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Europa e diritti umani

di Marcello Flores

Pubblichiamo di seguito la trascrizione dell'intervento che Marcello Flores, storico, già docente all'Università di Siena e direttore del Master Europeo in Human Rights and Genocide Studies, ha tenuto all'Incontro internazionale di GariwoNetwork, sul ruolo dell'Europa nell'evoluzione dei diritti umani e degli strumenti per tutelarli. 

La riflessione su cosa può rappresentare oggi l’Europa in un mondo non solo pieno di contraddizioni, ma anche di ombre estremamente pericolose, dovrebbe essere unita a un’altra riflessione, forse più generale, sul Settantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, che cadrà tra pochi giorni. Innanzitutto perché entrambi questi aspetti, l’Europa e la battaglia per i diritti umani, hanno sempre rappresentato due sfide sofferte e spesso contraddittorie al loro interno. Basti pensare che uno dei Paesi, all’epoca delle Nazioni Unite, meno inclini a voler approvare la Dichiarazione, era la Gran Bretagna.

La grande battaglia di allora fu proprio quella della universalità dei Diritti umani, che per la prima volta non solo spettavano a ogni persona, ma interessavano tutti in qualsiasi situazione si trovassero, superando così quei Diritti dei cittadini che erano stati, dalla fine del Settecento in poi, il cardine della cultura dei diritti.

Fin dagli anni Novanta, ci si chiede se il discorso sull’universalità dei diritti fosse una sorta di imposizione della cultura occidentale sui diritti a tutti gli altri Paesi. Tuttavia, occorre ricordare che, proprio all’interno della commissione di Eleanor Roosevelt che preparò la Dichiarazione universale, gli uomini che fondamentalmente lavorarono alla definizione furono un ebreo francese, un libanese e un cinese ,oltre alla stessa Eleanor Roosevelt. La capacità fu di riuscire a proporre una serie di visioni che andassero anche oltre l’individualismo tradizionale della cultura occidentale da Cartesio in poi (“cogito ergo sum”), anche se non sempre si riuscì a ritrovare una forma linguistica adatta: il cinese propose di cercare di tradurre dei termini della tradizione confuciana, ma alla fine non fu possibile, sebbene quest’ultima fu presente in tutta la Dichiarazione.

In tutto questo, non mancarono una serie di contraddizioni. La prima fu che, come un grande giurista inglese ricordò dopo la proclamazione della Dichiarazione, per circa trent’anni tale documento fu “messo in frigorifero”. La Guerra Fredda fece dimenticare, infatti, quei grandi principi.

Ma quando si riesce, tutti insieme, a sottoscrivere dei principi generali, quelli continuano a rimanere vivi anche durante momenti storici particolarmente difficili, come possono essere quelli di oggi. Tanto è vero che l’Europa - non nella forma dell’Unione Europea -, due anni dopo la Dichiarazione universale, fece un passo in avanti formidabile: quello della Convezione Europea dei Diritti Umani, opera del Consiglio d’Europa. Quest’ultima rappresenta qualcosa di diverso dall’Unione Europea, anche se alcuni nostri politici non sembrano conoscere bene questa differenza e confondono la Corte di Strasburgo, che è stata creata proprio da quella Convenzione approvata nel 1950, con la Corte del Lussemburgo.

La grande novità di questa iniziativa europea è stata quella di permettere la creazione di una Corte Europea dei Diritti Umani, a cui ogni individuo aveva la possibilità di appellarsi, se riteneva che i propri diritti fondamentali fossero stati messi in discussione dal proprio Stato. Questo è un aspetto che si dovrebbe far conoscere meglio, perché le decisioni che la Corte Europea ha preso nel tempo, non soltanto nei confronti dell’Italia - che in genere si sono focalizzate su due grandi aree tematiche, i migranti e le carceri, lasciando trasparire già due nostre grosse pecche strutturali - ma anche di altri Paesi, potrebbero essere delle illustrazioni molto serie e utili di quello che è avvenuto in Europa.

Ci sono stati poi una decina di protocolli aggiuntivi alla Convenzione Europea del 1950. Io vorrei citarne alcuni, che oggi sono particolarmente importanti, a cui l’Italia è vincolata, avendoli sempre approvati. Il Protocollo 4, Articolo 4, che riguardava il divieto di espulsioni collettive di stranieri; il Protocollo 7 del 1984, sulle garanzie procedurali per l’espulsione degli stranieri.

Il divieto di discriminazione, nel Protocollo 12 del 2000, diventò fondamentale, e oggi costituisce uno dei pilastri che l’Italia deve seguire per le proprie scelte, anche nazionali. Questo è un aspetto su cui occorrerebbe portare una maggiore attenzione.

Non dimentichiamo però che la storia dell’Europa è stata una storia estremamente contraddittoria. Proprio nel 1950, mentre da una parte si creava la Corte Europea dei Diritti Umani, era in corso quel processo, che finirà solo nel 1966, di traduzione della Dichiarazione universale dei diritti umani in Convenzione Internazionale dei Diritti Umani, cioè facendola diventare un qualcosa di cogente dal punto di vista giuridico per cui gli Stati che l’avessero sottoscritta, si sarebbero sentiti vincolati non solo moralmente, come nei confronti della Dichiarazione, ma anche giuridicamente.

Questo processo si concluderà con la creazione di due diverse convenzioni: quella per i Diritti Civili e Politici e quella per i Diritti Economici e Sociali. In una delle prime discussioni su queste convenzioni, nel 1950, i rappresentanti di Francia, Gran Bretagna, Belgio e Olanda proposero che la Dichiarazione universale dei diritti umani non fosse ritenuta obbligatoria nei Paesi coloniali, cioè quelli dove proprio Francia, Gran Bretagna, Belgio e Olanda avevano ancora il potere di sottomettere milioni di cittadini.

Proprio questa è l’ambivalenza che vediamo oggi e su cui dobbiamo vigilare, stando dalla parte giusta. In Polonia, come abbiamo visto nelle ultime settimane, stanno avvenendo due grandi manifestazioni: quella in difesa dei diritti, della Costituzione, della non sopraffazione della politica nei confronti della magistratura e della Costituzione, e quella di tutti i gruppi fascisti e neo fascisti europei. È questa divisione oggi presente in Europa che deve spingere la società civile a muoversi prevalentemente in una dimensione di “che cosa fare”, perché è la pressione sulle istituzioni e sulla politica, non l’attesa che quest’ultima possa cambiare attraverso le regole normali dell’evoluzione elettorale del tempo, a favorire il rispetto dei diritti umani. Credo che mai come oggi ci siano state tante organizzazioni della società civile che si occupano di diritti. Bisognerebbe trovare - e credo che Gariwo da questo punto di vista possa svolgere un ruolo fondamentale, proprio per la sua storia e per la sua dimensione europea e internazionale - un modo per spingere a individuare alcuni terreni in cui tutta la società civile, con le proprie organizzazioni, possa muoversi attorno a un tema fondamentale, che è uno dei capisaldi della Dichiarazione universale: quello della dignità. L’altra grande novità, insieme all’universalità, è fare riferimento alla dignità come quarto e nuovo elemento accanto a libertà, uguaglianza e fraternità. E la dignità è quella che è messa in discussione quando ci si trova davanti a violazioni, che sono tali anche se non vengono riconosciute spesso da molti governi, e che anzi, in qualche modo, si fregiano della volontà di colpire persone che ritengono non dover essere garantite, in quanto mettono in discussione la priorità dell’elemento nazionale. Io credo, per esempio, che una protesta di tutte le associazioni nei confronti della nomina a presidente della Commissione per i Diritti Umani del Parlamento Italiano di una senatrice che esplicitamente, in diverse occasioni, si è pronunciata con frasi razziste nei confronti dei rom e non solo, dovrebbe essere necessaria, poiché non è tollerabile che sotto una presidenza del genere si continui a parlare di diritti umani.

Quindi, da una parte è importante far conoscere e diffondere i principi e le proposte che la Convenzione Europea dei Diritti Umani permette di fare ora, le battaglie che consente di combattere, e spingere i governi a dare risorse - perché spesso i limiti che la Corte Europea dimostra sono limiti dovuti alla mancanza di tali risorse. Dall’altra parte è importante soprattuto riuscire a intraprendere campagne europee a partire dalla società civile, per non aspettare la mobilitazione politica. Io credo che solo questa mobilitazione possa dare dei risultati, perché è sul versante della cultura, dell’educazione e della costruzione della sensibilità che è possibile muoversi. E da questo punto di vista, non posso che farmi portatore delle proposte di Gariwo e di Gabriele Nissim, aggiungendo quella di muoversi anche in una direzione di maggior collegamento con le altre associazioni che si occupano di diritti, a favore di una battaglia comune.

Marcello Flores

Analisi di Marcello Flores, storico

29 novembre 2018

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