compiuto non significhi che la loro condizione permanente sia una condizione “di santità”, una condizione di “Giusti per l’eternità”. Si tratta di persone come gli altri che fanno il bene e fanno il male, che conoscono la grandezza dell’atto eroico e che possono anche conoscere la meschinità dell’atto egoistico. Sono esseri umani, e cioè sono quella composizione terribile e magnifica allo stesso tempo di bene e di male, di grandezza e di miserie.

Sono cioè, come noi, perché ciascuno di noi, lo sappiamo, è capace di operare il bene e di commettere il male.
Ci sono però dei momenti in cui siamo chiamati a fare qualcosa di giusto, e ciò che ci qualifica è la capacità di rispondere a questa chiamata. Non è una nostra presunta superiorità, non è una grandezza geneticamente trasmessa dai nostri avi, e nemmeno una santità perseguita quotidianamente come una vocazione, è la nostra sensibilità che ci porta ad accogliere e rispondere a quella chiamata e a rispondere nel modo “giusto”. Questo non è semplice e non è di tutti, e non significa che coloro che rispondono sono santi e coloro che non rispondono sono dannati. Sono mille le circostanze che contribuiscono a fare sì che siamo in grado di rispondere positivamente oppure di voltare la testa dall’altra parte. Certo, c’è una grande questione, richiamata anche da Gabriele Nissim, che è quella dell’indifferenza. A Milano, al Binario 21 della Stazione centrale, la scritta che accoglie il visitatore di quel luogo - da cui partivano i treni blindati che portavano gli ebrei italiani verso i lager nazisti - è proprio la parola indifferenza. Perché è l’indifferenza che ottunde la sensibilità, che impedisce, quando siamo chiamati a scegliere, di rispondere adeguatamente. Ma questa giustizia della vita quotidiana, questo essere Giusti nell’ordinarietà della nostra esistenza, è anche più diffusa di quanto certi stereotipi ci inducano a pensare. Certo, bisogna avere spirito critico, e non è facile coltivarlo.

Ancora, l’indifferenza. Qualche anno fa coinvolsi la Senatrice a vita Liliana Segre e un altro ebreo romano sopravvissuto ai lager, Piero Terracina, in un’iniziativa che aveva come centro la questione del Mar Mediterraneo, cioè la tragedia di coloro che tentano di attraversare quel braccio di mare per giungere in Italia e in Europa. Ci muovemmo con grande delicatezza, perché sappiamo che le tragedie, i genocidi, le stragi, sono l’una diversa dall’altra, e che dunque qualunque assimilazione sarebbe errata. Non dicemmo quindi che le stragi del Mare Mediterraneo sono come il genocidio armeno o come la Shoah, anzi distinguemmo le vicende con cura, delicatezza e scrupolo - altro è il contesto internazionale, altri sono i responsabili, altro è il quadro geopolitico. Tra la Shoah e le stragi del Mediterraneo le differenze sono enormi, ma furono proprio Liliana Segre e Piero Terracina a dirmi che “c’è qualcosa di simile”. E questo qualcosa di simile è rappresentato proprio dall’indifferenza. L’indifferenza dell’Europa e del mondo nei confronti della deportazione degli ebrei - e poi dei lager, e di quanti nei lager accanto agli ebrei trovarono la morte - e l’indifferenza odierna della gran parte dell’opinione pubblica europea nei confronti dei naufraghi del Mediterraneo. Ecco, due tragedie diverse, due epoche diverse, soggetti diversi, ma qualcosa che accumuna, l’indifferenza.

Il Senatore Lucio Romano ha ricordato l’azione del pescatore di esseri umani nell’isola di Lesbo. Vorrei soffermarmi su un dato: negli ultimi vent’anni nel Mare Mediterraneo sono morte 20mila persone. Dall’inizio dell’anno, sono stati respinti verso i centri di detenzione in Libia 3mila migranti e profughi. In queste ore, alcune indagini della magistratura hanno come oggetto l’attività delle cosiddette Ong del mare, cioè di quelle Ong che prestano soccorso ai naufraghi nel Mediterraneo. Lasciamo lavorare la magistratura, naturalmente, però vigiliamo che queste indagini, se vi fossero responsabilità, si limitino a colpire tali responsabilità, ma non si allarghino come da anni si cerca di fare a colpire oltre le Ong il diritto al soccorso in mare, perché i Giusti dell’umanità sono stati in questi anni anche quei volontari, quegli operatori del soccorso in mare che hanno teso il braccio e la mano per soccorrere esseri umani che affondavano nelle acque del Mediterraneo. E come diceva Seneca, l’atto di porgere la mano è un atto fondativo della stessa essenza dell’umano.
È qui in gioco qualcosa di molto importante, perché il soccorso in mare è un diritto-dovere, è un obbligo, ed è un diritto che fonda l’intero sistema dei diritti fondamentali della persona, perché l’atto del soccorso è l’atto che fonda il legame sociale. L’individuo isolato scopre di non essere isolato, di non poter più continuare a essere isolato quando si trova in pericolo. L’individuo solitario che vive fuori dalle relazioni sociali scopre che ha bisogno dell’altro nel momento del pericolo, e l’altro gli tende la mano e lo soccorre perché a sua volta conta sul fatto che qualora si trovasse lui in uno stato di pericolo, qualcuno tenderà la mano per aiutarlo. Questo è il fondamento di quel legame di reciprocità - preferisco chiamarla così piuttosto che solidarietà - che è fondato sul bisogno che uno ha dell’altro, e su questo bisogno che uno ha dell’altro si fonda il legame sociale, cioè la stessa comunità umana.
Questo principio fondamentale oggi è messo in discussione, mentre si volta il capo dall’altra parte quando nel Mediterraneo, giorno dopo giorno, si perpetua una strage di esseri umani.

Ciascuno di noi sarà quindi un giusto per il suo pezzo di vita, per la sua parte di giornata, per i suoi minuti, per le sue ore, per quella che è la sua ispirazione e la sua volontà, quando sarà capace di dare il suo contributo affinché il diritto irrinunciabile al soccorso - il diritto-dovere, quest’obbligo morale e giuridico a soccorrere l’altro - non sia né penalizzato, né criminalizzato, né espunto dalla nostra vita collettiva, quando non sarà messo al bando, non sarà sottoposto a sanzioni, non sarà considerato un reato. Questo è ciò che ciascuno di noi potrà fare e in quel momento, difendendo quel diritto, nella sua vita quotidiana sarà un giusto.

Il testo è tratto dall'intervento di Luigi Manconi durante la conferenza online "Giornata dei Giusti dell'Umanità. Per non dimenticare quanti, nel passato e nel presente, si sono adoperati per i diritti umani, contro discriminazioni e totalitarismi", con Gabriele Nissim, Lucio Romano, Domenico Capobianco, Andrea Della Selva e Adele D'Angelo. Il video con tutti gli interventi è disponibile a questo link

Luigi Manconi, politico, sociologo, Coordinatore Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali

Analisi di

3 marzo 2021

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